Una volta, chiacchierando con una mia amica, parlavamo dell’importanza di fare le cose bene. Il detto “Il fine giustifica i mezzi” lo conosciamo tutti, ed è condivisibile o meno, a seconda degli istinti che ci muovono come esseri umani. Per rendere chiaro il pensiero che stavo esprimendo, mandai questo video alla mia amica, una conferenza stampa di Marcelo Bielsa di quando allenava all’Athletic Bilbao. Durante la stessa, “El Loco” racconta una storia illuminante di quando era un bambino, e viveva in un barrio di Rosario, dove il rispetto si guadagnava con la fatica. C’erano famiglie che lavoravano tanto per permettersi un Seat, e altre che vincevano alla lotteria e compravano un Mercedes-Benz. C’era chi veniva stimato perché aveva il Seat, ma soprattutto perché aveva lavorato per poterlo acquistare. Ancora una volta, l’eterno scontro tra processo e risultato. Forse questo è il primo momento nella vita di Marcelo Bielsa in cui si è trovato di fronte al bivio che ha caratterizzato la sua vita, la sua carriera e il suo credo.
Le origini di Bielsa sono molto importanti nella formazione della sua personalità e ideologia. E’ nato nel 1955, e ha vissuto nell’Argentina dei desaparecidos, dei governi militari, dei colpi di stato, quando il suo Paese era orfano del generale Juan Perón. E’ cresciuto sapendo che un giorno poteva toccare anche a lui, diventare un desaparecido. Una volta ci andò vicino: rapirono – e torturarono – suo fratello, per mesi nessuno ha saputo che fine avesse fatto Rafael Bielsa. Poi ricomparve in Spagna, condannato a tre mesi di esilio. La storia politica dell’Argentina non è molto diversa dal grande mostro che Marcelo Bielsa ha ostracizzato in tutta la sua vita: l’ingiustizia.
Nella conferenza stampa di prima, Bielsa è sereno quando dice che “l’ingiustizia è molto comune”, in riferimento al fatto che non deve spaventare se si ottiene meno di quanto si meriti effettivamente. È il contrario che deve impaurire, secondo “El Loco“. È vincere non meritandolo, avere ragione nel torto, comprarsi il Mercedes con soldi vinti senza merito alcuno. La crociata di Marcelo Bielsa si è fondata su questo purché il calcio venisse usato come vettore di un messaggio più grande. Un motto il suo, un compito assolto in maniera religiosa, a cui si è dedicato sacrificandosi senza che nessuno, a parte sé stesso, glielo chiedesse.
Marcelo Bielsa ha vinto quattro campionati e un oro olimpico nella sua lunga carriera sulla panchina, un bottino evidentemente misero per tutto quello che ha fatto per il calcio, per il suo lascito – come detto prima, «la injusticia es muy común», la sua influenza che copiosa ha lasciato il segno su quello che trent’anni fa veniva definito il calcio del futuro, cioè il calcio del presente. La chiave per tutto questo è sempre stata sotto gli occhi di tutti: lavorare per ottenere un risultato. Dopo il suo esonero col Leeds, l’ennesima triste conclusione a un capitolo della sua storia calcistica – vista l’età di Bielsa, forse l’ultimo -, possiamo dire con certezza che “El Loco” ha ottenuto ciò che voleva, perché pochi allenatori, anche tra i vincenti, possono dire di aver lasciato un’eredità, di avere dei discepoli. Marcelo Bielsa ha tenuto fede alla sua filosofia, “lavorare per ottenere un risultato”: nessuno lo ha mai detto che dovesse brillare come l’argento della Champions League, il risultato.
Negli ultimi mesi diversi giornalisti hanno raccontato come l’atmosfera nello spogliatoio del Leeds si fosse fatta pesante. I calciatori si dice fossero esausti, stremati dalla cura Bielsa, demoralizzati dall’assenza di risultati sul campo e penalizzati dai tanti infortuni. Ad avvalorare la tesi di parte della stampa ci ha pensato il campo, dal momento che il club inglese ha poi centrato la salvezza in Premier League guidato da Jesse Marsch. Lo stesso allenatore americano aveva detto la sua sulla condizione preoccupante in cui aveva trovato i calciatori al suo arrivo in Inghilterra. Improvvisamente, sembrava quindi che Bielsa fosse il lupo cattivo. Spesso si è discusso dei metodi d’allenamento del “Loco“, del suo approccio scientifico alla tattica, di come volesse legare i suoi giocatori a sé portando addirittura dei letti al centro sportivo, permettendo loro di riposarsi sul posto per non staccare mai la spina. Molti potrebbero interrogarsi su quanto equilibrato o meno fosse il modo di intendere il lavoro per Bielsa, se davvero il risultato valesse questi sforzi sovrumani. D’altronde, il soprannome di Bielsa, che non è casuale, può darci una risposta significativa, ma non completa.
Per arrivare a un responso, serve fare tappa a Leeds e respirare l’aria dello Yorkshire. Se fermate un passante e chiedete di Bielsa, è molto difficile che per l’allenatore rosarino non vengano spese parole al miele. Le strade di Leeds ci dicono cos’ha significato Marcelo Bielsa per la squadra della città – e per quest’ultima, e per i suoi cittadini, ai quali Bielsa ha sempre riservato un trattamento speciale, mescolandosi fra loro come se fosse davvero uno di loro: probabilmente, nella sua testa era veramente così -, inabissata in Championship al suo arrivo, tornata in Premier League dopo sedici anni di attesa accompagnata dal suo condottiero. Ci sono murales per Bielsa, ci sono tributi a ogni angolo della città, perché, ancora una volta, il risultato non è vincere il campionato di seconda divisione. Il risultato è rimanere impresso nella memoria collettiva, anche a costo di stressare i giocatori, perché il risultato richiede sacrifici. Chiedetelo a Kalvin Phillips e Raphinha cosa ne pensano di Marcelo Bielsa.
In Italia, da anni tiene banco il dibattito di cui sopra: processo contro risultato. Una volta, la Serie A era nota per gli 0-0, per le partite bloccate dalla tattica, le difese impenetrabili e allenatori che si sarebbero immolati per portare a casa un pareggio, piuttosto che provare a raggiungere una vittoria. Il calcio è bello anche per la sua diversità, perché può divertire senza passare per forza dal passing game. La scelta che si fa in virtù di questa è totalmente personale, ma ha sempre un fine insito: vincere, o almeno cercare di farlo, e in ogni caso provarci bene. Provocare l’errore avversario, non specularci su, senza mai rinnegare la ragione per cui ci si allena tutta la settimana.
È anche una questione di integrità, questa. Ciò che differenzia davvero Marcelo Bielsa da tutti gli altri allenatori del mondo non è lo studio approfonditissimo delle società e dei loro giocatori, l’approccio maniacale alle partite, la sua folle fame di dati e statistiche, la maniera vorace con cui divora ore e ore di filmati di allenamento delle sue squadre. Il fattore che rende Bielsa diverso ha a che fare solo con se stesso. Marcelo Bielsa è un signore di quasi settant’anni, cresciuto in una famiglia ricca in un Paese povero, castrato da governi meschini. Ha fatto l’edicolante per una parte della sua vita che spesso viene sottostimata nel racconto di lui. Bielsa è diventato Bielsa dietro al bancone, col confronto coi clienti, perché si è reso conto di cosa contava davvero in un’Argentina tenuta sotto scacco da direttivi sregolati.
Il mondo ha sempre avuto bisogno di integrità, quella che mancava in uno stato corrotto, dilaniato dalle ingiustizie, dalla povertà più assurda, mai osservata veramente al microscopio. Per tutti l’Argentina è un posto di immigrati italiani, buone grigliate, grandi giocatori di calcio, paesaggi belli da vedere in cartolina ma troppo lontani per essere visitati. Dietro, però, c’è un sottotesto tenuto all’ombra, su cui “El Loco” ha cercato di gettare luce per tutta la sua esistenza. Il suo popolo è campato per anni di promesse non mantenute, una condizione inaccettabile, perché assassina di ciò che si pone prima di tutto, fonda i rapporti umani e il Bielsa-pensiero, ossia il rispetto.
Marcelo Bielsa ha capito presto cosa contava davvero per lui: non i soldi, non la professione, ma qualcosa che non si può toccare con mano, non si può vedere, ma si può misurare guardando negli occhi il prossimo. Quando era un bambino, Marcelo Bielsa vedeva negli occhi di suo padre quanta stima provava per chi lavorava e raccoglieva i frutti di ciò che aveva seminato. Semplicemente, lui ha sempre voluto raggiungere quella condizione di pienezza personale. Andare a letto alla sera sapendo di aver dato un senso alla giornata appena trascorsa. E non ci sono soldi o titoli che possono comprarla, quella condizione. Non ci sono vie di fuga che evitino il sudore e le lacrime a cui il sacrificio, il lavoro, l’impegno ci costringono. È tutto propedeutico a preservare la beatitudine del proprio animo, la sua integrità, il suo tragitto – quello giusto – verso il più grande dei successi: avere la stima del tuo dirimpettaio.