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CALCIO ESTERO

Newcastle: birre che volano e domande da farsi

“Mamma, perché a Newcastle le birre volano?”

C’è un genere di video che mi fa godere come un matto.
Una nicchia nella quale per quanto ne so potrei essere solo, arroccato in un feticismo noto principalmente all’algoritmo di YouTube, che infatti non manca di lanciarmi gustose esche alle quali non vedo l’ora di abboccare. Sono i video in cui moltitudini di tifosi inglesi – più dei vari “cugini” del Regno Unito – sono ripresi nel celebrare un qualcosa e nel farlo, per farlo, scagliano in aria la loro birra.

Il motivo classico è una rete: per calcolarne l’importanza, bisogna guardare la densità di birra nell’aerosol che ne consegue. Può essere che semplicemente vada di cantare e fare casino come quando – all’intervallo e sotto 2-0 – i tifosi del Coventry riempirono la pancia dell’Emirates Stadium con una fenomenale performance di Twist and Shout e centinaia di sterline in pinte volanti. Oppure perché qualcosa fa così felice una folla che ecco le birre mischiarsi alla pioggia, la pioggia alle birre.

Che è esattamente quello che è successo lo scorso 8 ottobre 2021, quando il mondo intero ha potuto godere dell’euforia dei tifosi del Newcastle. Erano raccolti all’entrata del St. James’ Park ad attendere l’ufficialità del cambio di proprietà del club e in molti, all’arrivo della notizia, hanno fatto scattare in alto il braccio in cui tenevano il bicchiere. Qualcuno stava registrando e nel giro di qualche minuto io, lontano centinaia di kilometri, stavo gustandomi la dose di serotonina che già mi scorreva in corpo.

Proprietà che vieni, proprietà che vai

E dire che, soprattutto negli ultimi anni, ce ne sono stati di cambi di proprietà. La faccenda è che, accolti con questo fervore, se ne son visti pochi. L’eccitazione dei tifosi Magpies, però, si spiega e si comprende piuttosto facilmente. L’impianto teorico di base è quello del “cambiare fa bene. Si abbandona una realtà che si considera vecchia, superata, per passare a una nuova che – ci si dice – pur nella sua ricchezza di incognite sarà sempre meglio.

I tifosi del Newcastle non hanno mai amato Mike Ashley
Mike Ashley non più il benvenuto al Newcastle (Foto: Stu Forster/Getty Images – OneFootball)

E figuriamoci: per il Newcastle questo significa passare dall’era dell’odiato Mike Ashley ad essere acquisiti dal fondo saudita PIF (Public Investment Fund) – tra i più grandi fondi sovrani del globo – appartenente al principe Mohammed Bin Salman. Uno striscione appeso a una balaustra dello stadio racconta bene il sentimento comune verso l’ormai ex gestione:

We don’t demand a team that wins, we demand a club that tries.

I quattordici anni di Mike Ashley si sono infatti conclusi con due retrocessioni, infrastrutture trascurate e, ancor peggio, il lascito insostenibile di un clima di arroganza nei rapporti coi sostenitori. La colpa peggiore della sua era è stata la mancanza di gioia, una capacità di far sentire i tifosi estraniati, sdegnati, mercificati. Gli va comunque dato il credito di lasciare una società finanziariamente in salute, ma ecco, non aspettiamoci che gli facciano una statua.

Da questo contesto poco dolce e molto agro, il Newcastle si è ritrovato catapultato in cima alla classifica dei club più ricchi al mondo, data la disponibilità paperoniana data dai sauditi e dal PIF, preparandosi a diventare un nuovo player di spicco di questo sport. Le conseguenze di un tale ingresso sono di varia natura, spaziando dall’impatto a breve e medio termine sugli equilibri calcistici a considerazioni di natura morale, dalla nuova geografia del calcio alla geopolitica nel calcio.

Nel mare magnum delle questioni sollevabili, proviamo qui a dare un’occhiata più approfondita proprio a questi quattro argomenti, stelle polari nella nostra riflessione sul fenomeno Newcastle. 

Un piccolo tifoso del Newcastle vestito da sceicco
La PIF mania ha contagiato anche i più giovani tifosi del Newcastle (Foto: Stu Forster/Getty Images – OneFootball)

Cosa aspettarsi dal Newcastle

Inutile dire come la fantasia di molti sia già galoppata molto in là. Alcuni probabilmente si sentono come quando “baravano” ai videogiochi e si riempivano di soldi o di risorse da usare per conquistare i campionati, o le città, o il mondo. È naturale, facile e lecito aspettarsi un sensibile miglioramento della squadra che passi sia dalla classifica, sia dal mercato. Rassegnati alla mediocrità da anni, anche in questa stagione il Newcastle dovrà prima badare a non inguaiarsi nella lotta per non retrocedere.

Nel contempo, tutti – tifosi, addetti, contabili – si aspettano grandi manovre già a gennaio, volano liste della spesa: nomi grossi e cifre corpose. Anzi: ancor prima di allora, la scelta dell’allenatore potrà – dovrà? – già fornire un indicatore di ambizione della nuova proprietà. Eppure, al di là dell’eccitazione, pare comunque esserci una diffusa consapevolezza che il percorso verso le vette sarà lungo – e non potrebbe essere altrimenti.

Tifosi del Newcastle vestiti da sceicchi per festeggiare il cambio di proprietà
“Soberness first” (Foto: Stu Forster/Getty Images – OneFootball)

Inserirsi in un contesto come quello inglese significa infatti mettersi a competere contro potenze affamate, progettualità ambiziose, culture vincenti. Volendo richiamarsi alla storia recente, il Manchester City impiegò tre stagioni, dopo il ricco cambio di proprietà, prima di arrivare a vincere una coppa nazionale. Questo accadeva però in un campionato più polarizzato, dove i Citizens riuscirono a disturbare prima e a stravolgere poi il duopolio Manchester United-Chelsea.

Ora invece, con più club inglesi stabilmente all’apice del calcio mondiale e con l’impossibilità di escludere outsider (Leicester insegna), gli ostacoli sembrano essere di più e maggiori. D’altro canto, è possibile aspettarsi che le fasi calanti – quando non decadenti – come quelle di Tottenham o Arsenal potrebbero agevolare l’inserimento di una tale nuova forza.

Il progetto della proprietà saudita non potrà poi prescindere dalla (ri)costruzione di strutture dirigenziali competenti ed effettivamente influenti nei vari ambiti, dopo la tendenza accentratrice di Ashley. L’entusiasmo e il supporto per il progetto non mancheranno: come dimostrano i numeri sulle presenze del St.James’ – ottimi persino per gli alti standard inglesi – i tifosi Magpies hanno costituito una base fedele e partecipativa anche in tempi di vacche magre. E adesso, paradossalmente, dovranno ignorare le enormi aspettative e armarsi di ancora più pazienza di prima, 

La geografia del calcio: dov’è Newcastle?

Il calcio contemporaneo non ci ha abituati a una grande variabilità in termini di “dove” si spargono le storie di successo. Ha fatto scalpore il già citato Leicester e forse il Lille del 2020/2021 non ne ha fatto abbastanza, conosciamo bene il rapporto tra le medio-grandi spagnole (Sevilla, Villarreal) e l’Europa League. L’Atalanta è un modello che ha ormai fatto scuola, ma che (ancora) non ha mai vinto. Se allarghiamo il discorso alle riapparizioni, possiamo includere Liverpool nel novero dei “cavalli di ritorno”, e anche Milano, toh. Ma questi ultimi sono posti in cui si hanno sempre avuto aspettative di gloria, che sono semplicemente state più o meno disattese.

Newcastle rappresenta allora un punto di rottura nello scacchiere, un tentativo di dirigere altrove – o almeno di decentralizzare – lo strapotere dei cluster geografici “classici” del calcio inglese prima, continentale poi. Londra, Manchester, Liverpool, Monaco di Baviera, Madrid, Barcellona, e poi Parigi (ormai non più sottostimabile), e più in là Torino, Milano. Tutti luoghi con epiche vittoriose e che prima o poi, nel pensiero del nuovo Newcastle, verranno sfidati, che dovranno fare spazio ai Magpies.

Tifosi del Newcastle
Tifosi al St. James’ Park (Foto: Stu Forster/Getty Images – OneFootball)

Eppure Newcastle è lassù, molto in alto, una latitudine simile a quella di Copenhagen. Un brand che ha scarsa visibilità e appetibilità – ici c’est pas Paris – e che probabilmente farà fatica a conquistare nuovo pubblico negli anni a venire. Un club con un fascino tipicamente “vocazionale”, in cui ci si riconosce in maniera romantica. Viene quindi spontaneo chiedersi il perché della scelta di investire in una periferia calcistica con scarsa cassa di espansione, in uno sport che sta tentando di contare su un appeal sempre più globale. 

Non so le spiegazioni che vi date voi, ma la mia fantasia recondita è che nella contea del Wear and Tyne si stiano preparando cose grosse: Amazon ha puntato i suoi riflettori su Sunderland qualche anno fa, adesso questa faccenda del Newcastle acquistato dai sauditi. Il complottista che è in me gradirebbe molto, ma probabilmente le ragioni che cerco sono meno legate alla geografia – e al calcio – di quel che vorrei.

Diplomazia e immagine

Sulle pagine digitali del “The Guardian” troviamo un articolo di Barney Ronay sui significati del cambio di proprietà del Newcastle. Il giornalista si interroga sul perché dell’acquisto, arrivando a concludere che:

Non si tratta di sport. E nemmeno di soldi. Il calcio inglese non è una vasta industria globale o una buona scommessa in termini di ritorno economico.

Quindi, perché? Le sue considerazioni sono di natura geopolitica: la Premier League è diventata uno strumento di soft power. Quelli che una volta erano club legati al territorio e alla “comunità” sono ora usati da certi paesi come proiettori verso il mondo. Indiscutibile il ritorno mediatico che Qatar (col PSG) e Emirati Arabi Uniti (col Man City) hanno riscosso con lo sviluppo e il possesso di società calcistiche di alto profilo.

L’Arabia Saudita ci arriva con un anno di ritardo sulla propria tabella di marcia. Nel 2020, infatti, le tensioni diplomatiche e commerciali tra Arabia Saudita, Qatar e Premier League su un caso di pirateria digitale avevano fatto saltare l’acquisto del Newcastle, che è invece definitivamente volto al termine il 7 ottobre, esattamente il giorno dopo la risoluzione definitiva della controversia. Com’è stato notato, con l’acquisto di una squadra del campionato più ricco del mondo, la triade del petrolio  si è ricomposta anche nell’élite del calcio.

È interessante vedere come questo tipo di potenze si tenga invece alla larga da mercati più stagnanti. E sì, sto parlando del campionato italiano, dove sono gli americani – che non hanno grandi interessi nel rappresentare il proprio paese – a farla da padrona. Insomma: con Qatar e EAU a fare da pionieri, l’Arabia Saudita ha potuto studiare modelli vicini e di successo da seguire, decidendo così di entrare nel Calcio da una delle porte principali. Un copione in parte già visto quindi, ma che stavolta porta con sé qualche interrogativo in più.

AAA: stinchi di santo cercasi

Un altro grosso ostacolo per l’acquisizione del Newcastle da parte del PIF è stato il ruolo dello stato saudita nello stesso. Amanda Staveley, nuova socia di minoranza del club, ha sottolineato come alla Lega siano state presentate garanzie che il PIF sia un’entità relativamente autonoma rispetto all’Arabia Saudita e a Mohammad bin Salman (MbS), principe ereditario e decisore ultimo delle politiche del paese. Una distinzione richiesta alla luce dello stato dei diritti civili nel Regno e al ruolo di MbS in particolari politiche (la decisione di bombardare lo Yemen, per dirne una) o avvenimenti (avete presente l’omicidio Khashoggi?).

Mohammad bin Salman potrebbe essere uno dei mandanti dell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi (Foto: Stu Forster/Getty Images – OneFootball)

Immediate accuse sono arrivate, ad esempio, dai vertici di Amnesty International, che ha indicato l’operazione Newcastle come un cristallino esempio di sportswashing, in cui l’Arabia Saudita vuole usare il club come vettore di “pulizia” e ridefinizione dell’immagine. Andando ancora più a fondo, il sopracitato articolo di Ronay è in realtà una dura invettiva contro l’atteggiamento del calcio inglese in cui, denuncia:

C’è qualcosa di squallido e profondamente deprimente nella volontà di accogliere fra i suoi membri d’élite l’oppressivo e profondamente discriminatorio Stato saudita.

Come, ad esempio, l’iniziativa Rainbow Laces a favore della comunità LGBT+ può sposarsi con imprigionamento, frustate in pubblico, castrazione chimica, e tutte le altre misure usate per punire l’omosessualità in Arabia Saudita? Cosa e quando vuole combattere il calcio inglese quando dice di essere contro ogni forma di discriminazione?

Jonho Shelvey, capitano del Newcastle
Fascia, lacci. Tutto arcobaleno. (Foto: Alex Pantling/Getty Images – OneFootball)

Quando, seduta in prima fila al banchetto dei grandi, c’è una presenza che a portafogli spalancato sfida questi bei propositi, dove vanno a finire le parole? La risposta che il giornalista dà e si dà è che, come sempre, “il denaro scrive da solo le sue regole.

Cosa ce ne facciamo del calcio

Tutti questi interrogativi e tutte queste questioni sono qui per toccare varie corde. Per dare spunti di riflessione, per farsi domande, per prendere posizione sapendo che le risposte che ci diamo non ci mettono dalla parte del torto o della ragione. Ci permettono di guardare a un fatto in sé apparentemente molto semplice – come un Newcastle che passa di mano – da più prospettive.

Ci fanno scandagliare le nostre percezioni, ci fanno complicare la vita. Ci fanno pensare a cosa sono per noi i club, e a cos’è per noi il calcio. A cosa ci aspettiamo da una palla che rotola, dalle persone che s’affannano a farla entrare fra tre pali. A cosa ci aspettiamo dalla massa di gente che gravita tutt’intorno a questo mondo e se non stiamo andando verso una sempre minore importanza di quel che succede in campo. Se dobbiamo investire questo sport di significati che provengono da altre sfere, se il calcio può dirci qualcosa di come vediamo il mondo.

Oppure, se non ci convenga semplicemente aspettare il prossimo video di una folla che esulta e di centinaia di birre che riempiono l’aria.

Facile a dirsi (Foto: Stu Forster/Getty Images – OneFootball)

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