“Gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Quante volte abbiamo sentito questa frase? E quante volte ci siamo fermati a riflettere sul suo significato? È davvero possibile accedere, solo tramite uno sguardo, ai più reconditi anfratti dell’essenza umana? Si può veramente percepire l’anima, o ciò che idealmente simboleggia, solo guardando una persona negli occhi? Uno sguardo ha una sua particolare eloquenza, perché fornisce una chiave di comprensione superiore. È facile plasmare la realtà con le parole, ma farlo con gli occhi è tutt’altra questione e allora sì, tramite uno sguardo possiamo conquistare un accesso nell’interiorità più profonda di un essere umano. Possiamo affacciarci su una finestra che si spalanca sull’abisso che ciascuna persona contiene dentro sé, quell’inestricabile groviglio di sentimenti, nervi, sogni, sangue, quel grumo di umanità pura. Di interiorità.
A cavallo tra il 1964 e il 1966 lo straordinario artista contemporaneo Andy Warhol ha realizzato una serie di corti, finiti sotto il nome di Screen Tests, volti a scandagliare l’animo di persone famose analizzando solo i loro sguardi. Brevissimi video, silenziosi e in bianco e nero, incentrati sugli occhi di questi soggetti e su ciò che trasmettono senza dire nulla. Si tratta di una sorta di ritratto digitale, con l’attenzione posta proprio sulla comunicazione visiva, silenziosa ma estremamente eloquente.
Sulla scia del lavoro di Warhol, senza alcuna pretesa di emularne la grandezza, abbiamo selezionato cinque sguardi che hanno fatto la storia del calcio recente. Il volto dei protagonisti di momenti cruciali, alle prese con sensazioni ed emozioni fortissime, con sfide travolgenti. Solo tramite i loro sguardi, abbiamo provato a ricostruire le loro sensazioni del momento, provando ad analizzare ciò che con gli occhi hanno trasmesso in momenti decisivi e fortemente coinvolgenti della loro carriera calcistica.
Francesco Totti – Gli occhi del riscatto
Provate a immaginare di essere a un passo dal raggiungere uno dei vostri sogni più grandi e, quasi sulla soglia dell’arrivo, vederlo bruscamente sfumare. Poi provate a pensare di riuscire a recuperare una briciola di speranza di poter coronare quel sogno e di lottare con tutto ciò che avete in corpo per compiere il miracolo di rimetterlo in piedi. Ecco, ora concludete il pensiero immaginando che quel sogno non solo lo raggiungete quando nessuno credeva che poteste più farlo, ma avete anche l’opportunità di elevarlo a un livello superiore.
Sostanzialmente è questo quello che passa nella testa di Francesco Totti il pomeriggio del 26 giugno 2006. Nell’inferno di Kaiserslautern l’Italia fa una fatica tremenda contro un’Australia che imbriglia alla perfezione gli azzurri. La squadra di Lippi, in dieci da inizio secondo tempo, vede concretizzarsi gradualmente un incubo simile a quello di quattro anni prima, quando è arrivata la clamorosa eliminazione per mano della Corea del Sud. Poi però, proprio all’ultimo secondo di gioco, l’arbitro concede un calcio di rigore abbastanza generoso e d’improvviso su quell’inferno cala una luce di speranza.
Certo, il rigore è da battere e il pallone pesa tantissimo. A caricarsene in mano la responsabilità però è Francesco Totti, che in Germania c’è per miracolo. Il capitano della Roma nel 2006 ha riportato un bruttissimo infortunio alla caviglia e per far parte del Mondiale ha compiuto un recupero mai visto. Un vero e proprio miracolo, difficile utilizzare altri termini. Ora, tutta quella sofferenza, quel lavoro, la caduta e la rinascita hanno acquisito finalmente un senso. Tutto conduce a quel momento. A quel pallone. A quel rigore.
L’immagine del numero 10 della Nazionale che si appresta a tirare dagli undici metri contro l’Australia è passata alla storia. Lo sguardo è serio, concentrato, quasi assente. Sembra uno sguardo da western, da quei pistoleri pronti al duello, ad estrarre per primi la pistola e sparare per la vita o per la morte. Non c’è paura nello sguardo di Totti. No, quella no. C’è più che altro una riflessione, una solennità. Da quegli occhi s’intuisce che lui ha capito. Che lui sa che tutto ciò che ha passato l’ha condotto a quel momento. A quel pallone. A quel rigore.
Lo sguardo di Totti non è quello di un calciatore che deve battere un calcio di rigore al 95’ di un ottavo di finale di un Mondiale. No. Lo sguardo di Totti è quello di un calciatore che deve segnare un calcio di rigore al 95’ di un ottavo di finale di un Mondiale. È lo sguardo di chi ha capito, dell’investigatore che ha finalmente collegato tutti i punti e risolto il caso. È l’epifania teorizzata da James Joyce. Quelli di Totti sono gli occhi di chi ha compreso finalmente il ruolo che è destinato a recitare e ha in mano le chiavi della realizzazione del futuro.
Totti batte quel rigore con gli occhi. Lo segna prima con gli occhi, poi con quella fucilata di destro che fa esultare milioni di italiani. E che di fatto segna l’inizio del sogno, perché da lì lo sappiamo bene, l’Italia non si fermerà più fino al momento di alzare al cielo di Berlino la Coppa del Mondo.
Edwin van der Sar – Gli occhi del sublime
Il filosofo britannico Edmund Burke, a metà 700, ha definito il sublime come “l’orrendo che affascina”. Il Romanticismo, di cui Burke è stato tra i principali teorizzatori, ha scandagliato in lungo e largo quest’idea di sublime, fissandolo come un’esperienza che provoca sensazioni di paura e di piacere allo stesso tempo. Una situazione che ha vissuto in prima persona il portiere del Manchester United Edwin van der Sar, il 27 maggio del 2009.
Allo stadio Olimpico di Roma va in scena la finale di Champions League. A contendersi la coppa dalle grandi orecchie ci sono il Manchester United di Sir Alex Ferguson e il Barcellona di Pep Guardiola, agli albori della sua straordinaria ascesa. La notte di Roma è quella che tradizionalmente sancisce l’affermazione del mitico Barcellona di Guardiola, conquistatore del triplete al suo primo anno alla guida dei catalani.
Il Barcellona vince la finale contro i Red Devils col risultato di 2-0. Eto’o apre le marcature dopo appena 10 minuti, poi Messi le chiude al 69’ con un gol diventato uno dei più celebri della storia del calcio. Lionel Messi, 170 centimetri di altezza, sale in cielo, tocca le stelle di Roma, e punisce van der Sar con un incredibile colpo di testa. È la fotografia della grandezza di Leo, di un piccolo gigante del calcio, di un giocatore che sta non solo sta scrivendo la propria leggenda, ma sta ridisegnando i canoni di uno sport.
Van der Sar è in porta e non può che assistere inerme a quella meraviglia. La sua faccia, dopo che Leo ha colpito in torsione spedendo il pallone verso l’angolino più lontano, assume l’espressione del terrore. Sembra quasi gridare dalla paura, i suoi occhi sono impietriti, hanno visto un qualcosa di non umano.
Lo sguardo della paura, dietro cui però si cela quello della meraviglia. Perché van der Sar è stupito e pietrificato allo stesso tempo. È il viandante sul mare di nebbia dipinto da Caspar David Friedrich, davanti a lui c’è la spaventosa meraviglia di un Lionel Messi sospeso in aria, spinto in alto da qualche forza invisibile. Senza dubbio divina.
Gli occhi di van der Sar sono quelli di una persona che ha visto la bellezza, ma ne è rimasto scioccato per quanto è stata folgorante. Il portiere olandese ha avuto una visione d’onore sulla maestosità di Lionel Messi, ha visto in anticipo tutto ciò che l’argentino avrebbe compiuto. Il peso di quella rivelazione l’ha ovviamente turbato, lo ha spaventato a morte. Gli occhi di van der Sar, nella notte di Roma del 27 maggio 2009, sono gli occhi del sublime.
Ronaldinho – Gli occhi della gioia
Poche esperienze sono state gioiose, per un amante del calcio, come vedere giocare Ronaldinho. E nel calcio è oggettivamente difficile usare il termine gioia slegato da vittoria. Perché il calcio è uno sport di tifosi più che di spettatori e di solito la felicità coincide col successo della propria squadra. Ronaldinho però è stato l’eccezione, è stato in grado di trasformare i tifosi in spettatori e di riempirgli il cuore col suo sorriso e la leggerezza del suo talento.
Gli occhi di Ronaldinho hanno sempre trasmesso tanta gioia. È un’esperienza simile a quella di vedere giocare un bambino col suo giocattolo preferito. D’altro canto Dinho è sempre stato un bambino che ha continuato, anche da grande, a giocare col suo giocattolo preferito e l’ha fatto con quella gioia primordiale con cui si gioca da piccoli.
Vedere giocare Ronaldinho è stato un ritorno al passato. Come tornare tra i banchi di scuola da adulti, o passeggiare nel parco dove nostra madre ci portava a trascorrere i pomeriggi. Gli occhi di Dinho hanno sempre trasmesso questa leggerezza, questa spensieratezza, eppure alle volte sono sembrati solo un velo. Sì, perché dietro quella felicità c’era l’infanzia difficile. Le condizioni umili della sua famiglia, la prematura morte del padre. E allora Dinho ha deciso di recuperare la sua infanzia da adulto, di trasformare il Camp Nou nel parco giochi del suo quartiere.
Gli occhi della gioia di Ronaldinho sono anche quelli di chi quella gioia non l’ha provata quando era naturale che la provasse. Sono il riscatto, la rivincita, la riconciliazione. E come l’infanzia, anche quella gioia non è durata per sempre. La carriera di Ronaldinho è stata più breve di quella che avrebbe potuto essere e abbiamo ammirato lo splendido talento del brasiliano meno di quanto avremmo voluto.
La gioia dell’infanzia però sbiadisce presto e il bambino perde quello sguardo ingenuo, meravigliato per ogni cosa. Quando Ronaldinho ha perso la capacità di stupirsi e di sentirsi bambini si è stancato anche di giocare col suo giocattolo preferito. Quando i suoi occhi hanno perso la gioia, Dinho non è più stato un calciatore.
Josip Ilicic – Gli occhi della consapevolezza
10 marzo 2020. Il mondo sta per conoscere il trauma della pandemia. Gli stati iniziano a chiudersi, parole come lockdown, curva epidemiologica e Covid diventano il triste pane quotidiano. Tutta la vita come la conosciamo sta per cambiare in maniera irreversibile. Intanto, in un Mestalla deserto, Josip Ilicic sfodera una delle prestazioni individuali più incredibili della storia della Champions League. Una sorta di testamento per il calcio di una volta. Per la vita di una volta.
Il 10 marzo 2020 si gioca la gara di ritorno degli ottavi di finale di Champions League tra Valencia e Atalanta. Dopo il 4-1 dell’andata a Bergamo, i nerazzurri s’impongono anche in terra spagnola, vincendo 3-4 con un poker assurdo di Josip Ilicic. Ma cosa può pensare un calciatore che, nella sera probabilmente più importante della sua carriera, alza gli occhi e vede solo seggiolini vuoti. La desolazione, la freddezza di un enorme impianto completamente vuoto.
Cosa dicono gli occhi di una persona che dovrebbe gioire, ma che non riesce a farlo perché il mondo intero sta per vivere un dramma. È lo sguardo del condannato all’esilio, che può passare un’ultima notte con la sua amata, per poi doverle dire addio per sempre. Sono occhi che velano la felicità di una triste consapevolezza. La realizzazione che quel momento è perfetto e non si ripeterà più. Che da lì sarà una discesa continua.
E gli occhi di Ilicic incontrano i nostri, che si apprestano a vivere mesi chiusi in casa. La psicosi del contagio, la paura di quel virus sconosciuto, che mette in ginocchio il mondo intero. Dopo aver visto il pallone infilarsi quattro volte in rete e gli spalti puntualmente desolati, gli occhi di Ilicic vedranno scene ben più drammatiche. Saranno vittima del tormento dei furgoni che trasportano i cadaveri nelle strade di Bergamo. Saranno uno specchio dei ricordi di guerra, del dramma delle vite spezzate. E quegli occhi saranno la finestra su un baratro da cui è impossibile riprendersi.
Come gli occhi di milioni di persone del mondo, anche quelli di Ilicic faticheranno tantissimo a riprendersi. Saranno testimoni di un orrore scioccante, e nello sconforto forse torneranno talvolta a quella notte di Valencia. A quando ancora potevano gioire, ma con la consapevolezza che sarebbe stata l’ultima volta nel vecchio mondo.
Josip Kurtic e Joao Pedro – Gli occhi della solidarietà
Quando l’arbitro fischia il triplice fischio finale cala il sipario su una partita pazzesca. Con due gol nel recupero, il Cagliari di Semplici ha battuto il Parma di D’Aversa. Da una parte ci sono i sardi, che con quella vittoria vedono la salvezza farsi sempre più vicina. Dall’altra gli emiliani, che invece vedono avvicinarsi irrimediabilmente la Serie B. Il gruppetto in maglia rossoblu da una parte festeggia, quello gialloblu si dispera dall’altra. E poi ci sono due uomini, uno di fianco all’altro, che indossano due maglie diverse, ma sono comunque lì, uno vicino all’altro.
Jasmin Kurtic è disperato. Il suo Parma è stato avanti 1-3 a Cagliari, poi si è fatto rimontare. La retrocessione è ormai solo una formalità. Joao Pedro dovrebbe essere al settimo cielo, quella vittoria può segnare la svolta decisiva per la salvezza del suo Cagliari. Eppure è seduto lì, vicino al suo amico, a consolarlo. I festeggiamenti possono aspettare.
Gli occhi di Kurtic si bagnano di lacrime, si arrendono. Quelli di Joao Pedro guardano in alto, forse sono alla ricerca di una risposta. Perché ad una mia gioia corrisponde la sofferenza di un mio amico? Questo è il calcio. Anzi, spesso questa è la vita. E Joao Pedro e Kurtic mostrano che al di là di ogni trionfo e di ogni caduta, c’è un valore che alla fine è dominante: la solidarietà.
Gli occhi lucidi di Kurtic e quelli pensierosi di Joao Pedro formano un quadretto perfetto. È un’immagine bellissima, che ci restituisce la genuinità dei sentimenti umani. Per festeggiare ci sarà tempo, Joao lo sa. Ora c’è un amico che sta soffrendo e l’importante è stargli vicino. E forse gli occhi di Kurtic piangono anche qualche lacrima di commozione per la presenza lì dell’amico, nel mare di lacrime di tristezza, per il fallimento della sua missione.
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