11 febbraio 1990. Una data destinata a entrare con forza nei libri di storia, in grado di cambiare per sempre le sorti di un paese intero. Forse persino del mondo. E come si affronta una giornata del genere? C’è forse la consapevolezza di ciò che si sta per vivere? Probabilmente no. Quell’11 febbraio 1990 nemmeno Nelson Mandela in persona pensa al ruolo che è destinato a ricoprire, ma nella sua testa c’è solo la trepidante attesa di rivedere finalmente il mondo fuori dal carcere. Di prendere la mano della sua Winnie, camminare uno al fianco dell’altra. Sentire i raggi del sole che scaldano il viso, alzare gli occhi e guardare il cielo, intorno la libertà. Senza quegli altissimi muri che soffocano il respiro. Senza lo sguardo ossessivo delle guardie, o quello guardingo dei compagni di prigionia. Solo tutto il mondo intorno a sé, senza limiti.
Pazientemente il prigioniero 466/64 aspetta che arrivi quel momento tanto atteso. Si sveglia, per l’ultima volta dietro le sbarre. Meccanicamente compie tutti quegli atti che, da 27 terribili anni, sono ormai diventati routine. Tutto quel tempo è passato, eppure quelle ultime ore faticano a trascorrere. Poi arriva il momento. La guardia lo chiama, lo accompagna a riprendere le proprie cose. L’emozione è palpabile. Raggiunge sua moglie, le prende la mano. Insieme i due percorrono il corridoio che porta fuori, lontano dall’incubo. Nel mondo.
All’esterno la luce dei flash acceca gli occhi. Istintivamente deve alzare il braccio, porlo davanti al viso. Strabuzza le palpebre, ma sul viso si disegna la linea di un ampio sorriso. Lì fuori c’è una macchina ad attendere, la coppia vi sale, senza mai lasciarsi la mano. Fuori dalla vettura centinaia di fotografi cercano di immortalare quel momento storico. L’auto si fa strada a fatica tra le persone, poi prende il via. Corre lungo la strada e porta Mandela a Città del Capo. Lì ci sono altri giornalisti. Un popolo festante. Il leader finalmente libero allora decide di abbracciare quella gente. Si affaccia dal municipio. Un pugno si alza al cielo. La folla esplode. Mandela è finalmente libero.
Le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti
Quell’11 febbraio 1990 finiscono 27 anni di inferno per Nelson Mandela. È il 1963 quando il leader dell’ANC viene arrestato e condannato per sabotaggio e tradimento. Partito dal villaggio di Mvezo, nel sud est del Sudafrica, il futuro capo di stato del paese si reca all’età di 23 anni a Johannesburg per studiare giurisprudenza. Presto si avvicina all’ANC, l’African National Congress, partito d’opposizione al governo del Paese che tramite l’Apartheid opprime la popolazione nera del Sudafrica. Sin da giovane, s’impegna attivamente nella lotta contro l’oppressione, diventa segretario giovanile del partito, raccoglie un numero sempre più crescente di proseliti e inizia a predicare, con convinzione, la resistenza non violenta, sull’esempio degli insegnamenti di Ghandi in India.
La storia del Sudafrica è costruita sull’oppressione, sull’opposizione tra bianchi e neri. Sull’Apartheid. Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel paese africano si accentua la separazione tra persone bianche e nere. Vengono istituiti registri pubblici divisi per razze, alle persone di colore viene vietato di usufruire delle stesse strutture pubbliche dei bianchi e di abitare nelle loro stesse zone. La popolazione nera viene progressivamente ghettizzata e il dominio bianco cala con tutta la sua cruenta spietatezza sul Sudafrica. Il termine Apartheid indica proprio questa politica di segregazione razziale che ha inizio nel 1948 e si prolunga fino agli anni ’90.
Mandela e l’ANC combattono tutto ciò, ma è una lotta impari. Nel 1960 la polizia apre deliberatamente il fuoco sui dimostranti neri, provocando un massacro che scuote il paese. Da quel momento la lotta tra il governo e i suoi oppositori diventa ferrata e soprattutto armata, con l’ANC che si dota del suo corpo militare: la Lancia della Nazione. La reazione del governo è durissima. L’opposizione viene messa a tacere con soprusi e arresti e nelle mani della giustizia finisce anche Nelson Mandela, che viene condannato nel celebre processo di Rivonia, dal nome della località dove tutto lo stato maggiore dell’ANC è stato catturato.
La lotta di Madiba però non si ferma, continua all’interno del carcere. Mandela continua a sposare la causa della transizione pacifica verso la democrazia, prosegue nell’esaltare la non violenza. Nonostante ciò che è costretto a vivere, non perde la sua fiducia nella pace. Il suo volto diventa quello della lotta contro l’Apartheid, il “Free Mandela” si afferma come un movimento con una forza sempre crescente, che raggiunge il proprio obiettivo nel 1990, quando il presidente del Sudafrica, Frederik De Klerk, ordina la scarcerazione di Nelson Mandela, e indice le prime elezioni libere dal paese. È il trionfo della resistenza di Madiba e l’inizio della rinascita del Sudafrica.
L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità
Una volta fuori di prigione, Nelson Mandela si dedica immediatamente alla realizzazione del suo disegno politico. Del suo sogno di un Sudafrica libero dalle discriminazioni. La piaga dell’Apartheid aveva segnato duramente il paese: nel corso di quegli anni che andavano dal dopoguerra all’elezione di Mandela come presidente del Sudafrica, la popolazione nera, cinque volte maggiore rispetto a quella bianca, si è vista privare dei più semplici diritti umani, espropriare terre e ricchezze, rubare il futuro e la libertà.
Ora, Mandela vuole restituire alla sua gente tutto quello che gli è stato tolto, ma per farlo non sceglie la via della vendetta, bensì quella della pace. Nel 1994 Madiba vince le elezioni e diventa il primo presidente nero del Sudafrica e, come suo vice, sceglie proprio Frederik De Klerk, un bianco. Il trionfo di Mandela segna la fine dell’Apartheid, almeno sulla carta. Per risanare le ferite di cinquant’anni di soprusi e di discriminazione serve qualcosa in più che delle manovre politiche. Serve una transizione, un cambiamento profondo e Mandela sceglie di percorrerlo tramite la via più lunga, che però è anche quella migliore per il futuro.
Il nuovo presidente del Sudafrica non usa l’arma della vendetta contro i bianchi che avevano soffocato la popolazione nera fino a quel momento, ma sceglie quella del perdono. Cerca di favorire una transizione pacifica verso la democrazia che passi per l’integrazione di quelle due anime del paese, tanto incompatibili e inconciliabili. Sceglie la pace, mai la guerra.
Mandela cerca di creare un paese in cui bianchi e neri possano coesistere pacificamente e per farlo ricorre a un’arma in particolare, che si rivelerà tremendamente efficace: lo sport.
Non c’è nessuna facile strada per la libertà
Lo sport in Sudafrica è stato, fino a quel momento, lo specchio della situazione sociale del paese. Il rugby era la disciplina principale, quella preferita dai bianchi e di conseguenza odiata dai neri. Al contrario, il calcio era il gioco favorito dalle persone di colore, e considerato troppo inferiore dalla popolazione dominante. Lo sport è una parte fondamentale della cultura sudafricana e anche della formazione dello stesso Mandela, che si appassiona in maniera profonda al pugilato sia in età giovanile che negli anni della prigionia.
Per tutta la seconda parte del Novecento lo sport in Sudafrica ha però risentito profondamente dell’Apartheid, tanto che il paese è stato progressivamente cancellato dalla geografia sportiva in quegli anni. Per quanto riguarda il calcio, non esistevano squadre miste, ma bianchi e neri giocavano in leghe separate. L’ultima apparizione ufficiale della Nazionale sudafricana risaliva al 1955, un’amichevole contro l’Australia, poi lo stato africano venne espulso dalla CAF e dalla FIFA a causa dell’Apartheid. Stessa cosa fecero il comitato olimpico e la federazione rugbistica internazionale.
Per quasi quarant’anni, lo sport sudafricano non esiste agli occhi del mondo. Vive solo internamente, ma anche qui con enormi crepe, tra leghe divise e una mescolanza razziale assolutamente proibita. Un primo, piccolo passo, verso l’integrazione risale al 1977, quando Vincent “Tanti” Julius diventa il primo calciatore nero a giocare in una squadra di bianchi nell’Arcadia Shepherds.
La rinascita dello sport sudafricano avviene poi con l’avvento di Mandela alla presidenza del Paese e la fine dell’Apartheid. Il leader capisce immediatamente l’importanza di questo elemento come chiave per l’integrazione delle due anime del paese e cerca di sfruttarlo al meglio. Nei suoi primissimi anni di presidenza, gli capitano subito due grandissime occasioni, che Mandela riesce a sfruttare al meglio per compiere dei passi in avanti, tramite lo sport, verso la democratizzazione e l’integrazione razziale del Sudafrica.
Il perdono libera l’anima
La prima occasione è rappresentata dal Mondiale di rugby del 1995. Il gioco con la palla ovale è, come detto, tradizionalmente lo sport dei bianchi e quindi viene percepito in chiave profondamente negativa dalla popolazione nera. A tal proposito, un episodio molto spiacevole avviene nel 1992, quando prima del match tra Sudafrica e Nuova Zelanda, che segna il gran ritorno degli Springbooks sulla scena internazionale, l’ANC chieda che venga rispettato un minuto di silenzio per le vittime dell’Apartheid. Quando lo speaker chiama però l’inizio di quell’osservanza, viene intonato Die Stem, l’inno nazionale tradizionalmente associato all’Apartheid. Da quel momento, l’ANC vieta l’esecuzione di quel brano, che viene sostituito con l’inno alla gioia di Schiller per i successivi impegni sportivi.
Quel precedente contribuisce a gettare ombre oscure sul rugby, ma Nelson Mandela non se ne cura e nel 1995 sfrutta la possibilità di organizzare il Mondiale dedicato alla palla ovale, assegnatogli dall’International Rugby Football Board. Per l’occasione, Madiba convoca il capitano della Nazionale, Jacobus Francois Pienaar, incaricandolo di rappresentare il trait d’union tra quella selezione elitaria e l’enorme popolazione nera apertamente diffidente verso quella disciplina. Da quel momento, prendono il via molte iniziative per avvicinare le persone di colore al rugby e così il Sudafrica arriva al Mondiale del 1995 con uno spirito del tutto nuovo.
Il sostegno alla Nazionale di rugby serve anche a Mandela per abbattere la diffidenza della popolazione bianca, che continua comunque a rappresentare l’élite del paese. In pubblico, il capo di stato indossa un cappello verde, chiaro omaggio al colore tradizionale delle casacche degli Springbooks. Lui stesso diventa il primo sostenitore di quella Nazionale, fungendo da modello a tutta la popolazione nera. L’assist definitivo viene offerto proprio dalle prestazioni della selezione africana, che raggiunge la finale della competizione e si aggiudica il torneo battendo, col risultato di 15-12, gli All Blacks nella cornice dell’Ellis Park di Johannesburg il 24 giugno 1995.
Dal 1992 al 1995, dalla Nuova Zelanda alla Nuova Zelanda. Tutto è cambiato per il Sudafrica, che nel festeggiare il trionfo nel Mondiale di rugby pare un paese più unito. Mandela che premia il capitano degli Springbook diventa la prima fotografia dell’integrazione del paese tramite lo sport: un nero e un bianco che possono festeggiare insieme, liberi da pregiudizi e discriminazioni.
Tutti siamo nati per essere fratelli
Dopo il trionfo del 1995, una nuova occasione si presenta a Nelson Mandela appena un anno dopo. Madiba era riuscito a far accettare ai neri lo sport dei bianchi: ora toccava fare il contrario. Dopo la lunga esclusione da qualsiasi competizione ufficiale, il Sudafrica viene riammesso nella Fifa nel 1991 e il 7 luglio 1992 torna a disputare un’amichevole, contro il Camerun di Roger Milla a Durban.
Per rilanciare il calcio sudafricano, Madiba approfitta della rinuncia del Kenya all’organizzazione della Coppa d’Africa 1996, sobbarcandosi dell’onere di accogliere la competizione. Il Sudafrica torna a disputare quindi un torneo calcistico internazionale e lo fa con una squadra fortemente variegata. In porta c’è il meticcio Andre Arendse, in difesa i neri Sizwe Mothaung e David Nyathi, insieme ai bianchi Neil Tovey, capitano della squadra, e Mark Fish, passato anche per l’Italia con un’anonima stagione alla Lazio. A centrocampo un altro bianco, Eric Trinkler, e i neri Linda Buthelezi, John Moshoeu e “Doctor” Khumalo, una vera e propria leggenda per il calcio sudafricano. In avanti altri due meticci, Shaun Bartlett e Mark Williams, si alternano al fianco di Philemon Masinga, che in Italia vestirà le maglie di Salernitana e Bari.
In panchina, a condurre quella Nazionale, c’è il CT Clive Barker, uno dei pionieri dell’integrazione razziale in Sudafrica, essendo stato tra i primi bianchi ad allenarsi con squadre composte da neri. Questa squadra multietnica diventa l’arma perfetta per Nelson Mandela per continuare la sua opera di integrazione tramite lo sport, per avvicinare anche i bianchi a quello sport lontano e per far capire ai neri che si può convivere con quelli che fino a poco tempo prima erano nemici, ma che ora sono solo dei connazionali.
Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso
Prende il via, quindi, la Coppa delle Nazioni africane del 1996 e il Sudafrica parte fortissimo, battendo a Johannesburg il Camerun con un netto 3-0, con le firme di Masinga, Williams e Moshoeu. Nella seconda giornata del girone, i Bafana Bafana hanno la meglio anche sull’Angola, grazie a una rete di Williams, prima di cadere all’ultima giornata con l’Egitto. Il Sudafrica si piazza comunque primo nel girone, sopravanzando gli egiziani a causa della migliore differenza reti.
Nei quarti di finale, il Sudafrica si libera dell’Algeria con una vittoria emozionante. Fish segna il vantaggio al 72’, poi all’84’ arriva il pareggio degli algerini con Lazizi, ma un minuto dopo Moshoeu segna il gol che regala al Sudafrica la semifinale.
Moshoeu è il mattatore anche della sfida contro il Ghana, che regala la finale al Sudafrica. Nel 1996 il centrocampista gioca in Europa, precisamente in Turchia, con la maglia del Kocaelispor dopo essere arrivato nel vecchio continente grazie al Gencleblirgi. La sua doppietta, insieme alla rete di Williams, regalano al Sudafrica il 3-0 che vale la finalissima di Johannesburg.
Il 3 febbraio 1996, 80.000 sudafricani spingono la propria nazionale alla conquista di quella coppa. Di fronte c’è la Tunisia, che dopo aver passato per seconda il girone, alle spalle del Ghana, si è liberata nella fase finale di Gabon e Zambia. Il protagonista di giornata è stavolta Williams, attaccante in forza al Wolverhampton, arrivato proprio l’estate prima in Inghilterra. Una sola stagione per lui oltremanica, molto deludente con la squadra che arriva ventesima in First Division e lui che torna in patria al termine dell’anno. Quel 3 febbraio però una sua doppietta regala al Sudafrica la vittoria della prima Coppa d’Africa della sua storia, un trionfo destinato a entrare nella storia.
Otto mesi dopo, l’immagine di Nelson Mandela che premia il capitano bianco della Nazionale sudafricana si ripete. In quel lasso di tempo, lo sport ha unito ancora di più il Sudafrica, con bianchi e neri che ormai tifano insieme, si sostengono ed esultano. Uno scenario impensabile qualche anno prima, una realtà resa possibile dalla vittoriosa scommessa che Nelson Mandela ha fatto sulla forza unificatrice dello sport.
Ho dedicato tutta la mia vita alla lotta del popolo africano
Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione. È più potente dei governi nel rompere le barriere razziali, è capace di ridere in faccia a tutte le discriminazioni
La lotta contro l’Apartheid in Sudafrica è stata lunga e faticosa, ma ha avuto una spinta molto importante dallo sport. Il culmine del favoloso lavoro di Mandela in questo ambito arriva nel 2010, quando il Sudafrica ottiene l’organizzazione dei Mondiali di calcio, il più prestigioso, e sicuramente più importante a livello mediatico, torneo sportivo del mondo dopo le Olimpiadi. Il paese diventa il primo, nel continente nero, a organizzare questa manifestazione, un’enorme conquista per tutta l’Africa.
Per tutta la vita Nelson Mandela ha combattuto per la democratizzazione del suo paese, per l’integrazione e per il superamento di quelle discriminazioni che per 50 anni hanno flagellato il Sudafrica. Dal 1990 ha potuto farlo avvalendosi dell’arma della lotta istituzionale e Madiba ha trovato un alleato molto importante nello sport, dando dimostrazione di quanto possa essere importante come motore di integrazione sociale a ogni livello. Il capolavoro è stato credere nei suoi sani valori, in tutta la sua potenza tale anche da armonizzare due anime di un paese che per tantissimi anni sono apparse troppo diverse e inconciliabili.