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I New York Cosmos sono stati il fallimento del sogno americano

Il 10 dicembre 1970, a New York, venne fondata una nuova squadra di calcio che negli anni a venire avrebbe affascinato tutto il mondo. Dopo mesi di dibattito sul nome da affibbiarle, il 4 febbraio 1971, vennero svelati, definitivamente, i New York Cosmos.

Il nuovo che avanza

All’epoca, il calcio negli Stati Uniti era un qualcosa di semi-sconosciuto. La gente guardava e tifava basket, baseball e football americano. Il calcio era praticato per strada, nei vari sobborghi delle metropoli, solamente da immigrati messicani e italiani. A fine anni ’60, tuttavia, qualcosa e qualcuno si stava muovendo.

Nel 1966, per la prima volta negli USA, viene trasmesso sul piccolo schermo un mondiale di calcio, che vedrà vincenti i cugini inglesi. In quell’estate si sintonizzeranno un milione di spettatori medi a partita: qualcosa di mai visto prima. Il torneo estivo, oltre al documentario seguente a firma dei giornalisti americani dal nome Goal, cementerà negli statunitensi un forte senso di curiosità e di scoperta per questo nuovo sport. I vari imprenditori americani, quindi, colgono la palla al balzo: il 7 dicembre 1967, alcuni magnati sportivi, fondono la North American Soccer League, acronimamente nota come NASL. La missione calcio negli Stati Uniti era appena cominciata.

Il primo campionato calcistico, nel 1968, vede fronteggiarsi 17 squadre. Da lì, nei prossimi anni, verranno fondate numerose franchigie, che andranno a rimpolpare il campionato di nuove pretendenti alla palma di miglior squadra americana. Quella che riuscirà ad acquisire quest’nere, più o meno un decennio più tardi, saranno proprio i New York Cosmos.

Il club, come sopracitato, è stato fondato il 10 dicembre 1970, dai fratelli americani con origine turca Ahmet e Nesuhi Ertegun, dirigenti della Atlantic Records, sottogruppo della Warner Communications, una delle più grandi etichette discografiche americane. Avevano voglia di espandere la passione per il calcio, creando una delle squadre più iconiche, famose e, per il contesto, spettacolari degli anni ’70. Il 4 febbraio 1971, con una conferenza dai tratti hollywoodiani, i fratelli Ertegun, con tutti i dirigenti della Warner, presentano all’America e al mondo intero i nuovi New York Cosmos.

Il logo della nuova franchigia di New York: i Cosmos (Foto: STAFF/AFP via Imago Images – OneFootball)

Il fenomeno New York Cosmos

Anche se i Cosmos dei fratelli Ertegun portarono nella NASL una ventata di novità – e di capitale economico -, il campionato rimaneva ancora un torneo molto arretrato, a tratti da terzo mondo calcistico. La prima partita che disputarono si giocò contro i Dallas Tornado al Dowining Stadium di Randall Island, una piccola isoletta di Manhattan circondata dal fiume Harlem, laddove Jesse Owens vinse 3 medaglie prima delle Olimpiadi del ’36 a Berlino, in cui incantò il mondo. Sebbene la squadra della grande mela destasse molta curiosità agli addetti ai lavori e non, il Dowining Stadium era tristemente vuoto. In tutto saranno stati duemila spettatori, comprese le televisioni. Il processo era ancora lungo.

Per portare in alto il calcio americano c’era ancora tanto da fare, non bastavano i soldi della Warner, ma comunque tutti erano consapevoli del fatto che solo i Cosmos potessero avviare questo processo, semplicemente perché erano i più ricchi e quelli con più idee. Tutto corretto, con un piccolo problema: la super potenza economica dell’etichetta discografica, con i tantissimi soldi annessi, subentrò nella gestione e nella proprietà solo nel 1973. Per due anni, la squadra è stata gestita, economicamente e poco sportivamente, solo dai fratelli Erdegun: idee, ma soprattutto soldi, erano di tasca loro. Non è complesso comprendere che il livello non potesse essere altissimo, tant’è che i New York Cosmos per due anni non si avvicinarono neanche alle zone alte della classifica. A partire dal 1973, però, cambiò tutto, con l’ingresso della Warner Communications come principale proprietaria.

Da quel momento, il calcio in America fu visto con occhi diversi, con sguardi non più curiosi ma attenti, come una super potenza mondiale. I diritti televisivi passarono dall’essere venduti solo in Messico e in qualche Paese orientale al transitare verso i Paesi europei, gli stadi cominciarono a riempirsi, la gente cominciò a fare il tifo per la squadra della propria metropoli o del proprio quartiere. L’America, in pratica, cominciò ad appassionarsi al cosiddetto soccer.

L’obiettivo principale, di tutta la proprietà, era quello di arricchirsi grazie al calcio, di dare contorni cinematografici ad uno sport ancora non del tutto conosciuto a quelle latitudini. Non poteva mancare l’accezione americana per antonomasia, lo spettacolo. I Cosmos non furono fondati, furono inventati. Perché non c’era mai stata – e probabilmente mai ci sarà – una squadra ed una gestione teoricamente sportiva, così lontana dai canoni sportivi. Un club il cui obiettivo principale non era fare spettacolo in campo, bensì fuori. Una compagine calcistica in cui il flusso economico arrivava prima dei risultati, i quali interessavano – fino ad un certo punto – solo ai calciatori.

Il Guardian, negli anni successivi alla fine del fenomeno Cosmos, scrisse:

Come tanti altri progetti paralleli del grande mondo dell’imprenditoria dello spettacolo, i Cosmos andavano velocissimi. Però non andavano da nessuna parte.

Nel 1975, la proprietà capì che per aumentare ancora di più le entrate, bisognasse migliorare la squadra. Per ora, la compagine dei Cosmos era un’accozzaglia di scozzesi alcolizzati, di irlandesi che non ce l’avevano fatta in First Division, di latini in cerca di soldi negli States o di canadesi di origine francese, che per tradizione erano appassionati di calcio. Il tutto allenato da alcuni giornalisti che per lavoro erano gli unici ad aver visto abbastanza partite per capire come mettere in campo undici calciatori. Ecco, la situazione sportiva poteva essere riassunta in queste righe. M la profezia, con un biglietto dal Brasile, stava per avverarsi.

Arriva O’Rey

Nel ’73, Edson Arantes do Nascimento, per tutto il mondo Pelé, subì un enorme truffa. Qualcuno riuscì a svuotare il suo conto in banca e il campionissimo brasiliano si ritrovò senza una lira nel portafoglio. Così, il Santos si sobbarcò tutti i debiti del giocatore, ma in cambio Pelé dovette giocare trenta amichevoli l’anno, in giro per il mondo, gratis. Il fenomeno fu costretto ad accettare, chiaramente controvoglia. Questo malumore lo accompagnò per due anni, finché con tanta amarezza decise di abbandonare il Santos, quella squadra che sarebbe dovuta essere eterna nella sua parabola calcistica.

Da lì, partirà in tutto il Brasile il toto-squadra. Alla fine, però, la situazione verrà presa in mano da un personaggio controverso, affascinante e potentissimo: Joao Havelange, presidente della federazione brasiliana dal 1950, con sogni da presidente FIFA. Uomo molto ambizioso, elegante e colto, figlio di un belga che aveva perso l’imbarco per il Titanic. Per le forze, le ambizioni, gli obiettivi politici ed economici in gioco, la decisione di Pelé di andare a New York si prese da sola. Non poteva che accadere.

Pelé in maglia Cosmos (Foto: Imago Images – OneFootball)

L’obiettivo di Joao Havelange, per la corsa alla presidenza FIFA, era quello di evangelizzare tutto il mondo con la più grande religione laica che ci sia sulla terra: il calcio. Ecco, quest’opera di convincimento per ora non aveva ancora riguardato gli Stati Uniti. E quale migliore idea, se non quella di portare il più grande evangelista vivente nella più vasta terra ancora atea? Havelange ci aveva visto lungo. Il suo sogno era quello di rendere Pelé un vero e proprio ambasciatore del pallone negli States e di portare entro vent’anni il Mondiale sul suolo americano.

Inizio 1975. Edson Arantes do Nascimento sbarca nella Grande Mela. Firmerà un contratto faraonico. Prima d’ora nessuno aveva mai visto un contratto da due milioni di dollari per tre anni, più svariati bonus, con la totale gestione dei propri diritti d’immagine in mano alla Warner. Sarà una scelta fenomenale dal punto di vista economico; con gli sponsor che aumentarono sempre di più ed i conti che cominciarono a salire alle stelle, l’America finì ai piedi del fenomeno brasiliano. Tutto questo dal lato prettamente gestionale, ma se ci spostiamo al campo fu un mezzo disastro.

La squadra non era minimamente all’altezza di Pelé. I giocatori maltrattavano la palla, al contrario della gestione del brasiliano, un gioiello. La grandezza economica dovuta all’arrivo di Pelé non andava per niente di pari passo con la crescita sportiva. E poi lui era praticamente un disadattato nella New York degli anni ’70: non sapeva mezza parola di inglese né come muoversi in città, non poteva passeggiare senza che fosse assalito dalla folla. In pratica, era un corpo estraneo in mezzo a tanta fama.

Però, senza ombra di dubbio, l’arrivo di Pelé aveva portato ascolti, audience e soprattutto interesse in giro per l’Europa. A livello economico i Cosmos erano ormai una super potenza, e quando qualcuno fece notare loro che la crescita dovesse avvenire anche sul campo da gioco, la proprietà iniziò ad investire anche per aumentare il tasso tecnico della squadra. E allora, negli anni a venire, la Warner riempì di denaro campioni al tramonto europeo, come Beckenbauer, Carlos Alberto e Giorgio Chinaglia, elemento chiave nello Scudetto della Lazio di Maestrelli nel ’74. Con questo squadrone, Pelé non si senti più un predicatore nel deserto.

I tre campioni dei Cosmos: Beckenbauer, Pelé e Chinaglia (Foto: STAFF/AFP via Imago Images – OneFootball)

Pelé non voleva giocare più di tre anni in America, volontà ormai appurata da compagni, media e dirigenza. Ma non voleva neanche lasciare senza un trofeo, e quindi nel 1977 portò in trionfo i New York Cosmos. In una finale accesissima, e molto sentita, i newyorkesi battono a Portland – vera città del calcio USA – i Seattle Sounders grazie ad un gol di Chinaglia, vincendo il loro primo titolo americano. Il brasiliano può congedarsi con il mondo a stelle e strisce un po’ più sollevato.

Non fu un grande periodo per il fenomeno brasiliano a New York. Sessantacinque gol in centoundici partite non sono un rendimento da cui andare fieri per uno che ha incantato il mondo negli anni ’60 e oltre, con tre Mondiali in bacheca, che ha fatto sognare miliardi di bambini che giocavano nelle strade con l’intento di ripetere le sue gesta. Era un pesce fuor d’acqua, in tutto quel contesto, in tutto quel caos americano. Lui che aveva l’abitudine di andare in bici agli allenamenti con il Santos e che conosceva e salutava tutti quelli che abitavano davanti al centro sportivo. Quello era Edson. Quello visto a New York, come raccontato da Federico Buffa su Sky, era Pelé.

L’ultima partita giocata in terra americana, al Giants Stadium di New York, fu una grande festa. Per la prima volta il popolo statunitense si era affezionato ad un fenomeno dello sport, non cresciuto, non formato e che non aveva espresso tutto il suo valore, sul suolo americano. Fu organizzata un’amichevole tra New York Cosmos e Santos. Giocò con le due squadre un tempo a testa, e naturalmente segnò con entrambe. Fu protagonista di un ultimo gesto suggestivo, un’ultima improvvisata.

Nel secondo tempo, quello disputato con i Santos, giocò di fianco ad un ragazzino del vivaio, che fece la fortuna dell’Avellino e vinse una Champions League con il Porto: Jouary. Pelé, incantato dal suo talento, gli dimostrò tutta la sua approvazione. Il giovane brasiliano ricorderà questo momento come il più bello della sua vita. A guardare quell’ultima partita, dalla tribuna VIP, c’era un certo Muhammad Ali. Il fenomeno di Minas Gerais non poteva desiderare miglior gratitudine.

New York Cosmos
Muhammad Ali assiste al Giants Stadium di New York agli ultimi attimi del Pelé calciatore (Foto: Imago/Kicker – OneFootball)

Il tramonto dei New York Cosmos

La Warner Communications aveva creato un impressionante movimento economico intorno alla squadra. Una cosa così non si era mai vista: un giro di soldi spaventoso, affari da far invidia alle grandi squadre europee. Avevano capito che cavalcare l’onda della novità sportiva fosse una scelta azzardata, ma che al contempo potesse portare i suoi frutti. In America il movimento Cosmos aveva già intravisto cosa sarebbe successo quarant’anni dopo, dato che al giorno d’oggi vanno per la maggiore proprietà più legate ai conti economici che a quelli sportivi.

Inoltre, il percorso che ha portato in alto i Cosmos ha visto la trasformazione del calcio in una vera e propria sceneggiatura, facendo sì che la compagine potesse entrare addirittura nel mondo dello spettacolo. Per accrescere la propria popolarità, infatti, venivano ingaggiati in tribuna – pagati fior di milioni – i vari Henry Kissinger, Mick Jagger, Robert Redford e Steven Spielberg. Tutto ciò per far aumentare l’immagine e far vedere quanto erano belli ed interessanti i New York Cosmos.

La squadra newyorkese era proprietaria di numerosi locali notturni, su tutti il famoso Studio 54, locale della perdizione americana. Per alcuni anni questo connubio funzionò, con i Cosmos che vinsero due campionati – uno anche dopo il regno Pelé – e fecero crescere l’interesse del calcio americano. Ma la fine era vicina. Questo progetto era pronto a scoppiare, la bolla di successo – a tratti senza senso – pronta ad esplodere. E questo lo sapevano anche i diretti interessati, compreso chi aveva i conti sempre sott’occhio, ma nessuno fece nulla per salvare la situazione. Come avviene spesso da quelle parti, il successo logora anche chi ce l’ha.

I debiti continuarono a crescere, prendendo sempre più possesso dei conti della Warner. Proprio quest’ultima, nel 1985, lasciò. Decise di abdicare, abbandonando una nave che con il suo passaggio aveva affascinato tutta l’America pallonara, lasciandola affondare. La vecchia proprietà aveva lasciato con trenta milioni di debiti ed un buco di 2.300 dipendenti, tutti licenziati per l’impossibilità di pagare gli stipendi. I Cosmos erano ai bordi del baratro.

New York Cosmos
Pelé festeggia la vittoria della NASL, nel ’77, insieme a Steve Ross (a destra), CEO della Warner Communications (Foto: STAFF/AFP via Imago Images – OneFootball)

Ma c’era qualcuno con l’ambizione di salvare la squadra che gli aveva dato grandi soddisfazioni, e che aveva dato tutto alla causa: “Long John” Giorgio Chinaglia. Ormai appese le scarpe al chiodo, si buttò nel mondo dell’imprenditoria. Giorgione era arrivato a New York nove anni prima, dopo una lunga trattativa con la Lazio ed il presidente Lorenzi che non voleva lasciarlo andare per nessun motivo. Dopo settimane in cui Chinaglia non si presentò al ritiro estivo, i 450.000 dollari transitarono nelle casse biancocelesti, con il presidente che si tappò le orecchie davanti alle proteste dei tifosi e accettò. Chinaglia era pronto a subentrare alla Warner per salvare i suoi Cosmos:

Faremo grandi cose. Sono qui per fare boom.

Long John, però, non aveva fatto bene i calcoli: ricco quanto volete, ma non di certo per gestire contemporaneamente due squadre, essendo anche proprietario della Lazio, caduta in Serie B dopo lo scandalo scommesse. Chinaglia lo fece il boom, ma cadendo in quel famoso baratro. A fine 1985, i New York Cosmos cessarono di esistere.

La chimera, l’arcobaleno era passato. La pentola d’oro Cosmos si era polverizzata in un istante. Neanche il tempo di conquistare il mondo che la barca doveva già attraccare. I newyorkesi furono un modello per tutti: a livello economico erano paragonabili alle più grandi squadre NBA, cosa impensabile prima degli anni ’70. La Warner, però, fece un errore: non gettare le basi per il futuro. Vollero tutto e subito. Vollero divertirsi con un giocattolo, che alla prima caduta si ruppe del tutto. Fu un bambino instancabile di soldi e potere. Tutto ciò abbandonato e perso rovinosamente. E di certo, la mancanza di idee sportive non aiutava.

La proprietà fu incapace di affiancare alla crescita economica quella sportiva, e senza l’acquisto delle figure in grado di affiancare a Pelé, probabilmente non sarebbe arrivato neanche un trofeo. Mancava proprio l’anello di congiunzione tra economia e sport, tra campo e conti economici. Tutto ciò è stato per tre anni Edson Arantes do Nascimento, ma dal suo ritiro questo anello si spezzò, e gli USA tornarono ad essere ancora una terra curiosa e non appassionata, assaggiatrice e non mangiatrice, di calcio. Dal 1977, quando il biglietto dal Brasile fu di ritorno e non d’andata, gli States tornarono ad essere una terra da evangelizzare, perlomeno fino a quella rassegna iridata datata 1994.

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