Il calcio, si sa, è fatto di cicli più o meno lunghi. L’abilità di ogni squadra nel mantenersi ad alto livello sta nell’interpretare e possibilmente anticipare la fine di questi cicli, per rinnovarsi continuamente. Un processo del genere va attuato nella maniera meno traumatica possibile, solitamente. Ciò che è accaduto negli ultimi 18 mesi al Barcellona va evidentemente nella direzione opposta: uno shock continuo, una serie di colpi di scena e cliffhanger da serie tv, che spesso hanno esposto la squadra blaugrana al pubblico ludibrio e a una critica spietata. Ma c’è anche un’altra faccia del Barça: una squadra che dal punto di vista puramente tecnico sta affrontando con lo spirito giusto questa rivoluzione, rinnovando la squadra in maniera radicale. La direzione tecnica dei blaugrana non sta avendo paura di fare delle scelte, al limite tra il coraggio e l’incoscienza, che saranno decisive per il futuro della società catalana. Ma andiamo con ordine.
L’inizio del declino: il post-Luis Enrique
Per osservare con cognizione di causa la situazione attuale del colosso spagnolo, bisogna andare indietro di qualche anno, partendo dal 2017. Al termine di quella stagione, Luis Enrique abbandonò la panchina del Barça dopo un quadriennio più che proficuo, in cui l’ex tecnico della Roma aveva contribuito ad allungare il ciclo inaugurato da Pep Guardiola nel lontano 2008, evolvendo i princìpi del gioco blaugrana attraverso una nuova interpretazione dei compiti dei singoli (Messi sempre più numero 10, ad esempio), dovendo anche adattarsi a calciatori diversi (Suárez e Rakitic su tutti) in cui si rispecchiava un Barcellona più diretto ma non meno efficace. Il suo successore, Ernesto Valverde, ha provato a portare questa trasformazione all’estremo, proponendo un Barcellona pragmatico e diverso negli sviluppi di gioco, che faceva affidamento su calciatori diversi nelle varie fasi di gioco: basti pensare ad Arturo Vidal, spesso proposto addirittura da vertice alto di un rombo di centrocampo, in antitesi rispetto alla classica visione di gioco catalana: un elemento votato all’inserimento e alla rottura del gioco avversario, più che al continuo fraseggio (soprattutto nell’ultima parte della sua carriera).
Seppur criticatissimo, i risultati raccolti in patria da Valverde sono stati più che egregi: due titoli di campione di Spagna consecutivi, una Copa del Rey e una Supercopa in due stagioni e mezzo, prima dell’esonero arrivato a gennaio 2020. Il vero neo dell’ex attaccante spagnolo è stato, però, la fragilità nelle competizioni europee. In Champions League, Valverde ha contribuito a creare un vero e proprio “complesso della rimonta” (che poi si evolverà più tardi, ma ci arriviamo): due ribaltoni clamorosi, ai quarti di finale nel 2018 (contro la Roma, 3-0 al ritorno allo Stadio Olimpico dopo il 4-1 dell’andata) e in semifinale nel 2019 (contro il Liverpool, 4-0 al ritorno a Anfield Road dopo il 3-0 dell’andata). Due situazioni all’apparenza incredibili, arrivate per altro dopo due match d’andata abbastanza diversi, a dimostrazione che non c’era una matrice comune alla radice di questo rilassamento che causasse ribaltoni: la vittoria in Spagna contro la Roma fu frutto di diversi episodi fortunati (due autogol e due gol a dir poco fortunosi per Messi e soci); quella contro il Liverpool fu una vera e propria dimostrazione di forza contro una squadra fortissima, all’epoca vice-campione d’Europa (basti pensare che Dembélé sprecò anche diverse occasioni per il 4-0, che forse avrebbe ammazzato psicologicamente i Reds e chiuso definitivamente i conti).
Gli addetti ai lavori più critici nei confronti di Valverde hanno cercato di far risalire le motivazioni dell’esonero – la cui causa principale, va ribadito, è da trovare nelle due disastrose serate di Coppa – ad una marcata differenza identitaria: le due débâcle continentali, in sintesi, sono state anche causate da una scarsa fiducia nelle proprie idee, da una passività niente affatto tipica di quelle latitudini. All’indomani dell’esonero, Gabriele Lippi scriveva su Esquire:
Valverde va via perché è troppo Txingurri, troppo formichina. Perché non ha mai smesso di essere quello di Bilbao, nemmeno quando è arrivato al Camp Nou. Perché ha sempre messo la logica del risultato davanti a quella di un’identità di gioco che in due anni non è mai stata espressa chiaramente. […] Ha fatto vedere sprazzi di grande calcio ma li ha alternati a clamorosi passaggi a vuoto.
Serviva un’inversione di rotta, un cambio di marcia a livello di identità di squadra: il Barcellona aveva bisogno di ritrovare sé stesso; non necessariamente nei concetti dell’albero genealogico olandese-catalano, anche in una versione rivisitata. In quel momento, il management blaugrana ha compiuto una delle scelte peggiori che potesse fare (anche se giudicare a posteriori è sempre troppo semplice), scegliendo un allenatore con una buona carriera in squadre senza obiettivi altalenanti e mettendolo in una situazione molto più grande di lui. Dopo tanti anni passati tra la Segunda e le zone centrali della classifica in Liga, all’età di sessantadue anni Quique Setién si è trovato di fronte all’opportunità della carriera e non ha saputo dire di no. Non ha avuto la lucidità, forse il coraggio, di rifiutare una squadra che nel suo proposito era la stella polare delle sue visioni calcistiche, ma che in quell’esatto momento era ciò che di più distante potesse esserci dal juego de posición praticato dal tecnico originario di Santander.
Senza la possibilità di scegliere la rosa a propria disposizione, anzi, potendo intervenire in maniera limitata nel mercato di riparazione di gennaio (un solo acquisto: il tragicomico, quantomeno in quei mesi, Braithwaite, dal Leganés), e soprattutto senza nessun ritiro nel quale avere tempi e spazi per poter trasmettere ai propri giocatori concetti di gioco di complessa assimilazione, Setién non è riuscito a fare granché: vero, in campionato sono arrivati 42 punti in 19 partite, ma anche nessuna vittoria nelle partite di cartello (pareggi sbiaditi contro Siviglia e Atletico, sconfitta perentoria contro il Real) e diverse partite risolte in extremis, senza lasciare sensazioni positive. Di certo la lunga pausa causa lockdown ha inasprito le difficoltà di un gruppo oramai arrivato a fine corsa, complicando ulteriormente il lavoro già difficile del coach cantabrico.
Il peggio è arrivato sui titoli di coda: la sconfitta per 2-8 contro il Bayern Monaco, nel surreale quarto di finale giocatosi a Lisbona ad agosto, è un’onta che sarà difficile lavare per molti anni a questa parte, e su cui il nome di Setién rimarrà marchiato a fuoco. Ecco l’evoluzione del “complesso della rimonta”, che nell’estate delle puerta cerrada diventa un complesso europeo in purezza, acuito e forse chiuso definitivamente poco fa (ancora una volta, ci arriviamo più in là).
Back to the origins: la mossa Koeman
In casa Barcellona, i giorni successivi a siffatta disfatta sono tribolati. In Catalogna tiene banco il caso Messi: il fenomeno argentino, al culmine di tensioni durate anni con il presidente Josep Bartomeu, minaccia di abbandonare la squadra di cui è stato a lungo bandiera, facendo valere una clausola inserita nel suo contratto che gli avrebbe permesso di abbandonare il club. Sono giorni di trattative serrate, quelli di fine agosto: si fa sentire anche La Liga, a dimostrazione di un governo di lega, quello di Javier Tebas, sempre più interventista e attento al controllo del campionato in tutti i suoi dettagli. Alla fine il 10 rimarrà, dando l’annuncio in una lunga intervista-sfogo arricchita di hype, una sorta di Decision ma con il finale opposto: permanenza, non addio.
Tra le mosse fondamentali per convincere Leo a rimanere in blaugrana, si dice ci sia la scelta del nuovo allenatore. Ha già fatto la storia del Barça con quella maglia addosso ed è pronto a farla in panchina: si tratta di Ronald Koeman, che si vede costretto ad abbandonare la panchina della nazionale olandese (sulla quale stava compiendo un ottimo percorso, testimonianza ne è la finale di Nations League raggiunta) pur di cogliere al volo l’occasione della carriera. Ecco un tratto in comune con Setién: anche per l’ex difensore goleador, pilastro del primo Barcellona campione d’Europa (quindi allievo di Cruyff e compagno di squadra di Guardiola) questa è l’occasione della carriera, un treno da prendere al volo, un notevole salto di qualità rispetto alle proprie ambizioni standard. Certo, in assoluto non si parla dello stesso curriculum dell’allenatore protagonista con il Las Palmas: Koeman ha allenato perlopiù in Olanda, vincendo diversi titoli nazionali, ma ha anche avuto una fugace esperienza al Benfica e diversi anni in Premier League, potendo ibridare le proprie idee di gioco per creare uno stile tutto suo. In più, nel campionato spagnolo ci è già stato, sebbene per pochi mesi e ormai un’era calcistica fa (stagione 2007/2008): nei sei mesi al Valencia, l’olandese si è anche permesso il lusso di portarsi a casa una Copa del Rey.
Il compito di Koeman non è affatto semplice: la situazione economico-finanziaria del club non è delle migliori, dunque bisogna fare di necessità virtù. Via alle (s)vendite, con tanto di tentativo di ricambio generazionale: vanno via due simboli del decennio passato come Rakitić e Suárez, per scelta diretta del mister; lasciano il club anche elementi potenzialmente importanti, come Rafinha Alcantara, Cucurella e Arthur, inserito nel famigerato scambio con Pjanic. Anche in fase di acquisto, le idee sono chiare: oltre al già citato bosniaco, arrivano Pedri, Trincão e Sergiño Dest: età media sotto i vent’anni, spesa totale di 62 milioni, bonus inclusi. Questi tre giovanissimi si sono aggiunti ai difensori Araùjo e Mingueza, entrambi ventunenni all’epoca, e alla potenziale stella Ansu Fati, calciatore dai lampi assoluti ma che purtroppo ancora oggi non riesce a dare continuità sul terreno di gioco, tormentato da troppi problemi fisici (ben tre operazioni lo scorso anno).
In questo contesto, il Barcellona cercava di iniziare una stagione, ma più in generale un ciclo tecnico, per lasciarsi alle spalle il quadriennio precedente, caratterizzato – come sottolineato in queste righe – da un certo distacco dal credo calcistico catalano, e più in generale da un’esacerbazione dell’ambiente, con uno spogliatoio sempre più anziano e prosciugato di stimoli. Dal punto di vista tattico, Koeman ha approcciato la prima parte della scorsa stagione nel classico solco blaugrana, impostando una difesa a 4 con alcune varianti dal centrocampo in su, principalmente 4-3-3 e 4-2-3-1, in particolare la seconda: l’obiettivo principale degli sviluppi offensivi del Barça era quello di mettere Messi nelle migliori condizioni, avvicinandolo il più possibile al centro del campo e alla porta per ricevere dove potesse subire minacciare pericolo alle difese avversarie.
Un calciatore che ha senza dubbio beneficiato dell’approdo di Koeman è stato Antoine Griezmann. Dopo diversi anni sacrificato da quarto di centrocampo, le Petit Diable è tornato a gravitare negli ultimi metri, concludendo una stagione forse sottovalutata dai più, totalizzando 20 reti e 16 assist tra tutte le competizioni (di gran lunga il suo miglior bottino in Catalogna). Anche le statistiche avanzate hanno certificato la maggior centralità, sia geografica che tecnica, dell’attuale attaccante dell’Atletico: 5° per passaggi progressivi ricevuti in Liga (262) e 9° per Non-Penalty xG per tiro (0,18, dato abbastanza forte, a dimostrazione della bontà delle occasioni che riusciva a costruirsi).
Nella seconda parte di stagione, dopo un paio di esperimenti ad inizio anno, Koeman è passato in pianta stabile alla difesa a 3, optando per un 3-5-2 che prevedeva alcune volte due trequartisti e una punta, sulla base anche delle interpretazioni dei singoli. L’obiettivo era quello di esaltare le doti di due calciatori che l’anno scorso sono stati i veri protagonisti del Barcellona: Pedri e Frenkie de Jong. Sul primo si è già versato abbastanza inchiostro, ed è quasi superfluo ribadire alcuni concetti: al suo esordio in Liga, si è messo in luce come una stella con pochi pari, dimostrando qualità e maturità da predestinato. Il secondo è ormai da anni il coltellino svizzero di ogni allenatore passato da queste parti, e di certo il suo ex commissario tecnico non se lo fa dire due volte: play basso (raramente), incursore o falso difensore centrale, come ai tempi dell’Ajax, da cui far ripartire l’azione, grazie ad alcune qualità in cui eccelle (precisione nella trasmissione palla, velocità di pensiero, continuità ed intelligenza motoria nel riproporsi sempre come possibile ricevitore dopo aver scaricato la palla). L’utilizzo di de Jong è paradigmatico di un problema che attanaglia Koeman dalla seconda parte di stagione in poi: una certa confusione nell’utilizzo del materiale umano a sua disposizione. Gli esperimenti del tecnico olandese sono stati molteplici: tra i tanti, anche Ousmane Dembélé punta centrale.
L’eliminazione agli ottavi di Champions League contro il Paris Saint-Germain e il terzo posto in campionato sono problemi non di primo conto, considerata la situazione di partenza. Il vero problema arriva ad agosto, quando bisogna fare i conti con il contratto scaduto di Messi: il salary cap imposto dalla Liga non permette alla società blaugrana, che nel frattempo ha cambiato presidenza (via l’arcinemico Bartomeu, dentro il presidente del primo Triplete, nonché amico di Messi e Guardiola, Joan Laporta), di rinnovare il contratto della Pulce. É la fine di un’era: il Barça come istituzione viene duramente colpito da questo evento, e le ricadute tecniche non sono da meno. Koeman, che non è mai riuscito a convincere fino in fondo, perde definitivamente il polso della squadra nella prima parte di questa stagione, offrendo prestazioni e risultati pessimi in Champions e un andamento altalenante in campionato: a fine ottobre il suo ciclo è finito, e dalle parti del Camp Nou tocca al Destino palesarsi.
Il ritorno di Xavi a Barcellona
Non sono passati nemmeno due mesi dall’approdo del leggendario centrocampista blaugrana sulla panchina di casa sua, ma si respira già un’aria diversa. Il motivo, o meglio, uno dei motivi, è presto detto. Scrive Alessandro Cappelli su Rivista Undici:
Forse c’entra la dimensione caratteriale, o l’aura magica che si trascinano dietro alcuni allenatori che sono prima di tutto vecchie glorie del loro club. È facile immaginare che un’icona del Barcellona, dello United o della Juventus possa superare, dalla panchina, difficoltà che ha già vissuto da calciatore nella stessa squadra, nello stesso clima, negli stessi luoghi fisici e quindi anche dell’anima. E poi anche per un direttore sportivo assumere una leggenda del club significa ingraziarsi con una mossa buona parte della tifoseria, questo è innegabile.
Vero, anche Koeman ha vinto all’ombra delle ramblas, ci ha messo una firma indelebile. Ma le memorie dei tifosi sono spesso corte, e Xavi è il passato più recente, quello più luminoso. In più, l’ex numero 6 ha addosso un certo velo magico, una sorta di predestinazione tramandatagli dal suo maestro Pep Guardiola, la cui ombra aleggia sempre da queste parti. L’immagine più vista nei primi giorni della nuova vita blaugrana di Xavi è un manifesto di questo nuovo corso blaugrana.
Rinus Michels le enseñó a Johan Cruyff que le pasó sus conocimientos a Pep Guardiola y así el ADN llegó a Xavi Hernandez.
El Barça tiene nuevo DT y el legado continúa✨ pic.twitter.com/6jiJrXWEPP
— Don Futbol (@DonFutboI) November 5, 2021
Gli insegnamenti, il gioco di posizione, la filosofia, tutto bello. Ma poi ci sono i numeri, perché da quelli non si scappa. Ma anche lì il Barcellona di Xavi fa discretamente bene: prendendo in considerazione il solo campionato (la situazione in Champions era oramai sfuggita di mano), il nuovo tecnico del Barça ha totalizzato 10 punti in 6 partite, contro i 16 punti in 11 gare del suo predecessore (1,67 punti il primo contro gli 1,45 del secondo). Anche i dati più elaborati danno ragione a Xavi: 1,95 xG e 0,82 xGA a partita contro gli 1,71 xG e 1,01 xGA di Rambo in questa stagione (dati aggregati di fbref e Understat). Sebbene il campione non sia ancora significativo (solo 6 partite per Xavi) il miglioramento risulta notevole in entrambe le fasi di gioco. Di sicuro influisce la proverbiale scossa che il catalano sarà riuscito a dare ai suoi calciatori, ma non va sottovalutato il suo lavoro, anche se solo ai primi livelli.
Come vuole presentarsi il Barcellona di Xavi
Guardando la formazione di Xavi in maniera superficiale, si potrebbe pensare ad un Barcellona di semplice interpretazione: 4-3-3 simmetrico, con una gran mole di possesso e una ricerca lunga e ossessiva nella costruzione dal basso e un pressing asfissiante. Tutto ciò è vero solo in parte. Nella sua prima partita da allenatore del Barcellona, nel Derbi Barceloní contro l’Espanyol, sembrava in effetti di vedere un Barça dominante e asfissiante, accampato nella trequarti avversaria e con una disposizione interessante in campo (Mingueza terzino bloccato a destra, Jordi Alba sganciato a sinistra). Già dalla partita successiva contro il Villarreal si è visto un altro Barcellona: il dato più emblematico è quello del PPDA (Passes per Defensive Action), che esprime l’intensità del pressing di una squadra, ed è tanto più efficiente quanto più è basso. Dal 6,36 contro i rivali cittadini si è passati al 13,06 contro il Sottomarino giallo, in una partita nella quale il Barcellona non ha voluto concedere il fianco agli uomini di Emery accomodando la partita nei binari da loro desiderati (pressione alta degli avversari e campo aperto da attaccare), dovendo però quindi mantenere la concentrazione più alta per una difesa posizionale con baricentro medio-basso. Questa strategia si è rivelata un rischio, con il risultato in bilico fino agli ultimi minuti, ma alla fine ha avuto ragione il Barcellona.
A dimostrazione di un Barça leggermente più reattivo e diretto anche il dato del possesso palla: dal 66% di media con Koeman si passa ad un 61% che è pur sempre bulgaro, ma di certo un cambiamento c’è stato. Che Xavi ancora non si fidi pienamente dei meccanismi di pressione dei suoi è chiaro: seguendo ancora l’evolvere dei PPDA nelle partite successive, si può notare che il numero è molto basso contro le compagini nettamente più deboli, mentre ritorna ad assestarsi su un dato più corposo contro il Siviglia, arrivando ad un 8,38 viziato dall’espulsione di Koundé all’ora di gioco che ha contribuito ad abbassare un dato che altrimenti sarebbe stato più elevato. Nonostante la discontinuità nell’approccio (sebbene i numeri siano, in assoluto, tra i migliori in Europa), il pressing è più che efficace, come dimostra questo grafico.
I've made a plot to describe which teams press well and concede less shots, basically which team press in an organised manner and which teams just go all out with pressing and don't bother about keeping a structure and there by facing more shots from the opposition. pic.twitter.com/GFeTEsD8Ye
— Yash (@FutBall3r) December 25, 2021
Anche dal punto di vista dell’occupazione degli spazi si può scomporre la pur breve esperienza azulgrana di Xavi in due parti: nelle prime gare di campionato, il Barcellona si è schierato in campo con un 4-3-3 abbastanza ortodosso, come già detto per la gara contro l’Espanyol: a destra un terzino di contenimento (perlopiù Mingueza e Garcia, ma anche Dest quando a disposizione), con Jordi Alba libero di cercare la profondità specialmente senza palla; dall’incontro contro l’Osasuna in poi, nel mezzo spazio difensivo di destra si è posizionato Ronald Araùjo, trasformando la difesa in una pura retroguardia a tre, mentre sono spesso ruotati i suoi compagni di reparto (Garcia, Piqué, Lenglet e Umtiti, con i due francesi più defilati e vicini alla cessione). Dal centrocampo in su, Xavi si è affidato ad un rombo di costruzione (3-3-1-3, dunque) che riporta ad uno step precedente della sua formazione, cioé quello cruyffiano, che è stato analizzato con dovizia di particolari da Carlo Pizzigoni sull’edizione dicembrina de Il Nuovo Calcio. Scrive Pizzigoni:
Nell’ultima parte della vita di Cruyff, i due si sono incontrati spesso in privato, una specie di corso intensivo che Xavi ha voluto prendersi nonostante i tanti anni di Camp Nou. […] Sa un po’ del viaggio esistenziale di Guardiola, che in Messico sceglie di farsi allenare da Juanma Lillo e in Argentina organizza incontri-fiume con Cesar Luìs Menotti e Marcelo Bielsa.
Xavi alle prese con i suoi eredi
In una video-intervista rilasciata a The Coaches’ Voice, ripresa anche dallo stesso Pizzigoni nel suo articolo, Xavi spiega il principio fondamentale da cui parte per decidere il sistema di gioco, ovverosia la superiorità numerica con i difensori. Quando le squadre di Xavi affrontano una coppia d’attacco, il suo undici si dispone con tre difensori; quando contro c’è un tridente, Xavi torna alla difesa a 4. Nello stesso video, il catalano spiega che la priorità del suo gioco è trovare l’uomo libero dietro la prima linea di pressione, meglio ancora se in zona centrale, approfittando delle falle nel pressing avversario, per far collassare la linea di difensiva avversaria nella propria trequarti – o meglio ancora, nella propria area. In questo contesto è fondamentale il ruolo delle mezzali, e Xavi sta trovando pane per i propri denti con due prodotti originali de La Masia come Gavi e Nico Gonzalez (sebbene contro l’Elche quella zona sia stata occupata anche da Jordi Alba). La stagione di questi due calciatori, entrambi alla prima esperienza nel calcio professionistico, sta lasciando a bocca aperta tutti gli appassionati.
Pablo Paez Gaviria, nome completo del primo, è il classico centrocampista creativo azulgrana, con una tecnica di base spropositata e una gran personalità e visione, che gravita alla perfezione tra le linee di centrocampo avversaria a difesa. I suoi numeri parlano per lui: 0,19 assist p90 minuti (89° percentile nei 5 campionati top europei rispetto ai pari ruolo), 7,06 conduzioni progressive p90 (93° percentile), 1,61 dribbling completati p90 (93° percentile anche qui), ma soprattutto 0,56 passaggi filtranti p90 (99° percentile, praticamente il migliore). Risulta quasi ridondante osservare tutte le statistiche in cui il classe 2004 eccelle, sarebbe più semplice limitarsi ad osservare la sua leadership e la sua continuità sul terreno di gioco. La maggior curiosità, adesso, sarà quella di vederlo accanto a Pedri, cosa che adesso non si è praticamente mai vista per via dell’infortunio occorso al centrocampista canario: due cervelli calcistici così, con un paio d’anni di differenza, non possono che riportare alla mente una coppia di palleggiatori che da queste parti hanno scritto qualche pagina di storia.
Il talento di Nico è meno scintillante, ma non per questo meno meritevole di valorizzazione e menzione. Volendo continuare l’analogia con quel terzetto magico, il numero 28 può essere assimilato a Busquets, in questo momento decano e chioccia di questo gruppo di centrocampisti che dovrà prendere in mano il Barcellona. Al contrario del classe 1988, però, Nico è un elemento più offensivo: predilige giocare da mezzala destra e inserirsi senza palla, sebbene non gli manchino affatto capacità di circolazione della sfera. Proprio grazie agli inserimenti sono arrivati i suoi primi due gol con il Barça, contro Osasuna ed Elche, entrambe le volte imbeccato da Gavi. Le similitudini con Busi sono principalmente legate all’utilizzo del fisico: entrambi 1,88, fisico affusolato molto simile, non spiccano tuttavia per atletismo (anche se Nico è un po’ più dotato sotto questo punto di vista, sebbene sia ancora grezzo).
A queste tre giovanissime stelle va aggiunto Frenkie de Jong, il quale negli ultimi tempi è stato coinvolto direttamente da suo padre in alcune voci di mercato, ma a Barcellona sembra veramente nel suo habitat naturale: Xavi sta sfruttando la sua capacità nella lettura degli spazi per utilizzarlo nella trequarti avversaria, dove è libero, seguendo il suo istinto, di inserirsi negli spazi lasciati liberi da Depay o di creare una linea di passaggio più immediata per le mezzali, venendo a centrocampo a fluidificare il possesso. Una sua possibile cessione, al pari di quella di ter Stegen, sarebbe l’errore più grave che questa dirigenza possa fare: si tratta di due calciatori fondamentali, con caratteristiche uniche sia all’interno di questo gruppo che nel calcio europeo. Detto della versatilità di de Jong, la bravura tra i pali e la precisione nel gioco lungo del portiere tedesco sono merce rara (55,7% di precisione nei lanci lunghi, 98° percentile nei 5 campionati top europei).
Ali e punte, tutto in divenire
L’ultimo tassello in questo puzzle in costruzione è quello offensivo. Giocando a tre dietro, i calciatori deputati a offrire l’ampiezza in questo sistema di gioco sono le ali offensive. Riprendiamo Pizzigoni, che analizzando questa batteria spiega:
Larghezza e profondità sono ricercate a partire dalla posizione delle ali, due giocatori non negoziabili nel piano, che devono allungare il campo dalla linea d’attacco e allargarlo per separare gli uomini che compongono la difesa avversaria, affinché i centrocampisti abbiano più spazio per circolare la palla, affinché il cambio di gioco sia sempre un’opzione valida, affinché la natura aggressiva dei centrocampisti avanzati riceva una “spinta” per attaccare l’area rivale o trovare uno squilibrio tra le linee.
Elementi, insomma, che risultano essere per assurdo quasi più importanti come facilitatori di gioco per i compagni che non come finalizzatori. Le idee, però, devono fare scopa con il materiale umano a disposizione, e Xavi ha trovato due elementi abbastanza autosufficienti e ambiziosi su cui poter contare. Il primo è Ousmane Dembélé, rilanciato per l’ennesima volta, che questa volta potrebbe forse essere quella buona. Nelle prime partite con Xavi, Dembouz è stato chiamato spesso e volentieri in causa dai suoi compagni di squadra, che l’hanno messo nelle migliori condizioni per il suo talento: isolamenti uno contro uno con il terzino avversario, una situazione da cui l’esterno francese può facilmente saltare l’uomo e cercare la porta o anche tentare la rifinitura verso l’ala opposta. Il tecnico catalano l’ha difeso in conferenza stampa e ha ribadito che si spenderà in prima persona per il suo rinnovo: arrivato quasi a venticinque anni, per l’ex Borussia Dortmund può essere davvero la volta buona per fare il definitivo salto di qualità.
L’altro esterno è una novità assoluta: Abde Ezzalzouli, dribblomane classe 2001 di origini marocchine. Baricentro basso, anche lui ambidestro, si caratterizza per il suo gioco elettrico: in fascia si sente come a casa, ma non ha problemi a giocare anche dentro al campo, cercando il taglio senza palla o l’assist. In attesa del ritorno di Ansu Fati, Xavi ha deciso di lavorare su questi due elementi, lanciando il secondo e rilanciando il primo. Certo, l’acquisto di Ferran Torres, regalo di Natale di gran lusso per Xavi, lascia più di una perplessità sotto questo punto di vista, ma è pur vero che non si può fare sicuro e completo affidamento su un calciatore, come Abde, alla prima stagione da professionista.
Ferran Torres is ours until 2️⃣0️⃣2️⃣7️⃣!
— FC Barcelona (@FCBarcelona) December 28, 2021
Va anche considerato un altro fattore: non si può ancora sapere se Xavi preferirà utilizzare l’esterno appena prelevato dal City in fascia o nella zona centrale del campo, che sia da falso o da vero nove. A supporto della prima ipotesi, va considerato che, visti i compiti affidati ai propri giocatori di fascia, avere un elemento così tecnico ed esplosivo potrebbe creare vantaggi immediati nell’ultimo quarto di centrocampo. D’altro canto, però, poter schierare un calciatore che coniuga una struttura fisica di spessore e qualità tecniche sopraffine come il 2000 scuola Valencia al centro dell’attacco potrebbe essere un’occasione unica per questo Barcellona, soprattutto se si tiene in considerazione l’apprendistato fatto da Pep Guardiola negli ultimi due anni.
Un indizio importante fa ipotizzare che si possa andare verso la seconda opzione: i due calciatori utilizzati nel ruolo di punta centrale da Xavi finora, Memphis Depay e Ferran Jutglà, hanno entrambi un passato da esterni. L’utilizzo che ne sta facendo l’ex capitano culé, però, non rimanda direttamente allo stereotipo di falso nueve blaugrana: mentre Depay era più libero di spostarsi a suo piacimento per cucire il gioco o attrarre i difensori avversari, Jutglà, nei due incontri disputati da titolare, ha offerto un’interpretazione del ruolo scolastica ma non per questo efficace: movimenti ad allungare la difesa avversaria, attacchi della profondità, lavoro spalle alla porta e anche una rete di testa su corner ad impreziosire il tutto. Niente male, per un calciatore alto un metro e 74 centimetri.
Barcellona, il futuro ti sorride
Cosa ne sarà del prossimo Barcellona? Controllando in giro per i social, in molti sembrano aver inaugurato la cosiddetta banter era dei blaugrana, ma l’ultima volta che ho controllato non sono i social a decidere il destino dell’una o l’altra squadra. Ciò che è vero è che questo Barça ha abbassato l’asticella, per questa stagione ha abbattuto le aspettative lasciando spazio al lavoro di un tecnico che avrà illimitata fiducia di dirigenza, piazza e un po’ di tutta la tribù del calcio in generale. C’è forse un momento che segna il tramonto definitivo del Barcellona del nuovo secolo: il 3-0 subito lo scorso 8 dicembre all’Allianz Arena ai danni del Bayern Monaco, che ha spedito i catalani ai playoff di Europa League. All’interno di quella partita, c’è un attimo più degli altri che rimane impresso: sul terzo gol di Musiala, messo a segno in sospetto fuorigioco, le telecamere catturano i difensori del Barcellona sconsolati, con le braccia larghe, impotenti. È qui che si ha la chiusura del cerchio menzionata prima: le stesse facce distrutte viste contro la Roma, la stessa avversaria che ha squarciato il cielo in quell’incubo di mezza estate. Il punto più basso degli ultimi anni, certo: ma anche un punto zero da cui ripartire per spiccare di nuovo il volo. Se “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, come si suol dire, che abbia inizio la discesa in cantina di questo Barça.
Fonte dati PPDA: Understat.
Fonte dati singoli calciatori: fbref