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La maschera di Dybala

È un Natale un po’ particolare quello del 2016. Almeno per quei giocatori che, alzando lo sguardo al cielo, non vedono alberi illuminati e lucine decorative, ma solo enormi grattacieli e lo skyline di una città troppo futuristica per quei giorni dal sapore di festa. Doha è una perla del Medio Oriente, la Capitale dello stato del Qatar. Una città all’avanguardia, ultra moderna, lontana anni luce però da quel calore tradizionale che ci si aspetta di vivere il 23 dicembre.

I giocatori di Milan e Juventus sono molto lontani dalle proprie case e dalle proprie famiglie. Si trovano in Qatar per giocare la Supercoppa Italiana, a migliaia di chilometri di distanza dai propri stadi in nome di quello show-business che ha portato la competizione, che tradizionalmente apre la stagione calcistica, a essere disputata a fine anno solare. Per di più molto lontano dall’Italia. Segni di un tempo stravolto. Del passaggio della modernità. Quel 23 dicembre 2016 non c’è il caldo natalizio per Milan e Juventus, ma ci sono le curve mozzafiato di Doha e c’è una coppa da mettere in bacheca.

Da una parte la Juventus, campione d’Italia e detentrice della Coppa Italia. Dall’altra il Milan, che si trova lì a Doha senza aver vinto alcun trofeo, ma solo per aver perso la finale di Coppa Italia l’anno prima. Davide contro Golia. La Juventus ha i favori del pronostico e la folla che è accorsa allo stadio Jassim bin Hamad si aspetta di vedere i bianconeri trionfanti in una cornice abbastanza surreale, fatta di poco tifo e di molto interesse. Di poca passione e di molto spettacolo.

Arrivano finalmente le 19:30 e l’arbitro Damato può fischiare il calcio d’inizio del match. La Juventus parte forte e dopo soli 18 minuti passa in vantaggio con Chiellini che insacca sugli sviluppi di un corner. Sembra un percorso in discesa verso la coppa per la Vecchia Signora, ma il Milan, quasi a sorpresa, si ridesta e al 38’ trova il pareggio con una grande torsione di testa di Giacomo Bonaventura. Si va a riposo sull’1-1. L’equilibrio regge fino al 90’ e per tutti i supplementari. Globalmente è il Milan a giocare meglio, ma l’occasione migliore del match capita sui piedi di Dybala che, in maniera abbastanza clamorosa, sciupa tutto mandando alto il pallone della vittoria.

Il match va dunque ai rigori. Sbagliano Lapadula e Mandzukic, ma soprattutto sbaglia ancora Paulo Dybala, il cui rigore viene parato da Donnarumma. Dopo di che, la rete decisiva di Pasalic regala la Supercoppa Italiana al Milan.

Nell’indifferente bellezza di Doha sono i rossoneri a vincere, battendo a sorpresa la Juventus. Le due squadre a questo punto possono abbandonare quella paradossale avventura in Medio Oriente e tornare a casa per festeggiare finalmente il Natale. Per rivedere gli alberi illuminati e le luci decorative. Non sarà una festa felicissima per i giocatori della Juventus, che come due anni prima, contro il Napoli, hanno nuovamente perso la Supercoppa a Doha. Di nuovo ai rigori tra l’altro. Non sarà un Natale felicissimo soprattutto per Paulo Dybala, che ha sulla coscienza due errori decisivi che hanno spianato la strada alla sconfitta della sua Juventus.

Dybala sbaglia il rigore decisivo contro il Milan
Dybala sbaglia il rigore decisivo e regala la Supercoppa al Milan (Foto: Imago Images – OneFootball)

Nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti

Il Natale trascorre per tutti i giocatori, che ricaricano le pile a casa, nel calore familiare, o si godono delle vacanze in mete esotiche. Passa l’epifania ed è ora di tornare in campo per la seconda parte della stagione. Dopo la vittoria per 3-0 sul Bologna in campionato, la Juventus ospita l’Atalanta l’11 gennaio 2017 negli ottavi di finali di Coppa Italia.

Dopo 22 minuti di gioco arriva un cross a spiovente dalla sinistra nell’area dell’Atalanta. Come al suo solito Mario Manduzkic spadroneggia e di testa appoggia a Dybala, che arrivando da dietro colpisce il pallone con un sinistro chirurgico che si deposita in fondo alla rete. L’argentino a questo punto abbassa la testa, inizia a correre verso la linea di fondo campo ed esultando si porta la mano sul volto, posizionando il pollice e l’indice sotto gli occhi. Mimando una maschera che copre la metà inferiore della faccia.

La Juventus vince quel match, andando avanti in Coppa Italia. I giorni successivi però sono dominati dal dibattito su quel gesto del giovane attaccante argentino. Sul significato di quell’esultanza. Il silenzio viene rotto qualche giorno più tardi, quando lo stesso Dybala, sui propri canali social, annuncia che avrebbe svelato il significato di quell’esultanza, denominata Dybala Mask, una volta postate 2000 foto raffiguranti il suo gesto.

Naturalmente esplode la morbosità per andare in fondo alla questione. Tutti vogliono sapere che significato cela quel gesto con la mano e iniziano a mimarlo nelle proprie foto per rispondere alla challenge lanciata dall’attaccante. L’annuncio acquisisce tutti i meccanismi di un grande show mediatico: Dybala lancia l’apposito hashtag, #dybalamask, innesca un frenetico countdown. La rivelazione dell’esultanza di Dybala diventa un immenso evento massmediale, alla stregua dell’uscita di un attesissimo film o album musicale.

Alla fine, dopo qualche giorno, l’argentino svela finalmente il significato della Dybala Mask, che altro non è che un omaggio al film “Il Gladiatore“. 

Quando giochiamo, a volte dobbiamo indossare la maschera del nostro guerriero per essere più forti, senza perdere il nostro sorriso e la gentilezza.

Qualche tempo più tardi, Dybala avrebbe spiegato che quell’esultanza è stata figlia della sconfitta col Milan in Supercoppa. Dopo Doha, l’argentino ha vissuto giorni molto difficili, col peso degli errori sul groppone e la responsabilità della sconfitta ad assillarlo. Allora la sua passione per “Il Gladiatore” gli ha portato la rivelazione. Per superare quel senso di fallimento doveva indossare una maschera, doveva diventare un guerriero. Come Massimo Decimo Meridio, nella pluripremiata pellicola di Ridley Scott, doveva convertire la rabbia e la tristezza in senso di vendetta e per farlo doveva indossare i panni del gladiatore.

Il paradosso di questa operazione è evidente. L’argentino ha messo in piedi una clamorosa macchinazione mediatica, concentrando tutti i riflettori su se stesso, proprio per togliere se stesso dalla luce dei riflettori. Per sostituire il suo io con un personaggio di sua invenzione, nato dalla sofferenza per il grande fallimento personale vissuto a Doha. Il primo della sua giovane carriera. Un pretesto che potrebbe anche far sorridere, ma che è invece sintomatico del calcio dei giorni nostri.

Gigantografia della Dybala Mask
Gigantografia della Dybala Mask (Foto: Massimiliano Ferraro/Imago Images – OneFootball)

Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la sta vivendo più

A questo punto ci troviamo nell’obbligata posizione di dover scomodare un vero e proprio mostro sacro della cultura italiana. Se si parla di maschere, è impossibile non richiamare la presenza del sommo teorico di questo espediente: Luigi Pirandello.

Nel celebre romanzo “Uno, nessuno e centomila“, lo scrittore siciliano teorizza la propria metafora della maschera. Il protagonista del racconto, Vitangelo Moscarda, ha una crisi d’identità assoluta innescata da un commento della moglie sul suo naso. Da quel momento, Vitangelo perde qualsiasi certezza, mette in discussione ogni minimo aspetto della propria vita, fino a cadere vittima della follia, terminando i propri giorni in un ospizio. Lì, però, fuori dalla società, si sente finalmente libero di osservare il mondo com’è realmente.

Cosa significa tutto ciò? Secondo Pirandello, ogni uomo nella sua vita indossa un numero indefinito di maschere che cambiano a seconda della situazione in cui si trova. Ogni rapporto sociale soggiace a questo gioco di inganni. Ognuno indossa una maschera diversa e queste scavano talmente a fondo sulle persone che arrivano a cancellarne l’io autentico. Applicando costantemente delle maschere, gli individui si spersonalizzano, perdono la propria identità, diventano dei personaggi in quell’enorme recita che è la vita. Solo senza maschera si può essere liberi dalle convenzioni sociali ed essere se stessi, ma si rimane anche fuori dalla socialità.

Per questo Vitangelo si sente finalmente libero nell’ospizio: da lì può osservare il mondo senza applicare alcuna maschera, ma finisce per essere soltanto un reietto. L’abbandono della maschera, in sostanza, fa recuperare per se stessi ma fa perdere ogni legame col mondo, che rifiuta chiunque non si attiene al ruolo cui è chiamato ad aderire.

Torniamo ora a Dybala. Abbiamo scomodato Pirandello perché l’argentino sarebbe un perfetto personaggio di un romanzo dello scrittore siciliano. Con quel gesto volto a celebrare il gol all’Atalanta, la Joya non ha fatto altro che avvalorare la tesi pirandelliana mostrando che ogni uomo ha bisogno di una maschera. In maniera particolare un calciatore del XXI secolo.

Il mondo del pallone è ormai un enorme show-business, che soggiace a meccanismi di esposizione mediatica impressionanti e fagocitanti. Una deriva che non ha fatto altro che spersonalizzare i calciatori, come le maschere nei romanzi di Pirandello. I giocatori sono diventati personaggi di una enorme recita che è il calcio. Per sopravvivere c’è bisogno di indossare una maschera e Dybala non ha fatto altro che incarnare questo bisogno di aumentare l’esposizione del proprio personaggio, per diminuire quella di se stessi.

L’argentino ha dato in pasto allo show business il gladiatore per preservare il proprio io. La Dybala Mask è semplicemente l’incarnazione di questo meccanismo di sostituzione che domina ormai il mondo del calcio. Dybala però l’ha razionalizzato e l’ha connotato di quel senso di vendetta e rivalsa proveniente dal suo amore per “Il Gladiatore”. Ha semplicemente dato forma a un’attitudine largamente diffusa.

Dybala esulta con la sua celebre maschera (Foto: Imago Images – OneFootball)

La vita o si vive o si scrive

Dopo il grande fallimento di Doha, Dybala ha rialzato la testa. Ha indossato la maschera del gladiatore e si è imbarcato nella sua lunga missione di vendetta, per arrivare a vedere anche lui i dolci campi elisi. Juve-Atalanta è solo l’inizio di questo percorso, che culmina poi qualche mese più tardi, in una dolce serata primaverile di Torino tanto in contrasto con quella fredda indifferenza qatariota di dicembre.

L’11 aprile 2017 la Juventus ospita il Barcellona nei quarti di finale di Champions League. Va in scena la gara d’andata. Il match è contrassegnato dalle ferite, ancora sgorganti, di due anni prima, quando a Berlino i catalani avevano sconfitto i bianconeri nell’atto finale di quella prestigiosa coppa europea. La vendetta collettiva si coniuga con quella personale di Dybala dunque questa notte.

Dopo appena 7 minuti di gioco, Cuadrado entra in area dalla destra, serve Dybala che, spalle alla porta, si volta in un fazzoletto e con un sinistro a giro sul palo lontano batte ter Stegen, sbloccando il match. Poi, al 22’, lo stesso minuto del gol contro l’Atalanta, l’argentino riceve il pallone rasoterra dalla sinistra e di prima, dal limite dell’area, batte sul primo palo il portiere dei catalani, segnando il gol del raddoppio.

Una doppietta pazzesca, che spiana la strada verso la semifinale di Champions alla Juventus. Il match verrà poi chiuso nella ripresa da Giorgio Chiellini, che aveva segnato a Doha, aumentando i ricorsi a perfezionamento di una vicenda incredibile. Indossando la maschera del gladiatore, Paulo Dybala è passato dagli errori in Qatar alle perle contro il Barcellona. Da una Supercoppa italiana persa a una semifinale di Champions League. Sacrificando però, nella ricerca della vendetta, se stesso.

Dybala esulta contro il Barcellona
Joya bianconera (Foto: Imago Images – OneFootball)

E quando stai solo, resti nessuno

Alla fine de “Il Gladiatore”, dopo aver ucciso l’imperatore Commodo e aver finalmente consumato la propria vendetta, Massimo può finalmente morire in pace e riabbracciare la propria famiglia. Può finalmente cullarsi nella dolcezza dei campi elisi. Nella strada per la propria vendetta ha sacrificato la propria vita.

Allo stesso modo Dybala per trovare il suo riscatto ha dovuto sacrificare il proprio io. Ha dovuto applicare la maschera del gladiatore. Ha dovuto recitare un ruolo e continuare a farlo ogni volta che è sceso in campo. È il prezzo da pagare anche nei romanzi di Pirandello: per stare nella società bisogna indossare una maschera e sacrificare se stessi. Più si è a proprio agio con quella maschera e più si trova il proprio posto ideale nel mondo. Per essere liberi bisogna impazzire come Vitangelo Moscarda o morire come Mattia Pascal. Bisogna essere degli outsider, degli esclusi, dei reietti.

Paulo Dybala si è affermato come il prototipo del calciatore moderno, figlio di uno star-system che crea personaggi mediatici, che applica l’etichetta del calciatore sopra a quella dell’uomo. L’argentino è figlio dei propri tempi e si è adattato come ha potuto a un calcio che, per elevarlo, richiedeva un sacrificio. Quel sacrificio l’ha fatto e ha potuto vivere una nottata come quella contro il Barcellona. Non un Natale infelice, ma stavolta una Pasqua dolcissima.

È stato bravo Dybala a realizzare questa esigenza e ad incarnarla. Puntando due dita sotto gli occhi e coprendo il proprio volto. Restituendo al pubblico solo la propria maschera e preservando il proprio io interiore, che sarebbe altrimenti stato fagocitato da un sistema cinico e spietato, com’è accaduto in Qatar. A Doha Dybala ha smesso di essere Paulo ed è diventato il gladiatore, cambiando per sempre la propria la vita.

Autore

Romano, follemente innamorato della città eterna. Cresciuto col pallone in testa, da che ho memoria ho cercato di raccontarlo in tutte le sue sfaccettature.

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