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Sono passati dieci anni dal 9 giugno 2012, un giorno in cui ogni tifoso della Sampdoria ricorda dov’era, cosa faceva ed anche che tempo c’era: sì, perché quel giorno di fine primavera il Nord Italia fu investito da un gigantesco temporale che dettava il passaggio definitivo dalla primavera all’estate e che, quindi, decise di fare da sfondo a quel Varese-Sampdoria che, in una notte, doveva stabilire chi tra varesini e blucerchiati avrebbe potuto festeggiare il ritorno in serie A.

La finale di Champions League rappresenta, per attesa e talvolta anche cronologia, l’atto conclusivo di un’intera stagione calcistica. Liverpool e Real Madrid si sfideranno questo sabato allo Stade de France di Parigi, scelto dalla UEFA in sostituzione della Gazprom Arena di San Pietroburgo a causa del conflitto russo-ucraino. Nel calcio è sempre un po’ pretestuoso e presuntuoso parlare di giustizia, ma è indubbio che esista qualche forma di merito nel cammino di entrambe le squadre per continuità, gioco espresso e valori assoluti.

Con le sei gemme, mi basterebbe schioccare le dita”. Non c’è probabilmente un villain più iconico di Thanos nell’intera produzione cinematografica del secondo decennio degli anni Duemila. Nessuna missione è tanto inquietante quanto coinvolgente come quella intrapresa dal titano del Marvel Cinematic Universe per perseguire il suo folle piano di sterminare metà della popolazione dell’universo. Una marcia incessante e inesorabile, il cui successo è praticamente annunciato sin dall’inizio. Non c’è un momento, durante quello che è l’atto conclusivo del percorso di Thanos, ovvero Avengers: Infinity War, in cui si ha realmente l’impressione che il titano possa fallire. Nonostante debba fronteggiare i più grandi eroi della terra e non solo, la speranza che il suo piano naufraghi non si eleva mai a ottimistica previsione, ma rimane appunto una speranza, destinata inesorabilmente a restare tale e venire delusa.ù

Per tutte le persone, come me, appassionate di calcio e nate nella prima metà degli anni ’90 immaginare una squadra di figurine non è un esercizio complicato. Tutti noi abbiamo vissuto la nostra infanzia col mito di una squadra, formata dalla fame (e dai soldi) di Florentino Perez, che racchiudesse tutti (o quasi) i fuoriclasse dell’epoca in un solo (dream) team. Quella squadra, quel Real Madrid, prese il nome di “Galacticos” e nonostante gli enormi nomi, raccolse meno di altre versioni delle “Merengues”; forse proprio a causa del peso di quella nomea. Il punto più lucente di quella gestione – probabilmente a sentire alcuni madridisti l’unico che vale la pena ricordare – è quello che, esattamente venti anni fa, portò la prima Champions League nella bacheca di Perez. Grazie al gol più bello segnato in una finale, almeno dai tempi in cui ha cambiato nome. Un gol che ha contribuito a mettere a fuoco la grandezza di Zinedine Zidane, il numero 10 più decisivo, in una squadra di numeri 10.

Sono passati solo due anni da quando il Lione prima dei lockdown europei batteva la Juventus e attirava molte attenzioni su di sé, poi costantemente cresciute fino al momento in cui il percorso europeo dei francesi venne fermato dal futuro campione d’Europa, Bayern Monaco, nelle semifinali a turno unico. Aouar era al centro di molte voci di mercato: Juventus, Manchester City e Arsenal per dirne alcune. A due anni da quel momento, però, Aouar è ancora al Lione, un Lione che a tre giornate dalla fine della Ligue 1 è settimo in classifica a cinque punti da un posto in Europa. Depay è andato via in estate, Paquetà sembra essere la stella della squadra e Bruno Guimaraes è andato al Newcastle a imporsi come uno dei migliori centrocampisti in circolazione, o almeno uno dei più forti e meno chiacchierati. Aouar nel frattempo è diventato capitano del Lione e sembra giocare un gradino, se non due, sopra tutti gli altri suoi compagni eccetto i sopra citati. 

Bologna è una città strana, a suo modo unica. Una Parigi minore per Guccini, una Marsiglia senza il porto per Bersani. Imbevuta in quell’afflato culturale, pittoresco e decadente, è una città contraddittoria, incoerente e affascinante. San Luca dall’alto controlla lo scorrere della vita brulicante, calderone antropologico italiano e straniero, ricambio continuo dei flussi umani della sua antica università. Riparati dai portici, si possono incontrare bohemienne fuori dal tempo cercare il bacio dell’arte insieme a uomini di impresa dai volti squadrati, vestiti di tutto punto in completo e ventiquattrore, impegnati nella cura dei loro affari. Li si può vedere passeggiare uno di fianco all’altro, senza avere la sensazione di essere capitati in un qualche scenario grottesco.

Nella storia del calcio moderno pochissimi settori giovanili sono riusciti a produrre quanto La Masia. La narrazione di cui gode il settore giovanile del Barcellona è enorme e giustificata. Capita però che avere addosso appiccicata l’etichetta di provenire da lì sia un’arma a doppio-taglio. Alcuni vengono semplicemente sopravvalutati; altri vengono bruciati perché nonostante il materiale tecnico presente non riescono a reggere la pressione; altri ancora pur essendo degli ottimi prospetti vengono schiacciati dalle aspettative. Quest’ultimo è probabilmente il caso di Gerard Deulofeu. Lo spagnolo prima di approdare a Udine, ha girovagato a lungo partendo da Barcellona. Ha cercato un ambiente, un modo di giocare, una sorta di comfort zone dove poter sprigionare i suoi dribbling fulminei e la sua verticalità. Quest’anno finalmente sembra esserci riuscito.

Quando ti viene fischiato un calcio di rigore a favore all’ottantottesimo minuto nel ritorno di una semifinale di Champions League, con la possibilità di portare ai supplementari la contesa, di fronte ai tuoi tifosi, non so se ti passa tutta la vita davanti, ma probabilmente tutta la carriera sì. Chissà quanti ne ha calciati di rigori Juan Román Riquelme nel barrio, quante volte ha spiazzato l’amico di turno nel ruolo del portiere, in qualche potrero trascurato. Si è allenato una vita intera per battere quel rigore, lo stesso che poteva aiutarlo a raggiungere la sua prima finale di Champions League, e poi magari vincerla, per entrare nella leggenda

Giacomo Raspadori ha tutto per essere definito un bravo ragazzo. Il look sobrio, il taglio di capelli militaresco, le dichiarazioni stereotipate in cui parla solo di lavorare per migliorare, gli addetti ai lavori che lo chiamano Giacomino, i mister che ne esaltano la professionalità e l’umiltà. De Zerbi in questa  purezza fanciullesca ci aveva visto addirittura un limite: “Gli ho detto che deve venire con me a rubare qualche portafogli” aveva dichiarato a mezzo stampa, sottolineando con una metafora singolare quanto fosse necessario per la sua crescita incattivirsi in campo. Raspadori ha a sua volta confermato di aver colto subito l’antifona, annoverando anche questo tra i tanti insegnamenti ricevuti e appresi dal mister che lo ha fatto esordire tra i professionisti.

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