64.100 persone ed un uzbeko a Città del Capo. Diego Armando Maradona da una parte, Joachim Löw dall’altra, ma non è un’amichevole di metà anni ’80 tra Napoli e Friburgo, organizzata in Sudafrica. I due si siedono in panchina, rispettivamente su quelle di Argentina e Germania. Un 18enne Mario Gotze prende appunti da casa.
L’excursus è necessario, se si vuole andare a parlare di quello che sarà l’atto conclusivo di uno dei Mondiali più entusiasmanti del recente passato, organizzato nella patria del pallone in cuoio, tra favelas e stadi all’ultima moda architettonica. Appunto, dal Brasile bisogna trasferirsi prima in Sudafrica, spostando le lancette dell’orologio indietro di quattro giri del Sole.
L’organizzazione dei rivali di sempre è ancora distante, la selezione argentina guidata dal Pibe de Oro non ha pensieri malauguranti a riguardo. Si gioca in Sudafrica, Paese atipico dove organizzare la manifestazione calcistica più importante dell’anno, ma al contempo stimolante: far bene lì crea una sorta di precedente. Il problema per l’Albiceleste, però, è che il medesimo pensiero sobbalza nella mente dei tedeschi, che non sono arrivati ai quarti di finale per passatempo.
La compagine guidata dall’ex assistente di Klinsmann ha superato agevolmente il proprio girone, nonostante la sconfitta di misura contro la Serbia. Agli ottavi di finale un sonoro 4-1 contro l’Inghilterra, qualche ora prima del calcio d’inizio di Argentina-Messico, terminata 3-1 per Messi e compagni. Questi ultimi arrivano al match contro gli europei con il morale alto ed il timore allo zero assoluto: i 9 punti nel girone con Corea del Sud, Nigeria e Grecia fanno, tutto sommato, spirito.
Preso appunti sulle premesse della vigilia? Bene, accartocciate e tirate nel cestino più vicino. 0-4, argentina annichilita. Il 1986 è vendicato, Maradona questa volta non può che chiedere scusa al suo popolo. Özil, Müller e Klose fanno impazzire la retroguardia dell’Albiceleste, che torna con la coda tra le gambe in Sud America. L’orologio va riportato avanti, c’è la rivincita della rivincita.
Tutto pronto
Il gioiellino del Borussia Dortmund aveva preso appunti, in quel 3 luglio 2010 che segnava il primo mese dalle sue 18 candeline. La stagione successiva sarebbe stata quella della sua esplosione nel panorama calcistico tedesco, antecedente a quello internazionale, per cui mancava poco nel calendario della sua scalata. Con Robert Lewandowski e Marco Reus forma uno dei reparti offensivi più temibili e temuti d’Europa: sono l’ingranaggio definitivo nella macchina perfetta costruita da quel tecnico che al secolo fa Jürgen Norbert Klopp.
Il suo passaggio al Bayern Monaco nel 2013, a pochi giorni dalla finale di Champions League a Wembley contro i bavaresi, fa storcere più nasi del previsto. Se l’integrità morale scricchiola, la classe non si discute: il numero 19 entra di diritto nella lista dei convocati per Brasile 2014, partendo da titolare nelle prime uscite dei suoi.
Gioca discretamente nel 4-0 al Portogallo e si inserisce perfettamente di testa sul momentaneo 1-0 al Ghana. Poi un quarto d’ora contro gli Stati Uniti, un primo tempo con l’Algeria, una manciata di minuti contro la Francia ed il Mineirazo visto dalla panchina, contro i verdeoro padroni di casa. Insomma, un lento declino nelle gerarchie di Löw. In una finale dei Mondiali, però, tutto si può ribaltare. La sfida è affascinante, visti i precedenti. E inizia.
Gonzalo e non solo
La finale dei Mondiali brasiliani è universalmente riconosciuta come una delle più divertenti del nuovo millennio, anche e soprattutto per l’equilibrio che si viene a creare in campo. Non solo, anche il tifo per una o l’altra compagine in campo è un fattore da tenere ampiamente in considerazione: buona parte del globo terracqueo sostiene Sabella e i suoi uomini, ma i verdeoro sono costretti a supportare chi, qualche giorno prima, ha inflitto loro la seconda sconfitta più amara della propria storia. Un 1-7, però, è decisamente meno peggio di un trionfo in Brasile dell’Argentina.
Eppure sono proprio i sudamericani a tenere il pallino del gioco nel primo tempo, grazie a due brividi per i tedeschi a firma di Gonzalo Higuain. Prima l’allora attaccante del Napoli sciupa un 1 contro 1 con Manuel Neuer, dopo una clamorosa disattenzione della retroguardia davanti all’estremo difensore del Bayern Monaco; poi è l’assistente del nostro Nicola Rizzoli, Andrea Stefani, a bloccare in gola l’urlo liberatorio dell’attaccante con la numero 9. Sul cross di Lavezzi, l’ex Real Madrid parte in offside: è ancora 0-0.
Anche la Germania, nonostante l’inerzia della partita a favore degli uomini in blu, si rende pericolosa. Ne sa qualcosa il palo alla sinistra di Romero, che trema sugli sviluppi di un calcio d’angolo battuto da Toni Kroos: Höwedes stacca più in alto di tutti, compagni compresi, ma il suo colpo di testa non si insacca. Regna ancora l’equilibrio, così come avverrà nella seconda frazione di gioco.
Nel secondo tempo, in più, i ritmi si abbassano. Si percepisce il timore delle due squadre in campo nello sbilanciarsi troppo, con i 22 in campo che preferiscono coprirsi. Le poche occasioni che si presentano derivano da strappi di gioco improvvisi, i quali interrompono la lunga manovra ostentata da Germania ed Argentina. È il caso della chance più limpida per Lionel Messi, che 28 anni dopo può essere un altro 10 ad alzare la Coppa del Mondo in faccia ai tedeschi. La Pulce, però, spreca, sfiorando il palo con un sinistro rasoterra.
Tutto tace, i supplementari sono la conseguenza scontata e prevedibile della paura mostrata in campo dalle due compagini. Serve estro, fantasia, anche a discapito dell’esperienza, nella maggior parte dei casi vitale negli ultimi minuti di gioco di gare come questa: Joachim Löw, dunque, si gioca la carta Mario Gotze, spedendo in panchina il veterano Miro Klose.
Mario Gotze, wonderkid
Il fischietto tricolore, che ci rappresenta in una finale che manca all’Italia dall’edizione ambientata proprio in Germania nel 2006, suona tre volte. Nessuna delle due porte alle spalle di Romero e Neuer si è gonfiata, nonostante l’andirivieni di occasioni da una parte all’altra, come in una finale ATP. E supplementari siano, dunque.
Non cambia nulla: la preoccupazione sul volto dei giocatori, il peso di un match simile, non si schioda. La responsabilità è troppo grande, specialmente per chi non è abituato a palcoscenici simili. Il caso emblematico, a tal proposito, è quello di Rodrigo Palacio, che al 78′ prende il posto di un Higuain a dir poco sprecone. Sabella si gioca il suo ultimo cambio buttando nella mischia l’attaccante dell’Inter, che a poco più di 32 anni ha l’occasione della carriera.
Un lancio millimetrico dall’out di sinistra di Rojo lo mette in condizione di far esplodere di gioia un Paese intero, proprio nello stadio simbolo dei brasiliani. La nube di responsabilità che avvolge il Maracana, però, colpisce anche El Trenza, che non stoppa ottimamente di petto e si allunga troppo il pallone, tentando un pallonetto che non ha la benché minima intenzione di attraversa la linea di porta. Niente, questa finale non si sblocca. Ma ricordate, l’estro, quello che ha spinto il CT tedesco a tirar fuori una pedina chiave come il suo numero 11 della Lazio, pur di giocarsi il jolly Gotze.
L’azzardo viene ripagato mentre scocca il 113′. Schurrle riceve il pallone qualche metro oltre la metà campo. Avanza, i centrocampisti argentini non hanno né i muscoli né il fiato per strappargli il pallone. Arriva nelle porzione di campo più pericolosa e lascia partire un traversone col sinistro. Un altro stop di petto, questa volta funzionale, arriva da parte del terminale offensivo della squadra. Non è Palacio e non l’Argentina, ma è Mario Gotze. La spaccata di mancino è tutto ciò che serve per incoronarlo uomo copertina del Mondiale dei tedeschi.
Passano i minuti, ma Leo Messi e compagni non riescono ad inseguire il destino. La rivincita non si compie, la palla è al centro per un altro, eventuale, scontro futuro. La Germania è di nuovo sul tetto del Mondo, anche e soprattutto grazie al ragazzino che ha imparato a prendere appunti.