Si respira finalmente un po’ di quiete tra quei muri altissimi, spaventosi. Finalmente si può prendere fiato un po’, abbassare la testa e per 90 minuti non pensare a cosa sta per arrivare. A cosa arriva inesorabilmente ogni giorno. Fino al giorno in cui non arriverà più. Fino alla scomaprsa definitiva. Gli uomini in divisa sono lì in cortile, fumano con le spalle poggiate al muro. Non fanno caso a tutte quelle persone che lì, dietro a delle sbarre, li fissano con gli occhi vuoti. Stavolta non sono interessati, non li degnano di attenzione. Le loro orecchie sono rivolte invece a una radiolina poggiata su un tavolo, nel centro del cortile. Da dentro quell’apparecchio una voce trepidante annuncia che l’attesa sta ormai per finire. Che al Monumental di Buenos Aires stanno per scendere in campo Argentina e Olanda, per l’atto conclusivo del Mundial ’78.
La vita si ferma in tutto il paese. Persino nelle carceri del regime, dove l’attività punitiva non si ferma mai. Da qualche settimana però si placa per 90 minuti, prima di ricominciare senza sosta. Però almeno, per quei 90 minuti, si ferma. 90 minuti in cui non esistono prigionieri e carcerieri. 90 minuti in cui tutti si ricordano che, divisa o non divisa, in fondo sono un solo popolo. Sono argentini. Poi quei 90 minuti passano e quella consapevolezza svanisce via, senza lasciare traccia del proprio passaggio.
La voce dalla radio si fa sempre più entusiasta. Il match sta per cominciare. In ballo c’è il titolo mondiale, certo, ma c’è anche molto di più. Ci sono le consolazioni di un popolo, le aspirazioni di un regime. Una vergogna mondiale. C’è tutto in quella sfida. C’è tutto in quel 25 giugno 1978. C’è la voglia di fermarsi, di festeggiare e poi di cancellare tutto. C’è Argentina-Olanda, finale del Mondiale di calcio del 1978.
Questa è la nostra strategia
Il Mundial della vergogna. Così passerà alla storia l’edizione del 1978. Una competizione giocata in Argentina, ai tempi di una delle più sanguinarie dittature del Novecento. L’assegnazione al paese sudamericano dell’organizzazione del Mondiale avviene quando alla guida del paese c’era il mitico Juan Domingo Peron, l’uomo che ha dominato la scena politica argentina per 20 anni. Alla sua morte, nel 1974, gli succede la moglie Isabella, aprendo un periodo di forte instabilità politica.
La situazione in Argentina precipita e nella notte del 24 marzo 1976 si verifica il golpe che instaura il regime dittatoriale guidato dal generale Jorge Rafael Videla. Un uomo che si era fatto strada nel governo della Peron, diventando Ministro degli Interni ed espandendo progressivamente la sua mano violenta, arrivando a organizzare con i vertici militari quel tremendo colpo di stato.
Da quel momento si apre la pagina più nera della storia dell’Argentina. Dal 1976 al 1983 il governo dittatoriale si rende protagonista di numerosi crimini, gestendo e riorganizzando il paese con l’uso sistematico della violenza. La “Junta”, nome adottato dal governo, toglie la voce a oppositori e dissidenti semplicemente facendoli sparire. Torture e violenze si consumano nelle prigioni, poi quelle persone incarcerate semplicemente vengono cancellate. Non uccise, né condannate. Rimosse. Senza registri, senza note ufficiali. Le persone semplicemente non erano mai esistite. Negli anni della dittatura, sono circa 30.000 i desaparecidos, le persone svanite così nel nulla perché avverse al regime.
In questo clima di terrore, la “Junta” si trova a dover fare i conti con l’eredità di un Mondiale da organizzare. Inizialmente non c’è la volontà di investire troppe risorse in quell’evento sportivo, poi però l’ammiraglio Emilio Massera, uno dei leader del golpe, intuisce la portata propagandistica che un evento del genere può avere, e suggerisce di dedicarsi in maniera profonda all’organizzazione di quel Mondiale. L’Argentina dunque conferma l’impegno preso e la FIFA sostiene il Paese sudamericano, nonostante i crimini, abbastanza plateali, del suo governo. Un iniziale movimento di boicottaggio prende vita, ma si soffoca praticamente sul nascere in nome di una presunta indipendenza dello sport dalla politica.
Tutti chiudono gli occhi su quello che sta accadendo e l’Argentina può organizzare quei Mondiali. Nemmeno le forze dissidenti interne, i guerriglieri Montoneros, si oppongono a quel Mundial, cercando invece di cogliere l’evento come la possibilità di denunciare al mondo i crimini del governo argentino. Una scelta che però si rivela tremendamente inefficace.
Tutto fila liscio dunque nell’organizzazione dei Mondiali del 1978. L’Argentina allestisce una enorme macchina propagandistica, un po’ come le Olimpiadi naziste del 1936, e il mondo resta a guardare, senza opporsi, mentre da un lato il regime esalta i valori dello sport e della competizione, ma dall’altro carica sugli aerei i dissidenti politici e li fa sparire in mare.
Esistono le guerre giuste e quelle ingiuste
“Vinciamo per alleviare il dolore del popolo”.
Così il Ct dell’Argentina, Cesar Luis Menotti, presenta l’impegno della propria Nazionale al Mondiale del 1978. Uno dei grandi quesiti riguardo questo evento è quanto i calciatori argentini fossero consapevoli di quello che stava accadendo e perché non abbiano fatto nulla per opporsi. Ma, rigirando la questione, la domanda piuttosto è: “Potevano realmente fare qualcosa”?
Le storie, soprattutto a distanza di anni dal 1978, si sono moltiplicate. Calciatori dissidenti che giocavano contro il regime, altri conniventi che hanno infilato la testa nella sabbia. La realtà era che la Nazionale argentina era semplicemente uno strumento nelle mani della “Junta”, con poche possibilità di scelta.
La figura più controversa è proprio quella del CT, Menotti, comunista avverso al regime che però, anche in maniera inconsapevole, non fece altro che assecondare i voleri della “Junta”. Menotti, soprattutto dopo la fine della dittatura, ha coltivato la sua immagine di dissidente, raccontando di come abbia nascosto degli oppositori politici e abbia incontrato alcuni esponenti del Partito comunista argentino durante il Mondiale. Allo stesso tempo, però, Menotti ha portato al trionfo l’Argentina, plasmando una squadra in linea con i valori esaltati dal governo, una squadra tradizionale, poco aperta alle influenze del calcio europeo. Menotti ha vinto per il partito o per il popolo?
“Siamo il popolo, veniamo dalle classi oppresse e rappresentiamo la sola cosa che ha legittimità in questo paese: il calcio. Non stiamo giocando per le tribune di lusso, pieni di ufficiali dell’esercito. Rappresentiamo la libertà, non la dittatura”.
Questo è il discorso tenuto dal CT prima della finale. Una vittoria per dare conforto a un popolo in ginocchio, ma anche una vittoria che legittima la dittatura che sta piegando quel popolo. Menotti può essere considerato un eroe della resistenza, della lotta interna, oppure ha solo assecondato i desideri della “Junta”? E soprattutto, il CT aveva qualche margine di scelta? Domande senza risposta, un tormento che spiega perché il mondiale del 1978, il Mundial della vergogna, tenda a essere uno dei 30.000 desaparecidos della dittatura argentina.
Non esistono le guerre sporche
Chiunque tende a rimuovere il ricordo di quel Mondiale. Gli argentini lo hanno sostituito col successo del 1986, con la Mano de Dios scesa in terra per fare giustizia. Il mondo semplicemente non ne parla, non dà spiegazioni. D’altronde, l’atteggiamento nei confronti del Mundial è figlio del clima in cui esso si giocò.
Tante le domande, poche le risposte. Una di queste: “Donde está el niño Guzmán?”. Javier Felipe Guzman è uno dei 30.000 desaparecidos di quella dittatura, ma era anche uno dei possibili protagonisti del Mundial. Cancellato, come se niente fosse. 24 anni, attaccante del Colon. Menotti lo inserisce nella lista dei convocabili. Poi, da un giorno all’altro, Guzman non esiste più. Non era mai esistito. “Donde está el niño Guzmán?” scrive la gente sui muri. “Donde está el niño Guzmán?” chiede Alberto Tarantini al generale Videla dopo la vittoria del Mondiale. Ma come si può sapere dove sia qualcuno che non è mai esistito?
Rimozione, cancellazione. Eppure quel mondiale si è giocato. Mentre nei Garage Olimpo, spesso a pochi passi dagli stadi, si consumavano macabre torture, l’evento va avanti senza sosta. L’Italia vince il proprio girone, davanti proprio all’Argentina che batte Ungheria e Francia con evidenti aiuti arbitrali (due rossi ai magiari, un rigore inesistente contro i galletti). Poi l’albiceleste prosegue il proprio cammino, nel secondo girone. Prima batte la Polonia, poi pareggia 0-0 col Brasile. Poi batte il Perù, in quella che è diventata la partita simbolo della vergogna di quel Mondiale.
In ogni guerra ci sono persone che sopravvivono…
Argentina e Brasile sono prime a pari punti. Chi arriva davanti va in finale. Nell’ultimo incontro l’albiceleste sfida il Perù, la Seleçao incrocia la Polonia. I padroni di casa ottengono dalla FIFA la possibilità di giocare due ore e mezza dopo il Brasile, che fa il suo e batte la Polonia. L’Argentina, per raggiungere la finale del Mundial deve battere il Perù con almeno 4 gol di scarto.
Quello che succede a questo punto si è tramandato nel tempo, sedimentando luoghi comuni e false convinzioni, ma anche amare consapevolezze e controverse ipotesi. Semplicemente, l’Argentina strapazza 6-0 il Perù, conquistando dunque l’accesso alla finale. Nel secondo tempo i peruviani sono inesistenti, si lasciano massacrare dai padroni di casa e in molti, ad anni di distanza soprattutto, hanno visto nell’atteggiamento del Perù una resa consapevole.
Per capire bene cosa accadde in quell’Argentina-Perù occorre però considerare tutti gli elementi del contesto. Innanzitutto, i biancorossi arrivavano a quella sfida ormai eliminati, con la pancia piena dopo il miglior risultato della loro storia in un Mondiale. Inoltre, i giocatori peruviani subirono un trattamento molto duro da parte dell’organizzazione, costretti a ricevere gli insulti dei tifosi argentini, abbandonati a contatto con loro, circondati da un clima ostile e pesante.
Per di più, l’inizio di gara dei peruviani è scoppiettante, con ben due nitide occasioni da gol. Poi il gol di Kempes alla mezz’ora, e da lì la resa incondizionata. L’atteggiamento del Perù non è sembrato quello di una squadra arrendevole, anzi. Sembra abbastanza comprensibile come nel secondo tempo, sotto 2-0, i peruviani abbiano staccato la spina e siano stati travolti da una squadra che aveva assolutamente bisogno di segnare. Sembra tutto molto comprensibile.
Eppure, Argentina-Perù viene considerata l’emblema delle partite truccate. Anche qui concorrono fattori contestuali, come la presenza del portiere Quiroga nel Perù, di origini argentine e che giocava in Argentina, o le indiscrezioni riportate poi dal giornalista inglese David Yallop, che nel suo libro “Como se robaron la Copa” scoprì che dopo la partita l’Argentina donò 35.000 tonnellate di grano al Perù, sbloccando una linea di credito da 50 milioni di dollari. O le parole del senatore peruviano Genaro Ledesma, che nel 2012 raccontò di come l’Argentina ricompensò il Perù accettando il trasferimento di 13 prigionieri che dovevano essere torturati.
Tutte storie smentite dai calciatori argentini, secondo cui se un accordo c’era, loro non ne erano a conoscenza e hanno giocato normalmente.
…altre che muoiono e altre che spariscono
Così l’Argentina conquista la finale del Mondiale, da giocare contro l’Olanda. Il Monumental si veste a festa, agli olandesi viene riservato lo stesso spiacevole trattamento subito dai peruviani. È un clima più di celebrazione che di sfida. Eppure l’Argentina deve sudarsi quella vittoria. Va in vantaggio al 38’ col solito Kempes, il cui enorme mondiale è stato viziato inesorabilmente da tutti quei sospetti, pur rimanendo una delle prove individuali più importanti di sempre in una coppa del mondo. All’82 Nanninga pareggia con un colpo di testa, poi nei supplementari ancora Kempes, e poi Bertoni, chiudono la pratica e regalano il primo titolo mondiale all’Argentina.
La festa esplode in tutto il Paese. Anche in quelle carceri dove le torture erano sospese da 120 minuti, e lo sarebbero rimaste ancora un po’. Prima comunque di ricominciare. È la vittoria del popolo argentino. È la vittoria della dittatura argentina. Per chi hanno vinto quei calciatori? Sono stati uno strumento di opposizione, o uno di consolazione? Domande, tante. Risposte, poche. Eppure, ad anni di distanza, è arrivato il momento di provare a darle. Di non dimenticare più.
Il Mundial del 1978 solleva un annoso quesito sul rapporto tra lo sport, nello specifico il calcio, e la politica. Tutti sapevano cosa stava accadendo in Argentina, ma nessuno ha fatto niente per fermare per quel Mondiale. La FIFA si nascose dietro alla presunta indipendenza dello sport dalla politica, motivetto ripetuto ogni qualvolta che il calcio incrocia delle questioni più delicate. Ma è possibile un atteggiamento del genere? Ignorando il fatto che in questo caso più che di politica si parla di diritti umani, il calcio non può scindersi completamente dal mondo che lo sostiene. La portata sociale, culturale e sì, anche politica, del calcio è enorme e un atteggiamento di distacco, e presunta indipendenza, è inconcepibile. Il mondo del calcio ha chiuso gli occhi nel 1978, ha voluto cancellare e rimuovere proprio come i militari argentini. Ha commesso un crimine, enorme, contro l’umanità.
L’edizione del 1978 è il Mundial della vergogna, ma non tanto per quello che è successo in Argentina, ma per quello che non è successo. Serviva una reazione, serviva una lotta, serviva una denuncia. Serviva aprire gli occhi, non chiuderli. Serviva alzare la testa, non abbassarla. Serviva prendere posizione, non tirarsene fuori. Serviva ricordare, non dimenticare.
Tutto ciò che poi è avvenuto in Argentina è frutto di questo atteggiamento. La sparizione del niño Guzmán, l’atteggiamento controverso di Menotti, la resa isterica dei peruviani, le polemiche per una vittoria tracciata sin dall’inizio. Il Mondiale del 1978 poteva essere l’occasione per far aprire gli occhi al mondo su ciò che accadeva in Argentina, per salvare almeno una parte di quelle 30.000 anime cancellate dalla storia. Poteva essere l’occasione per non dimenticare più, e invece, vergognosamente, tutti hanno voluto semplicemente far scomparire tutto. Nel nulla, come se non fosse mai esistito.