Pablo Daniel Osvaldo. Due nomi ed un cognome che riportano alla mente grandi acrobazie, dentro e fuori dal campo. Peccato, perché forse ha lasciato andare via una carriera. Forse in rovesciata.
Mia nonna Marcella ha una certa età – si può dire ce l’abbia da qualche anno ormai – e a volte fatica a ricordarsi le cose. Fortuna nostra, non si è scordata del sottoscritto, suo primo nipote, e di alcune mie fisse, abitudini, passioni. Fortuna sua, queste passioni non sono poi così numerose, e tra queste – indovinate un po’ – spicca il calcio, giocato e guardato.
Osvaldo, bello de nonna
Non è una caratteristica che posso dire ci accomuni: il suo interesse nella materia, e di conseguenza il suo bagaglio di conoscenze, sono pressoché nulli. Sa – ad esempio – che la Fiorentina (“Dove ha giocato di bello?”), ha vinto, pareggiato o perso perché, nei primi due casi, il labaro viola esposto dal bar all’angolo della strada garrisce al vento, mentre in caso di sconfitta viene tristemente ammainato.
Si capirà bene che anche la conoscenza degli interpreti del gioco è minima, e perlopiù riflette l’attenzione mediatica data a determinati personaggi in un determinato contesto temporale: Buffon, Totti, Del Piero. Ah già, Maradona, perché al telegiornale capita venga tirato in causa. Per anni questa nomenklatura non è mai stata scalfita da nessun nuovo ingresso, anche coerentemente con la curva d’apprendimento tipica di quell’età.
Una sera però succede che, durante una cena di famiglia, in un momento di zapping distratto, l’Inno italiano catturi l’attenzione della mia patriottica nonnina. Prima di non so quale amichevole, undici Azzurri abbracciati cantano, mentre la telecamera gli scorre pigra davanti, soffermandosi brevemente su ognuno. Ad un certo punto fa:
Belloccio lui, chi è?
Alzo gli occhi, sorrido ai miei genitori – hai capito la vecchia – e, unico in possesso della nozione, le rispondo che “è argentino, si chiama Osvaldo“.
Carino, mi piace.
Non si interessa di quanto sia abile al giuoco, non si domanda, non mi domanda, il perché un argentino giochi per l’Italia, la cosa che la colpisce, si sofferma sull’estetica. Alla Marcella quella visione, avvenuta anche abbastanza di sfuggita, basterà a farlo entrare a pieno diritto nel suo personale Gotha del pallone: Buffon, Totti, Del Piero, Maradona, Osvaldo.
Pablo Daniel da Lanùs, faccia tosta ed espressione guascona, è un personaggio che, nel bene e nel male, viene ricordato pressoché in ogni posto in cui ha posato il cappello. Il cappello di Osvaldo è un cilindro dal quale, nel suo peregrinare tra Italia, Spagna e Argentina, ha estratto un gran numero di conigli, in un susseguirsi di colpi di teatro da illusionista consumato.
Man mano che la sua vita e la sua carriera avanzavano, Osvaldo ha cibato il suo pubblico di numeri ed episodi che ci hanno reso un insieme variopinto, sicuramente di difficile interpretazione. Ma forse è la nostra inclinazione a ragionare per compartimenti più o meno stagni a non averci permesso di comprendere che nello spettacolo messo in scena dall’italo-argentino negli anni davvero non c’è trucco, non c’è inganno.
Nel tentativo di conciliare l’Osvaldo calciatore con l’Osvaldo personaggio, ci siamo dimenticati dell’Osvaldo persona. Uno che con l’omologazione ad uno standard, con le regole imposte, con l’autorità costituita da accettare supinamente, non ci è mai andato a nozze. Trasferire questo sé nel contesto calcistico, dove l’adesione alle regole e l’obbedienza ai dettami paiono condizioni sempre più necessarie alla sopravvivenza, è stato un esercizio di onestà che ha portato avanti finché ha deciso, strigliato per una sigaretta negli spogliatoi a Montevideo, di “mollare il calcio per non tradirlo“, ma forse anche – anzi, soprattutto – per non tradire se stesso.
Per provare a inquadrarlo, e per permettere a ognuno, me compreso, di rivalutare il suo contributo al mondo del calcio e alla nostra memoria calcistica, ho stilato una rassegna di momenti-Osvaldo che possano restituire il suo anelito di autenticità, il suo desiderio, espresso in maniera così genuina e spontanea di essere – e di essere considerato – giocatore e persona insieme e allo stesso tempo. L’ordine non è cronologico, o meglio non c’è.
Vi ho purgato anch’io
In un derby di Roma senza Francesco Totti, al quinto minuto Pjanić trova con uno scavino delizioso Osvaldo in area, che addomestica e piazza alle spalle di Marchetti. La maglia che viene sfoggiata per l’esultanza è una citazione-tributo al romanismo più verace, ai suoi simboli e alla sua storia. Vi ho purgato anch’io non è un tentativo di mettersi al pari di chi a Roma non può aver pari, bensì al contempo un omaggio e una provocazione. Ma non avrà la stessa fortuna. La Lazio, infatti, ribalterà la partita trovando il guizzo decisivo di Klose al 94’.
Quante maglie celebrative saranno state stampate per poi non essere mai indossate, penso talvolta persino bruciate per l’aura nefasta che si erano portate dietro, capro espiatorio di persone che pensavano di essere a un punto del loro destino, e invece erano ad un altro? Come un boomerang, quella maglia gli verrà rinfacciata da tutti al termine della partita: dai giocatori e sostenitori avversari, da parte del giornalismo, forse anche da qualcuno dei suoi che avrà pensato fosse un po’ troppo presto per festeggiare così.
Ma cosa si gioca a calcio a fare se non per momenti come questi? Poi certo, gli ha detto male, ma Osvaldo ha seguito il suggerimento sospirato dal prof. Keating ai suoi studenti ne “L’attimo fuggente”: ha colto l’attimo.
“Icardi? Lo volevo picchiare”
A 10’ dal termine Inter e Juventus si trovano sull’1-1, e i nerazzurri spingono con Icardi, Podolski e Osvaldo. Icardi, recuperata e condotta la palla sino al limite dell’area, effettua una scelta discutibile e va alla conclusione, non facendo una gran figura. Allora l’oriundo, che si trovava effettivamente in posizione favorevole all’interno dell’area, perde la brocca. Si avvicina trottando mentre gli insulta la mamma, sembra stia per azzannarlo, ma trova sul suo percorso Fredy Guarín, che si frappone.
Icardi ha l’espressione po’ schifata, si chiede cosa voglia quel matto. La telecamera indugia su Osvaldo, che continua a sbraitare in solitaria. La scena avrà un furioso seguito dietro le quinte con Mancini e, conseguentemente a questo, Osvaldo sarà messo fuori rosa e verrà persino lasciato a suonare il clacson fuori dai cancelli della Pinetina, che nessuno gli aprirà più.
Nel 2019 Osvaldo dichiara il suo apprezzamento per Icardi come giocatore e che in quel frangente, non ci fosse stato Guarín, gliel’avrebbe date sul serio perché, in quel momento, “ci stava“. Ora tocca a ognuno tentare di immedesimarsi e porsi certe domande: Io Icardi l’avrei picchiato? Perché proprio sì? E quanto? Poi – e solo poi – potrete sentirvi liberi di valutare il comportamento di Osvaldo.
Osvaldo rovescia – Parte 1
La vita di un tifoso della Fiorentina che abbia meno di 35-40 anni – come me – non è stata tutta rose e fiori. L’ultimo trofeo vinto, la Coppa Italia, risale infatti a vent’anni fa. Da allora – ma volendo anche da prima – un discreto saliscendi di categorie e di emozioni, che sono quelle di cui ci si deve accontentare quando non sollevi trofei. L’ultimo ventennio poggia quindi su partite ed episodi che fungono da vere e proprie pietre angolari della memoria gigliata. Episodi che decidiamo di rievocare quando vogliamo appigliarci ai bei tempi andati, o infliggerci gratuitamente della sofferenza, ché ricordarsi delle gioie è entusiasmante, ma anche far fluire i patimenti non è così male.
In ordine sparso mi sovvengono: il gol di Fantini al Perugia nel ritorno dei playoff, il gol di Mutu al PSV in Coppa Uefa, la doppia semifinale persa coi Rangers nella stessa Coppa Uefa, la retrocessione in C2, il silenzio della partita contro il Benevento la settimana successiva alla morte di Astori, i doppi confronti delle notti di Champions con Liverpool (faccina felice) e Bayern (faccina triste), i gol di Rossi e Joaquín alla Juventus, la finale di Coppa Italia persa contro il Napoli, e potrei andare avanti ad annoiarvi per ore.
Nell’ambaradan emotivo viola, Osvaldo occupa un ruolo di primaria importanza e questo perché, tra le 5 reti in una stagione e mezza con la maglia della Fiorentina, due sono prodezze di grande valore. La prima – a dire la verità – rientra nel novero di quelle piccole, grandi, più o meno rare soddisfazioni dalla valenza anzitutto simbolica, poi pratica.
L’importanza del gol, un colpo di testa in tuffo ad anticipare il diretto marcatore, è amplificata alla massima potenza dal contesto in cui matura: Osvaldo segna infatti il gol del 2-3 all’Olimpico di Torino contro la Juventus in pieno recupero, in uno di quei bei giorni di inizio marzo che preludono all’avvento della primavera. Una combo estasiante per tutti, figuratevi all’ombra della Cupola del Brunelleschi.
La seconda avviene nell’ultima giornata dello stesso campionato, il 2007-2008: la Fiorentina si sta giocando il quarto posto – quello che dà accesso ai preliminari di Champions League – col Milan. Lo scenario è di nuovo Torino, ma stavolta sventola bandiera granata. La partita si mette a correre su binari insidiosi attorno all’ora di gioco, quando il Milan segna la rete del vantaggio contro l’Udinese, costringendo la Fiorentina a vincere.
La porta di Sereni è blindata, e ricordo benissimo il mio personale scorno provato nel vederlo parare ogni cosa passasse di lì, il frullare di adrenalina, la difficoltà nello stare seduto sul divano del mio amico. La porta di Sereni è blindata, insomma: ma c’è una soluzione, e già sapete chi l’ha trovata. 75’: Jørgensen spedisce un pallone morbido in area dove Osvaldo fa a sportellate, salta assieme a Dellafiore, controlla di testa e, dal nulla, scocca una chilena che si infila nell’angolo lontano.
Ricordo benissimo che il mio amico, persona altrimenti pacata e silenziosa, in un movimento solo si alza e piazza uno scatto verso il corridoio – un corridoio bello lungo, ampio, tipico delle dimore dalla metratura quadra importante -, si dirige verso la finestra al lato opposto della casa e, appoggiato agli stipiti, rivolgendosi al mondo intero, svuota i polmoni, con la voce che qui e là gli si rompe per l’emozione.
Quel gol è il trionfo dell’anticonvenzionale, della sorpresa, del colpo ad effetto. È il momento in cui il coniglio viene estratto dal cilindro, senza trucco e senza inganno.
Roma, la Roma, duecento gol
Il rapporto di Osvaldo con Roma e la Roma è uno di quelli che richiama alla mente certe relazioni amorose impulsive, viscerali, svuotanti. Quelle relazioni che finiscono male, i cui ricordi vengono dominati da un rancore che finisce per offuscare tutto il resto.
La Capitale lo accoglie dopo che la Roma lo strappa per 15 milioni di euro all’Espanyol, nell’agosto 2011. A Barcellona lascia ottimi ricordi (22 gol in 47 presenze) e amici, che ritroverà un lustro dopo per formare la band, i Barrio Viejo, di cui è tuttora frontman, ma questa è un’altra storia. Nella sua prima stagione, in 26 apparizioni segna 11 gol (miglior marcatore della squadra), trovando tempo per elargire, a fine novembre, un ceffone negli spogliatoi a Erik Lamela, reo di un passaggio mancato.
Questo ci può dire molto sull’italo-argentino: di quanto gli importasse vincere, di quanto – a torto o a ragione – si reputasse decisivo per le sorti della squadra, di quanto sia negato per l’arte diplomatica. La faccenda rientrerà in breve tempo, ma a fine campionato la squadra, con Luis Enrique al timone, non centrerà nemmeno l’Europa “minore”, rimanendone fuori per la prima volta in quindici anni.
La stagione successiva, la 2012/2013, è quella del ritorno di Zdenek Zeman, dei gradoni in preparazione atletica, delle interviste a bassa voce, di “Anvedi Goicoechea…”, che continua con Andreazzoli in panchina e finisce con la sconfitta in Coppa Italia nel derby. Sconfitta che, oltre a portare a un non richiesto bis dell’esclusione dalle Coppe, alza un polverone di dimensioni considerevoli.
Protagonista – magari ve lo ricorderete – proprio Osvaldo, che al triplice fischio insulta Andreazzoli per non avergli concesso più di un quarto d’ora, diserta la premiazione e combina chissà cos’altro negli spogliatoi. Il giorno seguente, a sangue presumibilmente freddo, twitta così contro il tecnico, suggellando la frattura con la società e l’intero ambiente;
Facevi più bella figura se ammettevi di essere un incapace… Vai a festeggiare con i laziali va.
Già, perché nonostante le 17 reti – che lo rendono nuovamente il miglior marcatore dei suoi -, e l’ottimo rapporto con Totti, Osvaldo a Roma si trova a combattere con l’enorme pressione di una città che vive di calcio e che non fa niente per nasconderlo.
Pablo Daniel del calcio è innamorato, ma non ossessionato. Gli piace, si diverte, è bravo, ci tiene, ma non è il suo unico mondo. Questo impareggiabile gap tra essere e dover essere, tra Sein e Sollen per i più kantiani, Osvaldo lo paleserà più volte. Lo paleserà nelle interviste successive alla sua cessione, ma anche con episodi precedenti ad essa.
Su tutti, esemplificativo quello del 15 luglio 2013 quando, in ritiro coi giallorossi in Trentino durante la routine degli autografi, tra un invito a restare a giocare nella Capitale e l’altro, un tifoso dalla voce roca gli espone il problema:
Tu hai capito poco de Roma, perché tu potevi esse n’Imperatore.
Stizzito, l’attaccante risponde “Avete capito bene voi”, e allora qui arriva un’altra voce che, a metà fra richiesta e lamentela gli fa: “Tu devi essere più tifoso, Osva'”. Lui chiude il confronto così:
“C…o volete, 200 gol ho fatto”.
È un’affermazione assolutamente opinabile per eleganza e accuratezza, ma che cristallizza tutto il suo pensiero. Sono un attaccante: cosa devo fare più che allenarmi, giocare, segnare? Ma soprattutto, perché devo fare di più che allenarmi, giocare, segnare?
Osvaldo pretende di non respirare calcio in ogni momento, vuole avere la sigaretta in bocca e la chitarra in mano quando più gli va, reclama la libertà di pensare ad altro una volta fatta la doccia. Di lì a un mese Osvaldo è nell’Hampshire, al Southampton, dove a gennaio – giusto venti giorni dopo essere stato squalificato per rissa al termine della partita contro il Newcastle – farà un occhio nero in allenamento a Josè Fonte, suo compagno di squadra. Good old Pablo Daniel.
L’episodio lo esclude velocemente dal novero dei Santi d’Albione, che se ne sbarazzano in fretta e furia cedendolo in prestito gratuito alla Juventus, che nel frattempo sta rompendo il campionato a dispetto di una Roma in gran forma. Alla penultima giornata – a campionato deciso – Roma e Juventus si ritrovano all’Olimpico. La decide Osvaldo al 94’ col suo unico gol in campionato, e mentre esulta ha dipinto in faccia il ghigno di uno che si è vendicato.
Osvaldo rovescia – Parte 2
La carrellata si avvia a conclusione, ed è giunto il tempo di ricordare il momento in cui Osvaldo segna quella che probabilmente è diventata nel tempo la sua rete più famosa e iconica, che tutti sognano di realizzare davanti a migliaia di tifosi. Una rete con un unico ma difficilmente trascurabile difetto: non esiste.
Non esiste nelle statistiche, non può essere conteggiata, né reclamata. Non ci si può fregiare di aver segnato un gol che non ha influito in alcuna maniera su nessun risultato, che è un’entità ectoplasmatica nella storia del calcio. Eppure, eppure. Eppure ce la ricordiamo tutti così bene, quella rovesciata contro il Lecce, che sembra assurdo non conti nulla.
Attorno al 75’, col risultato già sul 2-1 contro i salentini, Totti riesce a resistere alla pressione del marcatore e a verticalizzare sulla trequarti per Lamela, che si gira e a sua volta tocca davanti a sé per Gago. Nessuno accorcia sull’ex Real che, al limite, si gira fronte alla porta senza opposizione. Osvaldo ha seguito l’azione accentrandosi dalla sinistra e, negli attimi in cui Gago si gira, è entrato in area e si è staccato dalla non severissima marcatura di Oddo, che ha lo sguardo fisso sul pallone.
Il lob di Gago è soave e vellutato, è oltre Oddo e diretto proprio a Osvaldo, che forse si aspettava un assist rasoterra che l’avrebbe pescato davanti al solo Julio Sergio. In ogni caso, Osvaldo si ritrova a gestire una parabola che lo costringe a cambiare direzione di marcia, a frenare. Controllare quel pallone avrebbe significato perdere il vantaggio di spazio guadagnato sul difensore, che si affretta ad accorciare, predisponendosi col corpo all’uno contro uno.
Osvaldo, come si dice dalle mie parti, fa pochi discorsi: si coordina e colpisce la palla in acrobazia, con una violenza rara per il gesto, rendendo Julio Sergio una statua di sale. Il boato dell’Olimpico accompagna la sua corsa verso la bandierina, mentre la mano destra picchietta ritmicamente l’aria, esprimendo stupore e fierezza. Si gode lo stadio Pablo Daniel, condivide la sua meraviglia con quella di chi ha potuto assistere al suo creato, ma qualcuno attorno a lui deve aver già cambiato espressione.
Infatti, nel momento stesso in cui si inginocchia e sfodera l’immaginaria mitraglietta, lo sguardo volge verso il primo assistente Carrer, che sta immobile dall’altra parte del campo, dritto come un fuso, bandierina gialla sopra la testa sorretta dal suo stesso braccio. Brighi ovviamente gli ha già dato retta, ha alzato a sua volta il braccio, ha fischiato fuorigioco. Una bandierina, un fischio, e quel gol non è mai esistito.
Osvaldo sa che gli hanno tolto tanto: si porta la maglietta sul volto, il tessuto gli ricalca i lineamenti come un sudario. Si intuisce che la bocca è aperta – anche se non sembra stia urlando di rabbia -, si porta le mani al volto, camminando così per 20 metri. Quando lo rivediamo in faccia, la punizione è già stata battuta, per gli altri ventuno in campo non è mai successo nulla, il match è ripartito con un +1 solo alla voce dei fuorigioco, il calcio è rimasto quello di prima. Da casa scopriamo che la segnalazione dell’assistente è sbagliata, ma in un mondo senza controprova tecnologica il verdetto è irreversibile. Chissà che scenetta si è immaginato quando l’ha saputo Pablo Daniel, uno che con le mani è abituato a regolare le ingiustizie percepite, figurarsi quelle universalmente riconosciute.
Cosa resterà
Se quest’ultimo è l’episodio che in molti si ricordano di più sul Pablo Daniel Osvaldo giocatore di calcio, forse è perché lo esemplifica più di tutti gli altri. Più di tutti i “duecento” gol proprio questo, che non è mai esistito e mai esisterà, è forse capace di trasmettere al meglio il lascito calcistico che percepiamo di Osvaldo.
La sensazione del continuo bilico tra i grandi colpi e l’inconsistenza, tra il desiderio del risultare decisivo e il non poterlo essere per via di una bandierina alzata, tra la repulsione per il mondo del calcio e l’amore per il calcio stesso. Tra quello che avremmo voluto fosse e quello che ha deciso di essere.