Sarà la nostra visione occidentalocentrica, sarà la scarsa voglia di approfondire e comprendere più a fondo culture lontane dalla nostra, sarà quel che sarà. Se dovessimo associare delle caratteristiche generiche, al limite delle stereotipiche, al popolo sudcoreano, quali sarebbero? Omogeneità, integrità, equilibrio. Pace, rappresentata dal fondo bianco e dal Tae-Geuk rossoblù della bandiera nazionale. Un animo mite, morigerato con tendenze masochistiche dettate dal senso del dovere inculcato sin dalla tenerissima età.
Manifestazioni ed eventi come i Mondiali di calcio sono spesso veicolo di messaggi e simboli, storie e tragedie. I giocatori assumono aure mistiche, epitomi dei valori dell’intera nazione che li sostiene in patria. Quanto esiste allora di più lontano e paradossale del gol di Hwang Hee-chan che ha portato la Corea del Sud agli ottavi di Qatar 2022? L’attaccante che si toglie la maglia, incapace di trattenere la ribollente emotività dell’istante in un momento dove è l’irrazionale e l’incontrollabile a farla da padrone. Il bello del Campionato del Mondo è che, nonostante tutte le propagande e il tentativo di ricondurre ogni momento alla tradizione e al retroterra culturale, viene a crearsi una bolla a sé stante. Vale tutto e il suo contrario. Dove anche la più incomprensibile, ingiusta e randomica azione trova la più convincente delle giustificazioni.
Primo atto
È il 65’ di Corea del Sud-Portogallo, partita decisiva per le sorti del girone H. O meglio: decisiva più per le sorti dei coreani che per i lusitani. A Cristiano Ronaldo e compagni basta un pareggio per garantirsi matematicamente il primo posto nel girone. Anche perdendo, il Ghana dovrebbe contemporaneamente battere l’Uruguay con una goleada per ribaltare la differenza reti. Oggettivamente troppo, anche per un Mondiale. Dopo il pareggio a reti bianche con la Celeste e la sconfitta amarissima con le Black Stars, la Corea del Sud non conosce alternative. Deve vincere e sperare che i ghanesi non vincano lo spareggio con gli uruguagi. Son Heung-min non ha ancora giocato una partita a eliminazione diretta di un Mondiale: uno dei più sottovalutati della sua epoca, probabilmente all’ultima grande opportunità di guidare le Tigri Asiatiche agli ottavi. Maschera sul volto a proteggerlo da una precedente frattura allo zigomo, facies eroica alla quale manca solo un mantello che copra la maglia dal rosso brillante.
Come iniziare al meglio una delle partite più importanti della propria storia calcistica se non con un gol subito dopo cinque giri d’orologio? Diogo Dalot sfugge sulla destra, troppo potente per qualsiasi coreano nei paraggi, e deposita sul destro di Ricardo Horta il più facile degli appoggi. Paulo Bento, c.t. della Corea costretto in tribuna, si massaggia il mento alla ricerca di una spiegazione. Capitan Son cerca di rianimare i compagni, abbattuti dal colpo a freddo. Si poteva immaginare uno scenario peggiore? No. A meno che la sceneggiatura preveda la redenzione finale. Allora sì che una scena iniziale tanto dura da digerire assume un senso totalmente compiuto.
Le Tigri non mollano. Pareggiano su angolo con Kim Jin-su ma il difensore è in fuorigioco. Le Tigri non mollano. Il Ghana sbaglia un rigore. Le Tigri non mollano. Passa in vantaggio l’Uruguay con De Arrascaeta, sugli spalti dell’Education City Stadium esultano sia europei che asiatici. Pochi secondi dopo la rete rioplatense la Corea pareggia. Sempre su angolo, sempre con un difensore di cognome Kim, stavolta Kim Young-gwon. L’assist? Schiena di Cristiano Ronaldo, che cerca di proteggersi dall’arrivo del corner dalla sinistra e, quasi impaurito, tenta di schivare il pallone. Le Tigri non mollano. Raddoppia l’Uruguay e CR7 si divora una ribattuta solo davanti a Kim Seung-gyu. Goffo, spaventato, inerme: non è il Cristiano Ronaldo che Cristiano Ronaldo si sarebbe mai immaginato di essere, ma è quello che irrimediabilmente è diventato. Fine primo tempo: 1-1.
Secondo atto
Son non sta vivendo una delle giornate migliori. Ci sta provando in tutti i modi ma pare bloccato, intorpidito dalla possibilità di fallire di nuovo con la Corea. Dà tutto se stesso ma non è sufficiente. Serve qualcosa o qualcuno di diverso per raggiungere l’armonia della Taegeukgi. L’inizio di secondo tempo ricalca le orme del primo: possesso palla portoghese, la Corea del Sud che pare, semplicemente e crudelmente, inferiore alla Seleção das Quinas. Al 65’ il Destino inizia a tirare i fili. Fuori Cristiano Ronaldo per il Portogallo, dentro Hwang Hee-chan per la Corea. Un passaggio del testimone tra due giocatori che sembrano complementari, nel senso che uno in carriera ha segnato in ogni maniera possibile anche quando la Natura non lo avrebbe permesso e l’altro, nonostante le occasioni, non segna neanche con le mani.
Nato a Chuncheon ma trasferitosi a Bucheon sino agli undici anni, Hwang esplode diciassettenne nelle giovanili dei Pohang Steelers (no, non siete gli unici ad aver pensato che solo in Corea del Sud possa esistere una città col nome simile a una sedia dell’IKEA…). Nel 2014 sbarca in Europa col Salisburgo. Un paio di prestiti all’affiliata Liefering e all’Amburgo, un 2019/2020 scintillante a corredo di Erling Haaland e Takumi Minamino, le antenne drizzate della casa madre Lipsia. Esordisce in DFB-Pokal con un gol e un assist col Norimberga ma, sostanzialmente, da lì in poi solo frustrazioni. Da quel 12 settembre 2020 sino al 12 dicembre 2022, Hwang dà l’impressione di saper fare tutto estremamente bene con un’unica eccezione. Buttarla dentro. Dici poco, per una punta centrale. 0 gol in Bundesliga, 5 in 30 presenze in Premier in prestito al Wolverhampton. Poca roba. Nonostante tutto convince i Wolves ad acquistarlo definitivamente, ma anche lo score di questo 2022/2023 lascia spazio a poche suggestioni. 0 gol in 11 presenze. Un attaccante costruito in laboratorio per fare tutto tranne che la cosa per la quale viene naturale identificarlo, insomma. Esempio plastico? Ottavi di finale di Carabao Cup 2022/2023. Al Molineaux arriva il Gillingham. Hwang parte dalla panca, entra a metà ripresa e decide la partita. Rigore procurato e assist. 2-0. Appena si trova solo davanti al portiere, però, spara alto.
In Corea Hwang Hee-chan è soprannominato Hwangso. Dicono per il suo stile aggressivo di gioco, ma più probabilmente per la somiglianza col cognome. Traduzione italiana? Toro. Per uno giunto nel calcio che conta sotto l’ala del colosso Red Bull, nomen omen. Del Bos taurus, tuttavia, Hwang mostra solo gli sbuffi per il drappo che sfugge alla furiosa incornata. Il copione, però, ha in serbo un finale inaspettato.
Ghana-Uruguay sono indietro di qualche minuto rispetto a Corea del Sud-Portogallo. Tutto è nelle mani e nei piedi degli uomini di Bento. Solo un gol della Corea può ribaltare la situazione. A quel punto l’Uruguay dovrebbe fare un altro gol. Al Portogallo andrebbe bene anche il pareggio, ma si riversa inspiegabilmente in avanti. Minuto 91, angolo per il Portogallo. 7 uomini di Santos in area, Carvalho appena oltre il limite dell’area e Cancelo nei pressi della bandierina. Solo al Mondiale una follia così. Ball don’t lie, avrebbe sentenziato un filosofo contemporaneo. Corner battuto corto, Pepe anticipato. La palla rimbalza sul centrodestra della trequarti coreana. Nel raggio di una decina di metri il solo Son. Quella prateria davanti a sé pare un miraggio. Son corre, alza la testa ma non vede nessun compagno. Davanti ha solo Antonio Silva, che sta scappando all’indietro. Son supera la metà campo, rallentando impercettibilmente per aspettare l’arrivo di un compagno che non c’è. Alza lo sguardo e non vede nessuno. Rientra Carvalho, rientra Cancelo, rientra Palhinha. Son arriva al limite dell’area, illudendosi di essere ancora l’unico con la maglia rossa in mezzo alla schiuma bianca delle onde portoghesi.
Scioglimento
Alza per la terza volta la testa, più per un riflesso involontario che per la speranza di cogliere un movimento amico. Invece ecco Hwang Hee-chan alla sua sinistra. La corsa di Hwang non ha subito né sta subendo particolari variazioni: sembra essersi catapultato al limite dell’area più per inerzia che per convinzione. Hwang non attacca come un toro la profondità, ma continua semplicemente l’avanzata. Bernardo Silva, non abituato a difendere in questa situazione, lo tiene in gioco. Come fargliela arrivare? È qui che avviene l’irrazionale.
Son inchioda, con una decelerazione degna del miglior slasher NBA. Ha una finestra spaziotemporale infima per attraversare quel muro invalicabile rappresentato da Antonio Silva. Con una sensibilità eccezionale per essere al 91’ dopo una progressione palla al piede di 70 metri, l’attaccante del Tottenham compie il gesto eroico. Palla tra le gambe di Silva, con la potenza giusta per incrociare la corsa di Hwang Hee-chan prima dell’uscita a valanga di Diogo Costa. Palla sul destro.
Il destro di un attaccante che ha perso il tocco magico. L’ultima persona che vorresti che calciasse quella sfera in quel momento. Hwang è lì, al posto giusto al momento giusto, come tante altre volte in carriera. Tira di prima intenzione, senza guardare la porta né la posizione del portiere.
Tutto così perfetto. A eccezione di un attaccante che non vede la porta da mesi. Il lupo ha perso il pelo e, sembra, anche il vizio. Hwang Hee-chan è un lupo solo al Molineux, però. Con la Corea del Sud è Hwangso. Un Toro.
Diagonale rasoterra, delirio coreano, apnea per attendere il fischio finale di Ghana-Uruguay sperando che la Celeste non faccia un altro gol che renderebbe vano questo piccolo miracolo. Il gol non arriva. Le Tigri non hanno mollato. Son scoppia a piangere, per una volta di gioia. Nell’astrologia orientale il toro è animale simbolo di affidabilità, resistenza, determinazione. Hwang Hee-chan, Hwangso. Nomen omen.