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In questo periodo di egemonia economica e tecnica della Premier League è molto facile che un calciatore messosi in mostra in un campionato minore vada direttamente in Inghilterra. La situazione è ormai cristallizzata su questo status da almeno 5-6 stagioni: per non andare lì, o una società (non-inglese) si muove con larghissimo anticipo oppure dev’essere il giocatore a volere uno step intermedio. Molto spesso questo salto triplo, da una lega “minore” all’eccellenza della Premier può fagocitare il talento del calciatore: magari non ancora pronto né fisicamente, né tatticamente, né psicologicamente alle pressioni del campionato più competitivo al Mondo. La carriera di Vlasic, probabilmente, rientra pienamente in questa casistica. E il tentativo di rilanciarla dopo uno scotto così forte è molto complesso.

Il Benfica, o amor da minha vida (“Benfica, l’amore della mia vita”) fa da colonna sonora a tutte le partite della squadra della capitale portoghese, sia quando si innalza, coinvolgente, in tutto l’Estadio Da Luz, sia in quei momenti in cui le spedizioni di adeptos che partono per tutto il paese e per tutta Europa sovrastano il frastuono degli stadi avversari, colti da un momento di onnipotenza. Non è, però, un coro qualunque. La melodia e il testo sono presi da una delle più celebri canzoni di fado, una musica popolare tipica del Portogallo e soprattutto di Lisbona: “Lisboa menina e moça”, di Carlos Do Carmo.

L’autore canta, malinconico, le bellezze della sua città, città di cui è innamorato, paragonandola ad una donna, la donna della sua vita. Il fado, però, non è musica allegra, nasconde un velo di tristezza, più o meno esplicito, quando non la proverbiale saudade. Fado è la traduzione di “fato”. C’è sempre qualcosa di triste ed irrimediabile: la lontananza da casa, la lontananza dal proprio amore ad esempio. In Lisboa menina e moça non c’è però alcuna lontananza. La malinconia della canzone deriva piuttosto, se ci pensiamo, da un sacrificio. Se si ama una città a tal punto da ritenerla l’amore della propria vita, non c’è spazio per un’altra donna. Diventa irrimediabilmente impossibile. Si è condannati a rinunciare all’amore vero, quello umano, verso un altro essere umano.

A pochi chilometri da Lisbona, a Vila Nova de Xira è nato Rafael Alexandre Fernandes Ferreira da Silva, per tutti Rafa Silva. Quasi tutti i più importanti talenti portoghesi sono cresciuti, calcisticamente, in una delle tre big del paese: Porto, Benfica e Sporting. Lui, invece, è partito dall’Alverca, la squadra più importante della sua zona, per poi trasferirsi più a nord, nell’under 19 della Feirense e poi ancora più a nord, al Braga. Qui si è fatto conoscere e in tre anni ha conquistato la Seleção. A Lisbona, al Benfica, nell’élite del calcio portoghese ci è arrivato a 23 anni, da fresco campione d’Europa, e non se n’è più andato.

Rafa durante i festeggiamenti dell'Europeo
La grande gioia dell’Europeo vinto nel 2016, seppur con un ruolo tutt’altro fuorché da protagonista (Foto: Matthias Hangst/Getty Images – OneFootball)

Pian piano si è imposto anche con la maglia encarnada delle Aguias. Prima co-protagonista del gruppo allenato da Rui Vitoria che vinse il titolo nella stagione 2016/17, poi punto fermo e trascinatore a suon di gol (17) di quello che si laureò campione con Bruno Lage due anni dopo. Oggi, la fascia da capitano è sul braccio di Otamendi, ma l’uomo simbolo del club è lui. Non solo per essere quello che, assieme a Grimaldo, fa parte da più tempo del gruppo dei titolari, non solo per il suo apporto offensivo (la scorsa stagione 12 gol e 18 assist in tutte le competizioni), ma anche e soprattutto per il suo attaccamento a una maglia con cui non è nato, né cresciuto, ma che si sente cucito addosso.

Il 19 settembre scorso, a soli 29 anni, ha declinato la chiamata di Fernando Santos e annunciato il proprio addio alla nazionale, per “motivi personali” non specificati. Nonostante venisse sempre convocato, lo spazio per lui, con giocatori come Cristiano Ronaldo, Diogo Jota, Rafael Leão, Bernardo Silva e João Felix nel suo ruolo, era sempre di meno. Si dice, ma sono solo ipotesi, voci di corridoio, che l’abbia fatto per potersi dedicare a tempo pieno al suo Benfica, senza rischiare infortuni (che negli ultimi anni ne hanno limitato la costanza) lontano dal Da Luz, solo per giocare qualche minuto in Nations League. Intanto, in questa stagione è già a quota 8 gol (e 5 assist) in 17 partite, l’ultimo dei quali segnato proprio lo scorso weekend, quando ha deciso il Clássico contro il Porto. A breve proverà a trascinare i suoi alla qualificazione agli ottavi di Champions League, davanti ai 60 mila del Da Luz, contro la Juventus. Poi sarà caccia ad un titolo che manca proprio dalla stagione 2018/19, la sua prima da protagonista sulle rive del Tago, e che mai era sembrato così alla portata come quest’anno (sono già a +6 sui Dragões, i più vicini inseguitori).

Rafa Silva esulta dopo il gol segnato al Porto
La liberazione di Rafa Silva dopo il gol che ha steso i rivali del Porto nell’ultimo turno di campionato (Foto: MIGUEL RIOPA/AFP via Getty Images – OneFootball)

Quella fra Rafa Silva e il Benfica sembra la più dolce delle storie d’amore, ma proprio come nella canzone di Carlos Do Carmo, non è una storia d’amore qualunque. Fra le note melancoliche del Benfica, o amor da minha vida che accompagnano le sue giocate si cela quel velo di tristezza tipico delle melodie del fado. Se il grande amore della sua vita è il Benfica, non c’è spazio per un’altra presenza nel suo cuore, nella sua carriera. Come ogni uomo sogna la donna della propria vita, finché non la incontra, il sogno di ogni calciatore è vincere i Mondiali, o almeno giocarli. Rafa, però, con la sua nazionale non ha mai esordito né in Brasile (quando ha fatto parte del gruppo senza mai assaggiare il campo), né in Russia (quando invece non era nemmeno convocato). Sarebbe successo molto probabilmente in Qatar, dove tra l’altro il Portogallo si presenterà come una delle favorite, ma lui stesso ha deciso che non ci sarà. Per il suo Benfica, Rafa Silva ha perso quest’occasione, si è condannato a rinunciare irrimediabilmente al suo più grande sogno, ancora irrealizzato, e questo è il più grande atto d’amore che si possa compiere.

Il 21 maggio 2022 è in programma Genoa-Bologna, valida per l’ultimo turno della Serie A 2021/22. Il Grifone è già matematicamente retrocesso, dopo un’annata particolarmente difficile, ma lo stadio è piuttosto gremito e soprattutto in curva si respira entusiasmo. La Gradinata Nord poco prima del fischio d’inizio si veste completamente di rossoblù e fa apparire una romanticissima coreografia, accompagnata da un coro le cui prime strofe fanno così:

Era il 14 ottobre 1894, quando un pasticciere quarantenne, un certo Domenico Melegatti, il cui cognome avrebbe riecheggiato nel tempo, ha cambiato per sempre la tradizione dolciaria italiana. A lui si deve infatti l’invenzione di un dolce che, negli anni a seguire, avrebbe contrassegnato in maniera iconica ogni natale degli italiani. Stiamo parlando, naturalmente, del pandoro, o quantomeno della sua ricetta moderna. Il dolce infatti esisteva già, si chiamava nadalin, ed era sempre originario di Verona e legato al natale. La sua nascita risale al milleduecento e fu adottato per festeggiare il primo natale sotto la celebre famiglia della Scala, dinastia che per più di 100 anni ha regnato in città.

Le origini di questa ricetta si rintracciano però addirittura ai tempi dell’antica Roma. Ne fa menzione il celebre scrittore Plinio il Vecchio, che cita un cuoco capace di preparare un dolce che ricalca in pieno il pandoro. Così, il famoso impasto natalizio arriva fino al 1894 e all’invenzione di Melegatti, il cui riconoscimento ufficiale arriva però solo nel 2012 . Cosa succede allora nel 1894? Domenico deposita il brevetto del pandoro, la cui caratteristica forma di stella a otto punte viene realizzata dal pittore Angelo Dall’Oca Bianca.

Da quel momento, il pandoro diventa uno dei grandi simboli di Verona, al pari di Romeo e Giulietta o dell’Arena. Un vero e proprio patrimonio della cultura culinaria italiana, un retaggio immenso lasciato da Melegatti e dalla città scaligera. Un simbolo, come detto, di Verona, come lo squadrone di Osvaldo Bagnoli, capace di vincere un clamoroso scudetto nel 1985, quasi 100 anni dopo la creazione del celebre dolce. Così, dalla cucina al rettangolo verde di gioco, la suggestione di oggi riguarda Verona, le sue tradizioni e i suoi trionfi. Dall’iconico pandoro alla leggendaria vittoria del campionato.

Le premesse per il trionfo del Verona

Dal 1894 cambiamo l’ordine dei due numeri centrali e spostiamoci nel 1984. È l’estate degli europei francesi, vinti proprio dalla nazionale transalpina, guidata da uno spettacolare Platini, che in finale contro la Spagna va a segno insieme a Bellone e regala il primo successo della storia alla sua Nazionale. È un’estate anonima per l’Italia del calcio che a quel torneo, da campione del mondo in carica,  nemmeno prende parte a causa di un disastroso percorso di qualificazione. Quarto posto alle spalle di Romania, Svezia e Cecoslovacchia. Davanti solo a Cipro, con cui gli azzurri hanno raccolto la loro unica vittoria di questo cammino. Insomma, è un’estate travagliata per il calcio italiano, che con la Roma aveva anche carezzato il sogno di vincere il massimo trofeo continentale. Un’estate dal morale basso, ma illuminata dal sensazionale arrivo a Napoli di Diego Armando Maradona. Uno scossone per tutto il movimento.

Arriviamo così all’alba della stagione 1984-1985, con la Juventus campione d’Italia in carica, le milanesi che cercano stabilità e la Roma intenta a riprendersi dalla delusione della sconfitta in finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico contro il Liverpool. Il Verona, quell’estate, è solo un piccolo satellite in un universo sconfinato. Gli scaligeri, però, provano a farsi notare piazzando due colpi molto interessanti. Dal Kaiserslautern arriva Hans-Peter Briegel, campione d’Europa nel 1980 proprio in Italia con la Germania Ovest. Dal Lokeren giunge invece Preben Elkjær Larsen, attaccante seguito anche da Milan e Real Madrid.

Due acquisti di rilievo, in un campionato però dal livello altissimo, difficile da impressionare. Il Verona ai nastri di partenza non era sicuramente nel novero delle favorite, ma talvolta alcune condizioni favorevoli possono creare degli scenari veramente inaspettati.

Una squadra operaia

Negli anni ’80 la Serie A è ciò che di meglio il calcio mondiale ha da offrire. Eppure, all’alba della stagione 1984-1985 le incertezze sono più di quante possono sembrare. La Juventus è reduce dalla vittoria dello scudetto, ma la sua testa è all’Europa e il focus è sulla Coppa dei campioni, diventata ormai una chimera. La Roma ha preso una botta enorme, invece, proprio dalla finale di questa competizione, persa in casa ai rigori in modo dannatamente beffardo, ed è in un momento di smobilitazione. Milan e Inter da anni sono incompiute . Il Napoli ha sì acquistato Maradona, ma è una squadra completamente in costruzione.

In questo contesto si muove il Verona di Osvaldo Bagnoli, nel pieno di un bel processo di crescita. Il tecnico era arrivato alla guida degli scaligeri nel 1981, dopo due anni di B col Cesena, e al primo tentativo ha riportato la squadra nella massima serie. L’impatto con la Serie A è strepitoso: Bagnoli costruisce una squadra “operaia”, con un credo tattico basato sul catenaccio all’italiana, in un’accezione però molto aggressiva e compatta. Nella stagione 1982-1983 il Verona arriva quarto in campionato e secondo in Coppa Italia, l’anno dopo chiude al sesto posto e vive anche l’esperienza di giocare la Coppa UEFA. Nell’estate del 1984 i gialloblù sono una squadra in crescita, con un’ossatura ben delineata, arricchita dall’arrivo dei due grandi talenti stranieri.

Il presidente Celestino Guidotti, storico patron di quel Verona, allestisce una rosa competitiva, senza voli pindarici, ma con colpi mirati e in linea col credo tattico del mister. Punta su giocatori vogliosi di riscatto, confeziona a Bagnoli una rosa corta e funzionale, capace di sfruttare il suo giropalla lento e le repentine verticalizzazioni che chiede ai suoi.

In porta c’è Garella, il “portiere più forte del mondo. Senza mani, però” come lo ha definito il mitico Gianni Agnelli. Davanti a lui il libero Tricella, capitano di quel Verona, uno degli artefici della promozione in A. Il centrale di quella squadra è Silvano Fontolan, mentre sugli esterni ci sono Ferroni, arrivato nell’estate 1983 dalla Samp, e Marangon, il terzino playboy che ha vestito anche le maglie di Roma e Napoli. Antonio Di Gennaro in regia, vicino a lui il pupillo di Bagnoli, Volpati, e a completare il reparto di centrocampo Briegel. Davanti Cavallo pazzo Elkjær Larsen insieme ai due ex juventini Fanna e Galderisi. Questi erano gli unici due membri dell’undici titolare ad aver già vinto il campionato, con la Juventus, ma da comprimari. Poco spazio per Fanna, mentre Nanù è ricordato per una clamorosa tripletta al Milan nella stagione 1981-1982. Per il resto, però, poca roba.

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Osvaldo Bagnoli, il grande artefice del trionfo del Verona
(Photo by Claudio Villa/Getty Images – One Football)

Una partenza col botto

Questo è il Verona che si presenta ai nastri di partenza del campionato 1984-1985. L’esordio è subito avvincente: la sfida col Napoli di Maradona. Nemmeno mezz’ora e Briegel timbra subito il cartellino, mentre qualche minuto dopo replica Galderisi. Nella ripresa i partenopei accorciano le distanza, ma Di Gennaro a un quarto d’ora dalla fine ristabilisce le distanza. I gialloblù vincono e replicano anche con Ascoli e Udinese. Poi all’orizzonte c’è un filotto di partite infernali, che però la squadra di Bagnoli supera alla grande.

Il primo banco di prova è a San Siro contro l‘Inter e il Verona esce dal Meazza con un buon  0-0. Una settimana dopo al Bentegodi arriva la Juventus di Trapattoni e i gialloblù s’impongono 2-0, con la rete dell’ex Galderisi e il famosissimo gol di Elkjær Larsen con annessa la perdita dello scarpino durante l’azione. Il ciclo terrible si completa con lo 0-0 all’Olimpico contro la Roma e col 2-1 interno sulla Fiorentina firmato ancora da Nanu Galderisi.

Dopo sette giornate, la squadra di Bagnoli ha attraversato l’inferno e ne è uscita indenne, con dodici punti su quattordici disponibili e appena tre gol subiti. La difesa si caratterizza subito come l’elemento di forza della squadra e nelle successive due gare infatti Garella non viene mai superato, col Verona che prima vince a Cremona e poi impatta sulla Sampdoria.

Gli ultimi due big match del girone d’andata arrivano a cavallo della fine di novembre e dell’inizio di dicembre. Il Verona supera anche queste due gare alla grande, prima vincendo 1-2 in casa del Torino con le reti di Briegel e Marangon, poi con l’ennesimo pareggio a reti bianche contro il Milan di Nils Liedholm. A questo punto, la strada verso il titolo di campione d’inverno è tutta in discesa.

Il giro di boa

Dopo il pari col Milan, il Verona vince all’Olimpico con la Lazio grazie a un autogol di Podavini, ma poi rallenta bruscamente. Il pareggio con il Como chiude il 1984, quello con l’Atalanta apre il 1985. Poi arriva il primo ko stagionale: il 13 gennaio sul campo dell’Avellino. All’autogol di Volpati rimedia Marangon, ma a cinque minuti dalla fine Colombo firma la beffa e fa conoscere per la prima volta al Verona l’amaro sapore della sconfitta.

La sconfitta non fa perdere la vetta al Verona, che si laurea così campione d’inverno, ma fa avvicinare paurosamente l’Inter. Il pareggio con il Napoli della prima giornata del girone di ritorno, infatti, porta all’aggancio in classifica dei nerazzurri. La favola Verona sembra raffreddarsi, con un rendimento in calo e all’orizzonte nuovamente quel ciclo intenso di gare. Chiunque, se dovesse scommettere le sue mille lire, le metterebbe sull’Inter di Castagner, La squadra di Bagnoli però sa reagire e prima batte 2-0 l’Ascoli, poi nella storica giornata del 10 febbraio 1985 si riprende la vetta.

A Udine va in scena un match a dir poco rocambolesco. In venti minuti i veneti vanno avanti di ben tre reti, con le firme di Briegel, Galderisi ed Elkær Larsen. Sembra l’ipoteca sul match, ma nel secondo tempo si concretizza la clamorosa rimonta dei friulani, che all’ora di gioco riportano il risultato sul 3-3. Il Verona però non ci sta e tempo quattro minuti torna avanti di due lunghezze con le firme ancora del tedesco e del danese. Il pirotecnico 3-5 del Friuli fa da eco al pareggio dell’Inter contro l’Avellino, giudice di questo campionato. All’alba dello scontro diretto e del ciclo infernale di big match, la squadra di Bagnoli è nuovamente avanti e quella gara con l’Udinese è destinata a diventare la copertina del trionfo scaligero.

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A distanza di anni, gli eroi del leggendario scudetto del Verona
(Photo by Dino Panato/Getty Images – One Football)

Fuori dall’inferno

Il 17 febbraio 1985 allo stadio Bentegodi si sfidano Verona e Inter. I gialloblù devono fare i conti con molte assenze e con la voglia di rivalsa dei nerazzurri, che al 39′ sbloccano il match con la rete di Spillo Altobelli. Sembra l’inizio di una tragedia, ma ancora una volta i gialloblù sanno risorgere e a inizio secondo tempo pareggiano con Briegel. L’1-1 finale sa di ossigeno puro per il Verona, che però è atteso ancora da sfide molto probanti.

La squadra di Bagnoli nel turno successivo impatta sulla Juventus con Di Gennaro che pareggia il vantaggio di Briaschi. Poi, il Verona ottiene quattro punti fondamentali battendo di misura la Roma con la rete di Elkær Larsen e rifilando un tris a domicilio alla Fiorentina. I veneti superano così questo ciclo infernale e si lasciano alle spalle l’Inter, che intanto è stato sopraggiunto da un sorprendente Torino, chiamato a vestire il ruolo dell’antagonista principale in questo finale.

I veneti superano agevolmente la Cremonese e pareggiando ancora con la Sampdoria, poi rimediano la seconda sconfitta del loro campionato, proprio contro il Torino che con Serena e Schachner si porta a casa una vittoria che sembrava poter riaprire ogni discorso per il titolo. La settimana successiva però il Verona resiste a San Siro col Milan, portando a casa un prezioso 0-0, come all’andata, e poi batte la Lazio in casa, mettendo di fatto in cascina lo scudetto.

Il trionfo del Verona

A tre giornate dalla fine, si aspetta solo l’ufficialità di quel clamoroso successo. Questa arriva il 12 maggio 1985, alla penultima di campionato, col Verona che pareggia 1-1 sul campo dell’Atalanta con Elkær Larsen che nella ripresa rimonta il vantaggio bergamasco. La festa può partire per gli scaligeri, che conquistano così il primo storico scudetto della loro storia. Nell’ultima giornata la squadra di Bagnoli rifila un poker all’Avellino, croce e delizia di questo trionfo gialloblù, una delle due squadre capace di fermare l’avanzata di Verona, ma decisiva nel togliere punti all’Inter in un momento delicato della stagione.

Quel mitico Verona è una squadra destinata a restare nella storia degli annali del calcio italiano. Una compagine artefice di un successo inaspettato, intenso e tremendamente netto. Dall’inizio alla fine la squadra di Bagnoli ha dimostrato compattezza e convinzione, riuscendo ad affrontare anche i momenti più difficili. Gli strappi di Fanna e di Elkær Larsen sono stati decisivi, così come gli 11 gol di Galderisi e l’immensa classe di Briegel. A fine anno, Cavallo Pazzo si piazzerà addirittura al secondo posto della classifica del pallone d’oro, alle spalle di un certo Michel Platini, vincitore quell’anno con la sua Juventus della tanto agognata Coppa dei Campioni, passata però tragicamente alla storia per la tragedia dell’Heysel.

Un successo dolce, che ha reso eterna quella squadra operaia, che ha fatto del tradizionale stile italiano il proprio marchio di fabbrica. Catenaccio e contropiede, l’equivalente calcistico di pasta, mafia e mandolino: il Verona di Bagnoli è una squadra profondamente italiana nelle idee e nell’applicazione e con questa struttura ha confezionato una delle imprese più grandi della storia del nostro calcio.

Lo scudetto del Verona è diventato il simbolo della tradizione calcistica italiana. Un po’ come il pandoro, l’altro grande prodotto veronese che ha finito per dominare tutto il paese. Forse, alla fine, Melegatti e Bagnoli non sono poi così diversi: entrambi hanno regalato una dolcezza infinita alla città di Verona.

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Siamo alle battute finali di Manchester City-Borussia Dortmund, partita valevole per la seconda giornata della fase a gironi della Champions League; la partita è ferma sull’ 1-1 dopo che il Dortmund era passato in vantaggio e letto perfettamente le trame di gioco della squadra di Guardiola. Sullo sviluppo di un’altra azione statica della squadra inglese, Cancelo con una trivela mette in mezzo all’area un pallone molto alto che sembra destinato sul fondo; ma a correggere la traiettoria ci pensa il giocatore con la maglia numero 9 del City che con un gesto acrobatico difficilissimo da spiegare riesce a depositarlo in rete.

Tra le coppe nazionali in giro per l’Europa, probabilmente la Coppa Italia è la meno attraente per gli spettatori. Con il suo tabellone piuttosto prevedibile, che offre la possibilità alle prime otto piazzate del precedente campionato di Serie A di partire dagli ottavi di finale, potendo beneficiare di accoppiamenti favorevoli e il vantaggio di giocare in casa tutti gli scontri in partita secca, l’appeal di questa competizione è ai minimi storici. Solo negli ultimi due anni c’è stato qualche timido segnale di ripresa, più legato alla necessità di squadre come Juventus ed Inter di arricchire la loro bacheca stagionale che non ad un’effettiva riforma. In questo scenario i primi turni di questa competizione, giocati tra fine luglio ed inizio agosto, sono ancor più sviliti e svilenti: in campo scendono le migliori quattro piazzate di Serie C tra le non promosse, tutte le squadre di Serie B e quelle dal nono posto in giù della Serie A della stagione precedente, sempre con il vantaggio della gara casalinga. Uno scenario che disintegra l’interesse e la rilevanza tecnica di questi turni, spesso utili alle squadre di A per far esordire qualche giovane ed entrare in rodaggio, vincendo senza troppi patemi i propri confronti. Per questi motivi – e per la curiosità che negli ultimi anni ha suscitato una squadra peculiarissima come il Verona – il fragoroso tonfo degli scaligeri contro il Bari, che si è imposto per 1-4 nella sfida del “Bentegodi” dello scorso 7 agosto, ha suscitato moltissime reazioni. Il protagonista assoluto di quella partita, con una tripletta e una sensazione di dominanza, è stato Walid Cheddira, attaccante italo-marocchino dei biancorossi al secondo anno in Puglia, prima d’allora sconosciuto al grande pubblico. Nelle prime partite di campionato seconda serie, la punta classe 1998 ha confermato le buone impressioni delle prime partite stagionali (nelle quali aveva anche messo a segno una doppietta contro il Padova, nel turno precedente alla sfida contro il Verona) con una partenza sprint.

La coppa più misteriosa e imprevedibile delle tre. Giocatori sconosciuti, squadre pittoresche, stadi improbabili. Ma anche piccole gemme e storie incredibili. Per il secondo anno dalla sua introduzione la Conference League torna a fare compagnia agli appassionati di calcio nei giovedì autunnali. E quest’anno, con il mondiale in inverno, la fase a gironi sarà ancora più compressa, un vero e proprio tour de force per le squadre partecipanti.

Cross dalla fascia, gol dell’attaccante. Giocata semplice, tra le più semplici del calcio, ma anche tra le più appaganti. Giocata però, negli anni, un po’ dimenticata. Messa da parte nei playbook degli allenatori, talvolta relegata alle sole situazioni disperate. Non in Germania però, dove quattro maestri dell’arte del cross stanno monopolizzando questa torrida estate di mercato. Sono Filip Kostic, David Raum, Angeliño e Borna Sosa. I primi tre hanno cambiato casacca dopo rumors e trattative serrate, Sosa invece attende pazientemente l’evolversi del suo futuro con lo Stoccarda.

Quando la sera del 2 settembre 2017 l’Italia di Giampiero Ventura si presenta al Santiago Bernabeu per affrontare la Spagna non ci siamo ancora arresi all’idea di un futuro drammatico per la nostra Nazionale. Gli azzurri scendono in campo con un 4-2-4 iper ambizioso in cui Lorenzo Insigne e Antonio Candreva assistono il duo d’attacco Belotti-Immobile; di contro la Spagna di Lopetegui risponde rinunciando ad una prima punta e utilizzando David Silva come riferimento più avanzato. Alle sue spalle galleggiano la next big thing del calcio spagnolo Marco Asensio e, soprattutto, Isco.

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