Per quanto tempo si può portare rancore per un torto subito? E quanto profonda può essere la sete di vendetta per un alterco di gioco sia pure venutosi a creare in un contesto duro? Due domande che sarebbe probabilmente meglio non porre a Roy Keane, gloria del calcio irlandese, ora allenatore, ma per dodici anni – tra il 1993 e il 2005 – bandiera del Manchester United di Ferguson con cui ha vinto praticamente tutto.
Un tassello imprescindibile per Sir Alex che ha fatto di Roy la sua propaggine in campo sfruttando le sue doti tecniche di mediano “box to box” e temperamentali. Un centrocampista muscolare, potente, capace di far la differenza con la sua energia, la capacità di coprire il campo e il gioco duro. A volte troppo. Un leader tecnico, ma anche spirituale per la sua propensione a guidare i compagni in campo e il suo approccio militaresco alle storie di campo.
Un cattivo in via di estinzione
Roy Keane era decisamente un giocatore cattivo. Nel senso più “antico” dell’espressione. Una tipologia ormai estinta di calciatore, vittima di una sorta di selezione naturale, dove non sono i più forti a resistere ma i più scaltri. Non che non servano oggi calciatori in grado di dare una scossa ai match e guadagnarsi puntualmente la leadership fisica della mediana, ma tra telecamere, moltiplicazione dei direttori di gara in campo, prova televisiva e VAR, un certo tipo di gioco decisamente sopra le righe non permetterebbe a nessuno di terminare neanche una gara. Non è un caso che la rivista France Football, nel 2014, abbia piazzato Keane al 14° posto nella classifica all-time dei cattivi. Probabilmente un piazzamento riduttivo, soprattutto alla luce dell’episodio di cui oggi ricorre il ventennale e che stiamo per raccontarvi.
Prima, però, facciamo un passo indietro. Per capire chi sia Keane e come abbia sempre interpretato le gare (e come le intenda ancora oggi), prendiamo in prestito una dichiarazione rilasciata di recente ai microfoni di Sky Sport in occasione di un match tra Manchester United e Liverpool. Vedendo i calciatori uscire dal tunnel intenti a scambiarsi convenevoli (strette di mano e abbracci, spesso anche di routine), l’irlandese a un tratto è sbottato:
Queste scene mi disgustano. Stanno andando in guerra e si baciano e si abbracciano. L’avversario non andrebbe nemmeno guardato, stai per iniziare una battaglia in campo. Non è cambiato il calcio, sono cambiati i giocatori. Si baciano e abbracciano prima di combattersi e dopo la partita chattano tra di loro.
Non suonino insolite o forzate le sue parole. Non lo sono. Affatto. Specie pensando che Keane è lo stesso che nella sua biografia, scritta da Roddy Doyle e di cui parleremo più approfonditamente più avanti, ha elencato subito – dal primo capitolo – la lista dei suoi nemici. Laddove vi interessasse, eccovela: Rob Lee, David Batty, Alan Shearer, Dennis Wise, Patrick Viera e Alf Inge Haaland.
Proprio ad Haaland, padre del nuovo fenomeno del calcio europeo in maglia Borussia Dortmund, è legata la storia più controversa a cui facevamo riferimento nell’introduzione. Tutto ha inizio nel 1997, in campo Leeds e United. Durante una sortita offensiva verso l’area di rigore Keane, contrastato da Wetherall e dal roccioso Haaland, scivola e si accascia. Il norvegese, nella foga del momento, gli si fa sotto, urla e lo invita vistosamente a rialzarsi accusandolo di simulare. Un’accusa pesantissima, specie per il modo di vivere e vedere il calcio dell’irlandese: uomo tutto d’un pezzo e quanto di più distante dal profilo del simulatore.
Un danno che si aggiunge alla beffa della rottura del legamento crociato, riportato proprio nell’episodio della caduta, che avrà l’effetto di accrescere il suo livore verso l’altro protagonista dell’episodio, oltre a costringerlo non solo a lasciare il campo ma anche a chiudere anzitempo la stagione. Chiude tutto, sul piano sportivo, eccetto la storia con Haaland, con cui da quel momento avrà un conto in sospeso.
La biografia di Roy Keane
A questo punto, dunque, dobbiamo riproporre la domanda di apertura: quanto a lungo si può portare rancore per un torto subito? Nel caso di specie di Keane, poco meno di quattro anni. È il 21 aprile del 2001, infatti, quando il menu della Premier League offre nel programma di giornata il derby di Manchester: United contro City, Keane contro Haaland.
Senza il retroscena dell’infortunio, i due nomi non finirebbero negli incroci di campo meritevoli di attenzione in sede di presentazione della gara. Al contrario. I due, peraltro, non sono neanche al primo confronto post-infortunio dell’irlandese, ma per ragioni conosciute solo da Roy, quella è la partita individuata per lavare l’onta dell’accusa subita pochi anni prima, peraltro a margine di uno degli infortuni più gravi patiti in carriera. E così, a poco dal termine del match, il centrocampista decide che è tempo di passare all’azione: va a contendere un pallone ad Haaland, ma anziché colpire la sfera, entra a martello sul ginocchio del norvegese. Rosso diretto, non prima di aver sussurrato qualcosa all’orecchio del norvegese che, nell’episodio, riporta la rottura del ginocchio e la chiusura anzitempo non della stagione, ma della carriera. Alf, infatti, giocherà soltanto altre tre partite, per un totale di 48 minuti, dopo il suo rientro. Per Roy Keane, invece, le giornate di squalifica saranno quattro, oltre a 200.000 sterline di multa e a un polverone mediatico a cui contribuirà la sua biografia.
Il libro vedrà la luce nel 2002, ma prima dell’uscita ufficiale, alcuni estratti furono pubblicati sul News of the World ed ebbero l’effetto di cambiare i piani dell’editore, la stesura del libro e il successivo corso della carriera di Keane (che appenderà gli scarpini solo nel 2006). Tra gli estratti pubblicati, un’intera anticipazione sul controverso fallo su Haaland. Questo:
Un’altra prestazione di merda. Loro erano scesi in campo carichi, noi no. Il City avrebbe potuto chiudere la partita con venti minuti di anticipo, ma Teddy sbagliò il rigore e Howey pareggiò allo scadere. Aspettavo Alfie da 180 minuti, o tre anni, a seconda di come uno vuole vedere la cosa. Poi a un certo punto gli arrivò quella palla sulla fascia. Mi stava prendendo in giro. Ormai avevo aspettato abbastanza, e così entrai duro. C’era anche la palla (mi pare). Beccati questa, stronzo. E non permetterti mai più di accusarmi di simulare. E dì al tuo amico Wetherall che ne ho anche per lui. Non aspettai nemmeno che Elleray, l’arbitro, tirasse fuori il cartellino. Mi girai e mi incamminai verso gli spogliatoi.
Un’anticipazione che rinfocolò il caso mediatico. I giornali e le tv si buttarono a capofitto su quell’ammissione e anche la Federazione inglese fu costretta a intervenire.
Mi accusarono di aver screditato l’intero mondo del calcio, prima commettendo il fallaccio su Haaland e poi traendo profitto dalla descrizione di quel tackle. Le loro accuse mi ferirono, soprattutto la seconda, l’idea che mi fossi vantato di aver fatto male di proposito a un avversario nella speranza di vendere qualche copia in più.
Roy Keane on Alf Inge Haaland incident: "There are things I regret in my life and he's not one of them." pic.twitter.com/pjzPJ8PLAq
— Squawka Football (@Squawka) October 6, 2014
Keane fu così sottoposto a un processo sportivo (oltre che mediatico) al Reebok Stadium di Bolton, durante il quale, tra le altre cose, la difesa scelse di proiettare in loop anche il video del fallo di gioco.
Lo fecero partire in slow motion. Santo dio, qualunque cosa, in slow motion, sembra molto peggio di quello che è; perfino soffiarsi il naso può sembrare un gesto minaccioso. Ecco, e il mio tackle, in slow motion, era terribile, da qualsiasi angolazione. Avrei voluto dire: Stoppate subito questo cazzo di video, datemi la mia benedetta multa e andiamocene ognuno per la sua strada.
E la multa non si fece attendere. Roy Keane fu costretto a pagare 150.000 sterline, più 50.000 sterline di spese legali, che si andarono ad aggiungere alle due settimane di stipendio che lo United aveva deciso di sospendergli subito dopo l’episodio. Inoltre, alle quattro giornate di squalifica comminate nell’immediatezza ne furono aggiunte altre cinque. Una doppia condanna che colpì il giocatore senza ottenerne di fatto la redenzione.
Volevo spaccare una gamba a Haaland? Per l’ennesima volta, no. Ma sì, volevo entrare duro ed essere sicuro che lui se ne accorgesse. Volevo fargli male e urlargli dall’alto in basso: “Beccati questa, stronzo”. No, non sono pentito, ma non volevo spaccargli una gamba, dico sul serio. Lo stavo puntando, certo. Come puntavo molti altri giocatori, e come molti puntavano me. Fa parte del gioco: ci sono i gol spettacolari, i salvataggi sulla linea e le battaglie a centrocampo. Haaland mi aveva fatto incazzare. Non aveva tenuto la bocca chiusa. Ci sono molte cose di cui mi sono pentito, in vita mia, ma non di quello che ho fatto a lui. Per me lui incarna tutti gli aspetti del calcio che non mi piacciono.
E a rimarcare la sua posizione anche il carico da 11 di ricordare che i giocatori del City non intervennero subito in difesa del compagno dopo il fallo. “Forse anche loro pensavano che Alfie fosse un coglione”. Insomma, il solito Roy. Il cattivo dei cattivi.