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CALCIO ESTERO

Neymar ci mette sempre la firma

La firma è uno dei principali simboli di identità personale. Non cambia in base allo strumento o alla superficie utilizzata, ma mantiene la sua unicità. Nel calcio è il gesto tecnico a garantire quel grado di esclusività che permette di far risaltare l’identità di un calciatore. In questo caso specifico, la firma prende il nome di signature move ed esula da un contesto tecnico. È il simbolo della libertà opposta al sistema, l’individualità che si eleva sopra il collettivo. Ne sa qualcosa anche Neymar da Silva Santos Júnior.

Come una vera firma, nasce dalla ripetitività di un’azione che si evolve nel corso degli anni. La signature move diventa così una risposta innata e immediata agli stimoli del campo, trasformandosi in un meccanismo recepito dal cervello come naturale. Pensando al calcio giocato, è facile riconoscere alcune delle signature move più famose. La sterzata sul mancino partendo da destra di Robben; la Ruleta di Zidane; il doppio passo di Ronaldo il Fenomeno; la Croqueta di Iniesta; il tiro a giro di Del Piero; la virata di Cruijff; la punizione con le tre dita di Juninho Pernambucano e tante altre. Sono giocate che vanno oltre i trascorsi in una determinata squadra, un preciso stile di gioco, una tipologia di allenatore o un momento nella propria carriera.

I primi segnali di signature move

C’è un popolo che fonda la propria identità sul corpo: i brasiliani. Per capire il presente (e il futuro) è sempre corretto guardare al passato. È il 1894, il calcio viene introdotto dagli inglesi in Brasile. Questo è un paese eterogeneo, in cui cittadini di estrazione europea si mischiano a quelli con discendenze africane. Nel calcio questa differenza è evidente, perché questo sport diventa una piattaforma per sottolineare il proprio status nella gerarchia sociale, i neri alla base e i bianchi in cima. Da ciò derivano due modi di concepire il calcio: i bianchi puntano sul passing game da manuale del calcio, fatto di collettivo e gioco fisico; i neri sfruttano le proprie caratteristiche e ribaltano la prospettiva, puntando sull’individualismo e sul rifiuto per il contatto fisico. Questo aspetto è interessante. Nella vita di tutti i giorni i bianchi non vogliono nemmeno entrare in contatto con i neri – all’epoca perlopiù schiavi -, ma nel calcio amano il contatto fisico, soprattutto nei confronti di chi è considerato socialmente inferiore.

Da qui nascono le contraddizioni. Gli afrobrasiliani esaltano nel calcio la loro corporeità fatta di leggerezza, agilità e disinvoltura per rifiutare però qualsiasi tipo di contatto fisico con i bianchi. In una situazione di oppressione fisica e psicologica – la schiavitù in Brasile venne abolita nel 1888 -, i brasiliani di discendenza africana riescono sempre a trovare una soluzione ai problemi con la loro capacità di improvvisazione e con la loro creatività. Creano dal nulla soluzioni per riuscire a spuntarla in qualche modo, spesso in maniera irriverente nei confronti delle avversità. Queste caratteristiche si riflettono naturalmente nel modo di intendere il calcio. Ed è così che nasce lo stile brasiliano di giocare che conosciamo ancora oggi.

Un calcio fatto di intuizione, improvvisazione, astuzia, tecnica, azzardo, irriverenza, individualità. Un calcio che rifiuta il contatto fisico, proprio come la capoeira. Gli schiavi brasiliani gingavano, oscillando il proprio corpo a ritmo, simulando attacchi che non si concretizzavano in forma fisica. Chi è che si sarebbe permesso di vendicarsi fisicamente dei soprusi subìti per mano dei bianchi? Nessuno. Però nel calcio questo è possibile. Le finte di corpo e i dribbling illusionistici dei brasiliani derivano proprio dall’impostazione filosofica della capoeira e dalla ginga. Un po’ come se il calcio per gli afrobrasiliani fosse lo strumento per vendicarsi dei torti fisici e psicologici perpetrati dai bianchi. Ma per salire di livello è necessario aggiungere un po’ di arte da malandragem, per dirla alla brasiliana. L’attitudine da malandro è ciò che permette ai brasiliani di trasformarsi in furfanti malvagi, sempre pronti a trovare un modo per ingannare e prendere in giro, anche a costo di rischiare tanto.

Sì, ma Neymar? O’Ney si inserisce perfettamente in questi discorsi perchè discende direttamente dalla linea evolutiva del calciatore brasiliano appena descritta. Neymar prende diversi elementi dai vari Pelé, Garrincha, Romario, Ronaldo, Denilson e Ronaldinho. Li fa suoi, fondendoli assieme e dando loro una nuova forma.

Neymar è un’anomalia. Si parlava di signature move e di corporeità tipicamente brasiliana. Lui ingloba queste caratteristiche, ma non ha una specifica firma calcistica. Ne ha diverse, riunite in un modo unico di muoversi. Neymar fa ampio uso di specifiche signature move e contemporaneamente le rifiuta, perché già solamente il suo modo di giocare è una firma sul gioco. La sua storia è abbastanza conosciuta e lo dimostra.

Le prime firme di Neymar con la matita

Matita. Bastoncino di legno con un’anima in grafite. La matita è leggerezza. Il suo corpo in legno si consuma progressivamente e può spezzarsi con facilità, mentre il suo tratto è così leggero da essere cancellato in un attimo. Solo ripassando il tratto più volte si può lasciare qualche traccia visibile nel tempo.

Neymar nasce a Mogi das Cruzes nello stato di San Paolo il 5 febbraio 1992. A quattro mesi di vita rischia di morire in un incidente stradale. Ne esce fuori praticamente illeso, nascondendo la propria identità alla morte con una temporanea maschera di sangue. Le sue origini sono umili. Suo padre è un ex calciatore che è costretto a reinventarsi più volte nel corso della propria vita. I continui spostamenti e i conseguenti traslochi nelle diverse zone di San Paolo rendono impossibile l’individuazione dei punti di riferimento fondamentali.

Jardim Glória, Praia Grande, São Vicente, Santos. Cambiano i quartieri, le zone, i comuni ma ciò che non cambia è l’amore per il calcio del figlio di Neymar Sr. Che sia la strada, la spiaggia, l’erba di un parco, un campo in terra battuta o quello indoor di una palestra, Neymar si trova sempre bene con il pallone tra i piedi. Con il trasferimento nel quartiere di Santos ha inizio la sua carriera. Portuguesa Santista, Santos, Barcellona, Paris Saint-Germain e Seleçao. Sono queste le squadre in cui al momento ha militato.

Gli inizi nella prima squadra del Santos risalgono al 2009. Neymar sembra veramente una matita. Smilzo, con i capelli cortissimi e una maglietta extra-large, che probabilmente è stata indossata in precedenza dalla mascotte della squadra. Inizia a segnare alla sua seconda partita ufficiale e lo fa da attaccante opportunista. Continua su questo trend per un po’ di tempo, poi avviene il cambiamento. Neymar inizia ad assumere una consapevolezza maggiore della propria identità.

Neymar dribbla Alessandro del Corinthians durante una partita di Copa Libertadores (Foto: Vanderlei Almeida/AFP via Getty Images – OneFootball)

Crescono i capelli – una cresta che lo renderà progressivamente sempre più simile a una scopa – e aumenta la propensione all’individualismo orientato a mostrare le proprie doti. Gol su azione individuale; dribbling in quantità industriale; sequenze composte da finte e controfinte di un’inutilità sensazionale; cambi di direzione generati da combinazioni di suola e tacco fatti a velocità irreale. In questo periodo Neymar sente l’esigenza di mostrare il suo intero repertorio, forse per desiderio di stupire. Forse per la paura di risultare banale.

Sembra soffrire di horror vacui perché riempie il campo di giocate e gesti sempre diversi, spesso anche inutili. Come Leonard Shelby in Memento, sembra che Neymar abbia bisogno di ricordare continuamente a se stesso e agli altri chi è. È diventato il leader tecnico della squadra e può fare letteralmente ciò che vuole. La sua avventura al Santos conferma come per lui il gesto e lo stile siano al centro di tutto. È così che si stabilisce la propria firma stilistica.

Il passaggio alla penna stilografica

La penna stilografica è l’eleganza per definizione. La struttura è semplice ma ricercata, il suo tratto è leggero e pulito. Sicuramente una firma con la penna stilografica è più resistente e duratura di una fatta con una matita.

Nel giugno del 2013, Neymar prende una penna stilografica e mette la firma su un nuovo capitolo della sua carriera: diventa un calciatore del Barcellona. Inizialmente sembra sempre lo stesso giocatore del Santos. Segna il suo primo gol con la maglia blaugrana alla seconda partita ufficiale – come accaduto anche nella sua precedente avventura brasiliana – e sembra muoversi come è solito fare. In realtà O’Ney si è evoluto. È molto più maturo, più consapevole dei propri mezzi e del contesto tecnico in cui è inserito. Si adatta alla grande. Ripulisce il proprio gioco, facendo quasi un lavoro di labor limae. Pesca dal suo sconfinato repertorio di giocate, movimenti, trick e sceglie unicamente ciò che può essere più efficace per sé e per la squadra. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumentano considerevolmente i gol e gli assist, anche durante le partite più importanti.

Gol con sombrero incorporato di Neymar contro il Villarreal (Foto: Josep Lago/AFP via Getty Images – OneFootball)

Parallelamente alla crescita evolutiva con la maglia del Barcellona, Neymar diventa progressivamente il leader tecnico con la maglia verdeoro del Brasile. I riflettori di un intero paese sono rivolti su di lui.

La fase pittorica

Nella stagione 2017/2018 Neymar decide di abbandonare la penna stilografica per scegliere il pennello e la pittura.

Al Paris Saint-Germain trova un contesto differente rispetto al Barcellona. Ha una maggiore libertà tecnica grazie all’assenza di uno stile di gioco ben definito; è circondato da altri compagni di squadra con lo status di superstar; gioca in un campionato poco combattuto, dominato dalla sua squadra. Tutta l’attenzione è focalizzata sulla Champions League. Il campionato e la Coppa di Francia rappresentano la tela su cui Neymar crea la propria arte, su cui lascia la propria firma. A differenza dei precedenti capitoli della sua carriera, parte alla grande: gol al debutto.

Ma ciò che ha in mente è più complesso rispetto al passato, non esente da contraddizioni. È come se volesse esporre le sue opere di espressionismo astratto al Louvre. Gol inventati dal nulla, assist visionari, umiliazioni nei confronti degli avversari, falli subìti e successive vendette. Tutto questo si alterna in un loop incontrollato che condensa il meglio e il peggio di Neymar.

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Neymar dribbla mezzo Monaco (Foto: Bertrand Guay/AFP via Getty Images – OneFootball)

Uno dei momenti simbolo della sua esperienza parigina non corrisponde a un determinato gol o assist, ma raccoglie tutte le caratteristiche di O’Ney citate in precedenza e del perché giochi in quel modo.

23/01/2019, Parco dei Principi, Parigi. Quarto turno della Coup de France: PSG-Strasburgo.

Neymar gioca la partita in posizione più accentrata, quasi da centrocampista in fase di possesso. Però lo fa con lo stesso atteggiamento di chi vuole essere raso al solo più volte dall’avversario. Va vicino a segnare con due calci di punizione e rischia di mandare in porta i suoi compagni con alcuni assist con gli effetti speciali. Ma la vibe che trasmette è differente. Sembra che voglia giocare solamente per ostentare la propria superiorità sugli altri e non necessariamente per vincere. È abrasivo, fastidioso, scostante.

Al 56′ – sul punteggio di 1-0 per i parigini -, arriva il momento che incendia gli animi. Neymar riceve spalle alla porta il passaggio di Marquinhos all’altezza della metà campo avversaria. Il radar nel suo cervello manda il segnale: avversario in arrivo alle spalle. Dall’archivio delle giocate viene scelta la combo “stop di suola + cambio di direzione incorporato” per mandare al bar Gonçalves e accentrarsi ulteriormente sul campo. Ma Zemzemi non è d’accordo e decide di mostrare il suo supporto nei confronti del compagno di squadra appena dribblato. Per fermare Neymar in accelerazione bisogna abbatterlo. Zemzemi opta per farlo letteralmente, prendendolo a calci finché Neymar non stramazza al suolo.

L’arbitro fischia il fallo per il PSG, ma Neymar non ci sta. Va bene, stava giocando in un modo che avrebbe fatto innervosire pure un maestro zen ma così è troppo. Si accende un focolaio di rissa ma i due protagonisti dello scontro si limitano a un faccia a faccia condito da una sequenza di parole poco gentili. Intanto, Neymar gliel’ha giurata. Un giocatore di talento può rispondere sul campo solo in modo non violento, magari offrendo un assist decisivo o segnando. Tuttavia, O’Ney non è esclusivamente un calciatore talentuoso. Lui è il prototipo del calciatore brasiliano descritto precedentemente. Un talentuosissimo malandro irridente cresciuto nel contesto urbano del futebol moleque. Quella tipologia di calciatore che non risponde attaccando fisicamente ma che si vendica attraverso l’umiliazione sul campo.

L’arbitro fischia la ripresa del gioco e la reazione del brasiliano è immediata. Salta secco Zemzemi con una lambreta che imprime al pallone una traiettoria ad arcobaleno, facendo ribaltare il tunisino in maniera goffa. Successivamente supera Liénard con un colpo di testa e, per non farsi mancare nulla, aggiunge ulteriore mostarda alla sua giocata, facendo partire un tiro da fuori area che va a lambire il palo. Oltre alla vendetta, va pure vicino a segnare. Una giocata da mascella sbriciolata firmata Neymar Jr. Per la cronaca, il 10 del PSG uscirà dal campo qualche minuto dopo per infortunio, causato dai colpi incassati in precedenza.

Neymar, dalla firma al brand

Come accennato brevemente qualche paragrafo fa, quando si parla di Neymar nel contesto della Seleçao si verifica un cambio di prospettiva. La sua carriera con la nazionale è caratterizzata da alcuni trofei vinti – un Sudamericano U20, un oro alle Olimpiadi di Rio 2016 e una Confederations Cup -, ma soprattutto dagli infortuni e dai rimpianti: i Mondiali di Russia 2018 e il Mineirazo ai Mondiali in Brasile del 2014 sono ancora presenti nel cuore e nella mente dei tifosi brasiliani. Per un giocatore della sua caratura, si può definire un’esperienza al momento deludente rispetto alle attese. Però i Mondiali e le Olimpiadi sono importanti, perché forniscono una vetrina per essere visti e conosciuti in tutto il mondo, anche da chi non segue abitualmente il calcio. Ad esaltare ancor di più questo fenomeno ci sono le campagne pubblicitarie ideate dai principali marchi sportivi.

Grazie al lavoro pubblicitario della Nike, la nazionale brasiliana è diventata un brand conosciuto globalmente da praticamente tutti. Di conseguenza, lo diventano anche le figure di riferimento della compagine verdeoro. Non appena Neymar è finito sotto le luci dei riflettori, Nike si è fiondata immediatamente ad eleggerlo come uno dei simboli dell’identità calcistica brasiliana. Il nuovo leader tecnico per una nazionale in ricostruzione. Il punto d’unione tra il vecchio e il futuro, sempre nel segno del futebol bailado. È l’emblema di quel calcio geniale, audace, creativo, ricco d’azzardo che ha fatto innamorare Nike e tutto il mondo a partire dalla fine degli anni Novanta. Il successo delle campagne pubblicitarie del brand dell’Oregon si basa su una scelta molto semplice quanto efficace. Viene messo il gesto al centro di tutto, in quanto elemento fondatore di identità, quindi perfetto per il calcio brasiliano.

Negli spot pubblicitari viene mostrato un immaginario che possa fare immediatamente presa sugli spettatori, che diventano potenziali acquirenti. La scelta delle giocate più iconiche di un calciatore vengono prese dal contesto calcistico e rese fruibili da chiunque in ogni parte del globo. È il meccanismo di trasposizione mentale di un contesto in un altro. Questo serve a facilitare il processo cerebrale che il cervello deve attivare per riconoscere un determinato gesto come “già visto”. Può essere il doppio passo a tutta velocità di Ronaldo preso dal campo e trasportato all’interno di un aeroporto o – parlando di icone che travalicano i confini di uno sport ed entrano in quelli della cultura di massa – una schiacciata di Michael Jordan che viene recuperata da un momento di levitazione durante una partita e diventa il logo del famoso marchio omonimo.

In questo caso, Neymar non è solamente un’anomalia a livello di identità calcistica, ma anche a livello pubblicitario. Non sono esclusivamente le sue signature move a prendere possesso della mente degli spettatori che assistono alle sue gesta. È la sua cinesica a rappresentare la propria identità, facendolo diventare il brand di se stesso. Nike può prendere Neymar e inserirlo in qualunque campagna pubblicitaria, l’impatto sul pubblico è sempre garantito.

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Si può prendere questo controllo di Neymar e inserirlo tranquillamente all’interno di uno spot pubblicitario (Foto: Wang Zhao/AFP via Getty Images – OneFootball)

Neymar è colui che può permettersi di giocare le partite della sua Nazionale come se giocasse in spiaggia. È lo spericolato e imprudente dribblomane che viene mostrato in versione cartoonesca mentre esalta il proprio stile, prendendosi dei rischi. È ancora meglio se si possono recuperare dalle partite i suoi doppi passi infiniti e portarli in uno spot in cui prende in giro gli avversari, muovendo le proprie gambe come un tornado intorno al pallone. O’Ney è il calciatore che prende l’individualismo e lo esalta a priorità, dribblando tutti per segnare in maniera stilosa. Ma è anche il simbolo che trascende la realtà e diventa virtuale, esaltando il gesto come segno della propria identità. Contemporaneamente, diventa l’icona che nel mondo reale fornisce l’ispirazione necessaria per ripartire e proiettarsi verso il futuro.

Neymar è un personaggio divisivo. Odiato per alcune sue giocate quasi fuori contesto, fatte giusto per affermare “eccomi, sono io” o per l’esasperazione nei contatti fisici – indimenticabili le sue rotolate a terra che lo hanno reso simile a un motociclista che cade sulla ghiaia a oltre 200 all’ora – e amato dagli esteti del calcio che prediligono un dribbling spettacolare o una giocata geniale realizzata anche solo per sottolineare il proprio talento.

Che si ami o che si odi, O’Ney è iconico nella sua unicità. Il suo modo di porsi nei confronti del gioco marchia a fuoco la mente di chi lo vede giocare. Si potrebbe mascherarlo, nascondendo ogni sua caratteristica fisica, ma basta mettergli un pallone tra i piedi per far risaltare la sua identità solamente dal linguaggio del corpo. Nonostante le squadre, i compagni di squadra o i contesti tattici differenti, Neymar sarà sempre colui che lascia la propria firma sul campo.

Autore

Cagliaritano, classe '95. Appassionato di calcio, motorsport, basket e sport d'azione. Sempre pronto a parlare seriamente di cose stupide (e viceversa).

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