È passato più di un anno e mezzo dall’ultima panchina di Massimiliano Allegri. Precisamente la panchina in questione era quella della Juventus e l’ultimo match un anonimo Sampdoria-Juventus di fine maggio. Un quinquennio di enorme successo, in cui la Juventus e il tecnico livornese hanno fatto incetta di vittorie – perlomeno in Italia – e si sono conquistati lo status di big del calcio europeo.
Il tema della costruzione dal basso sta creando un sempre maggiore dibattito nel mondo del pallone. Classico rinvio dal fondo per il tifoso medio, arma tattica sempre più essenziale nelle idee di gioco di diversi allenatori, consci del valore di una pedina in più nel proprio scacchiere di scelte. La bilancia fra vantaggi e svantaggi sta alla base di una domanda più che lecita agli occhi degli osservatori: vale la pena rischiare di perdere palla nella propria area di rigore nel tentativo, non sempre a buon fine, di crearsi presupposti per il gol a così grande distanza dalla rete avversaria? Quanto in avanti si può spingere la responsabilizzazione di un ruolo delicato e decisivo come quello del portiere?
Il Milan post-Berlusconi ha cambiato identità molte volte. La certezza dei rossoneri sembra però essere la presenza fra i pali di Gianluigi Donnarumma, sempre più leader e, rinnovo permettendo, possibile nuova bandiera rossonera.
Una certezza
La filosofia societaria del Milan degli ultimi anni sembra essersi rifatta al celebre passo de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che recita: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Atteggiamento che avrebbe dovuto essere adottato già negli anni d’oro della compagine rossonera, quando sempre più componenti della rosa erano in procinto di appendere gli scarpini al chiodo.
Senatori del calibro di Maldini, Nesta, Gattuso, Ambrosini, Seedorf e Zambrotta erano ormai giunti a fine carriera e piano piano si sono ritirati, ma il ricambio generazionale – oltre a quello ai piani alti della società con la fine dell’era Berlusconi-Galliani che ha scatenato un valzer di presidenti, dirigenti e allenatori – non ha sortito gli effetti sperati. I nuovi innesti hanno fatto precipitare il club in una spirale fatta di piazzamenti in campionato al di sotto delle aspettative, assenza dalle principali competizioni europee e difficoltà nel trovare nuovi riferimenti con cui costruire un progetto solido e duraturo. L’unico punto fermo, seppur con qualche ostacolo, sembra essere Gianluigi “Gigio” Donnarumma.
Donnarumma il predestinato
Da quando ha indossato i guantoni in occasione della partita di campionato vinta contro il Sassuolo per 2-1 il 25 ottobre 2015, Donnarumma non ha più smesso di difendere i pali del Diavolo. Ironia della sorte, la sera del 21 luglio 2020 – a 21 anni, 4 mesi e 26 giorni – toccherà quota 200 presenze in maglia rossonera proprio contro i neroverdi. Lo scenario muterà, poiché questa volta si giocherà al Mapei Stadium, ma il risultato e il portiere titolare del Milan saranno gli stessi.
Il destino ha condotto spesso Donnarumma a bruciare le tappe: le buone prestazioni collezionate con il settore giovanile rossonero gli avevano riservato un posto in Primavera già a 15 anni. Essendo aggregato ai futuri titolari del Milan, nel campionato 2014/2015 era già stato convocato in Prima Squadra durante la partita contro il Cesena. La squalifica di Diego López e il forfait di Michael Agazzi costrinsero Christian Abbiati a scendere in campo. Gigio quindi si accomodò in panchina agli ordini di Filippo Inzaghi. L’attuale allenatore del Benevento, per uno scherzo del destino, non lo ebbe mai a disposizione in qualità di tecnico della Primavera, poiché l’annata precedente Donnarumma militava tra le file dei Giovanissimi.
A pagare le conseguenze dell’ascesa del giovane di Castellammare di Stabia nella stagione successiva fu in primis il titolare designato Diego López il quale, nelle prime uscite, aveva dimostrato poca affidabilità. Approccio che convinse Siniša Mihajlović a ribaltare le gerarchie e a schierare la promessa sedicenne. Scelta non condivisa dal patron Berlusconi: come rivelato in seguito dal tecnico serbo, durante la settimana dell’esordio di Donnarumma il patron rossonero si recò due volte a Milanello per convincerlo a puntare ancora sull’estremo difensore spagnolo, rischiando così di ritrovarsi senza mister: dare retta al presidente avrebbe significato fare le valigie.
L’intuizione di Mihajlović prevalse e si impose a tal punto che lo sbocciare del talento cristallino di Donnarumma comportò un’altra sistemazione per Diego López, che, successivamente, lo definirà la più grande forza della natura che abbia mai visto fra i pali:
Ha un talento incredibile, già a 16 anni aveva enormi doti fisiche e sta battendo tutti i record di precocità. Viste le sue qualità, quando è venuto fuori, è stato difficile per me riuscire a ritagliarmi uno spazio, così ho scelto l’Espanyol.
Un rinnovo tormentato
Nonostante la rivoluzione ai vertici della società, Donnarumma diventa la punta di diamante del Milan. È il gioiello rossonero, ma è anche il pupillo di Mino Raiola. Quest’ultimo non vede di buon occhio il nuovo direttore sportivo Massimiliano Mirabelli e ritiene il disegno cinese senza fondamenta. La volontà della società è rinnovare il contratto del numero 99 – in scadenza il 30 giugno 2018 – per farne la colonna portante del nuovo progetto.
Al compimento della maggiore età, ha inizio il tira e molla tra il potentissimo agente italo-olandese e la nuova dirigenza. Si aprono mesi roventi di trattative saltate e fratture apparentemente insanabili: il 15 giugno 2017, in conferenza stampa, l’amministratore delegato Marco Fassone annuncia l’intenzione di Donnarumma di non rinnovare. Tre giorni dopo, al debutto contro la Danimarca all’Europeo Under 21 in Polonia, alcuni tifosi di un Milan Club locale espongono uno striscione con scritto “Dollarumma” e lanciano dei dollari finti in campo. L’11 luglio 2017, contrariamente a quanto ci si aspetti, la fedeltà calcistica prevale sul denaro e la passione all’interesse. Il calciatore non asseconda il suo manager e firma il rinnovo contro la sua volontà.
Donnarumma rimane l’unica costante quando la cordata cinese neo-proprietaria del club decide di rifondare la squadra: nell’estate 2017 la spesa folle di Fassone e Mirabelli – poco più 240 milioni di euro – è l’emblema della trasformazione. La rosa a disposizione del tecnico Vincenzo Montella si amplia con undici nuovi giocatori: tra questi Antonio, fratello maggiore che Gianluigi, fin da piccolo, ha osservato parare proprio come lo zio. A quanto pare, essere una saracinesca è sempre stato un affare di famiglia.
L’intricatissima trama della telenovela rinnovo resterà nella mente di una frangia di sostenitori rossoneri anche nei mesi successivi: la sera del 13 dicembre 2017, in occasione del match di Coppa Italia contro il Verona, verrà contestato con fischi e insulti. Sarà mostrato persino uno striscione che lo esorterà ad andarsene. Donnarumma, che esponendosi contro il proprio procuratore ha ribadito il proprio amore ai colori rossoneri, inizierà a sentire la pressione del beniamino non più amato. Partita dopo partita, però, imparerà a rispondere sul campo.
La consapevolezza raggiunta
Il terremoto che vedrà riformato il Consiglio d’Amministrazione rossonero negli anni a venire, il valzer degli allenatori, le cessioni e i nuovi acquisti non scalfiranno il ruolo di Donnarumma, sempre più leader di una squadra di cui diventa l’unica certezza, confermandosi tra i migliori portieri italiani in circolazione.
All’inizio era normale ascoltare quelli più grandi di me. Ora non è tanto per l’età, ma sono tra quelli che giocano da più anni al Milan e quindi ho un ruolo importante nello spogliatoio. Mi faccio sentire e do qualche sgridata a qualcuno quando devo.
Parole di chi ha assunto consapevolezza del proprio ruolo. L’esperienza, infatti, lo sprona a rimanere attento e a non compromettere l’intera partita per una rete subita, annullando lo scoramento e privilegiando la concentrazione:
Gli errori a volte fanno parte del gioco e purtroppo, quando sbaglia un portiere, c’è una rete dietro. Ma sbagliando si impara e cercherò di sbagliare il meno possibile. Gli errori capitano e devi essere bravo ad andare avanti anche in partita.
Donnarumma diventerà una bandiera rossonera?
Se a 21 anni e 361 giorni hai già collezionato 200 presenze in Serie A entri di diritto nella storia, anche perché sei il giocatore più giovane a tagliare un simile traguardo nell’era dei tre punti a vittoria. Se stabilisci il primato con la stessa squadra che ti ha lanciato e in uno dei derby più sentiti degli ultimi anni, potresti avere tutte le carte in regola per essere consacrato uno degli ultimi baluardi del calcio nostalgico delle bandiere.
Ultimamente il Milan è in calo: i 15 punti racimolati nelle ultime nove partite hanno quantificato le evidenti difficoltà di inizio 2021 e la sonora sconfitta contro i nerazzurri avvenuta la scorsa domenica ha suscitato non pochi mormorii tra i tifosi: molti supporters hanno iniziato a mettere in discussione i ruoli all’interno dello spogliatoio, invocando a gran voce la consegna della fascia da capitano proprio a Donnarumma.
Un traguardo che l’estremo difensore si era già prefissato nel corso di un’intervista a La Stampa, pubblicata la vigilia del match contro la Juventus del 22 ottobre 2016, a circa un anno di distanza dal suo esordio in Serie A. Si era dato come tempo dieci anni, ne sono passati quasi la metà.
Sappiamo chi siamo e dove vogliamo arrivare. Tutti insieme, come sempre! Forza Milan 🔴⚫️ @acmilan pic.twitter.com/5YcO9uV4Gh
— Gianluigi Donnarumma (@gigiodonna1) February 22, 2021
Il modo in cui ha voluto incoraggiare la squadra il giorno dopo la partita contro l’Inter, invocando la compattezza del gruppo, fa pensare che possa diventare il perno della corazzata rossonera. E, più di ogni altra cosa, che non abbia intenzione di cambiare aria proprio ora che il Diavolo potrebbe di nuovo figurare nel calcio che conta. La trattativa per il rinnovo del contratto, a 4 mesi dalla scadenza, non è ancora decollata: i contatti tra dirigenza ed entourage del giocatore sono fittissimi, ma manca l’intesa su cifre e clausole.
I tifosi si chiederanno se l’ambizione sovrasterà ancora una volta il business. Se a convincere Donnarumma a restare e a diventare una bandiera del Milan basteranno le voci dei suoi sostenitori, lo dirà solo il tempo: al massimo Maldini e Massara potranno provare a rinchiuderlo a chiave dentro Casa Milan.
Nel 2008, con un certo Gennaro Gattuso, l’espediente funzionò: il passaggio al Bayern Monaco del centrocampista calabrese era ormai imminente, ma Galliani e Ancelotti, non ancora rassegnati, lo blindarono dentro al museo del Milan. L’episodio suscitò un ripensamento in Ringhio, che decise di rimanere ed ebbe il tempo di aggiungere un altro Scudetto in bacheca prima di ritirarsi. La fine della carriera per Donnarumma è ancora molto lontana, ma ricordare l’episodio non potrebbe essere un ottimo pretesto per convincerlo a restare?
23 febbraio 2021. Una data che i tifosi biancocelesti attendevano trepidamente ormai da mesi. Una partita su di un palcoscenico che bramavano da anni, vogliosi di riviverne le emozioni. Stasera gli uomini di Inzaghi si apprestano ad affrontare il Bayern Monaco campione in carica, con la Lazio che torna a giocare la seconda fase della Champions League a vent’anni di distanza dall’ultima volta. Anni in cui i capitolini ne hanno vissute tante, alternando momenti belli e brutti, ma che hanno inevitabilmente scritto pagine importanti della storia laziale. Doveroso volgere uno sguardo al percorso che ha portato i biancocelesti a raggiungere questo traguardo.
Gli stadi chiusi ed un calcio senza tifosi
In “Splendori e miserie del mondo del calcio“ Eduardo Galeano scrisse che “giocare senza tifosi è come ballare senza musica”. Circa un anno fa, la pandemia scombussolò gli equilibri delle nostre vite e, spegnendo il coro del tifo, costrinse il mondo del pallone a una danza silenziosa, nel triste scenario degli stadi chiusi.
Quello che in un primo momento sembrava un provvedimento momentaneo, è oggi una realtà assodata, e il frastuono di voci che rimbombava negli stadi, appare come un’eco lontana. Sorge spontaneo chiedersi se, parafrasando Galeano, il ballo rappresentato dal calcio possa effettivamente avere la medesima resa con e senza la musica prodotta dai suoi aficionados. Dopo quasi dodici mesi di partite a porte chiuse, è giunto il momento di fare un primo bilancio: quali sono stati gli effetti dell’assenza di pubblico sul gioco?
Quello post-pandemia è senza dubbio un calcio più freddo, asettico, scevro delle sue magiche componenti rituali: il gremirsi dello stadio nel prepartita, con quel calore di passione che cresce a ogni giro di lancetta, le coreografie, le bandiere, le urla entusiastiche ma anche gli insulti rabbiosi, sono tutte pratiche liturgiche a cui lo sport più popolare del mondo ha dovuto rinunciare. Oggi i calciatori scendono in campo, disputano la loro partita e tornano a casa. Sono costretti a danzare con la stessa convinzione di prima, pur dovendosi immaginare un sottofondo musicale non più presente.
Quando dopo il periodo di pausa dovuto all’esplosione del virus la Bundesliga annunciava il suo ritorno col big match Bayern Monaco-Borussia Dortmund del 26 maggio, lo scetticismo era inevitabilmente diffuso: parte dei tifosi si mostrava disinteressata all’idea di un calcio monco, apatico, privo dello spirito dionisiaco incarnato dal rombo del tifo che risuona negli stadi. Le riserve iniziali appaiono ormai superate, e i calciofili sembrano essersi abituati a questa formula resa inevitabile da cause di forza maggiore: il calcio rappresenta per molte persone un piglio fondamentale a cui aggrapparsi, quasi una religione in cui riversare le proprie speranze e sfogare le proprie frustrazioni.
È per questo motivo che, nonostante la situazione di emergenza, il mondo del pallone – dopo alcuni mesi burrascosi – è andato avanti, rappresentando uno dei pochi segnali di continuità con il passato pre-pandemia. Il calendario è fitto sino all’inverosimile, gli stadi sono vuoti, le casse dei club piangono, ma il gioco, imperterrito, resiste e continua ad appassionare milioni di devoti. La sopravvivenza nel periodo delle fatiche pandemiche è l’ennesima dimostrazione della potenza irrazionale di questo sport; lo stesso sport che, negli anni della prima Guerra Mondiale, fece addirittura interrompere il conflitto tra unità tedesche e britanniche, le quali, dopo aver sancito la Tregua di Natale nel 1914, si dilettarono in una leggendaria partita di calcio nei pressi di Yrpes prima di tornare alle armi. Lo stesso facevano i Greci con la cosiddetta “ἐκεχειρία” (letteralmente, “mani ferme”), una tregua vigente nel periodo delle Olimpiadi, durante il quale cessavano inimicizie private e pubbliche. La storia dimostra che lo sport è parte integrante del patrimonio culturale di un paese, e forse si dovrebbe smettere di sottovalutarlo.
Per capire concretamente se e come il fútbol sia cambiato in assenza dei tifosi, occorre analizzare alcuni numeri. Un primo dato che spesso si ricollega all’assenza di pubblico è quello dei gol realizzati. Nella stagione 2019/2020, quella dell’esplosione del virus che ha reso inevitabile la disputa a porte chiuse delle ultime tredici giornate, sono state siglate 1154 reti. Si tratta di un numero considerevolmente più alto rispetto alle due annate precedenti, quando il conto si fermò a 1017 (2017/2018) e 1019 (2018/2019) gol segnati.
Per quanto un campione di sole tredici partite non sia sufficiente per dedurre una tendenza statistica, si può ipotizzare che parte dell’incremento realizzativo sia da ricollegare alla novità di un calcio a porte chiuse e alla minor attenzione difensiva dovuta alla condizione fisica precaria accusata dalle squadre dopo i mesi di stop. Altri sostengono invece che l’esplosione di reti sia dovuta a un fattore prettamente psicologico: la fase difensiva, fondata sulla concentrazione dei singoli interpreti, accuserebbe un difetto di attenzione per via dell’effetto di straniamento provocato dal silenzio tombale di uno stadio vuoto, che, privato delle voci dei tifosi, non incentiverebbe i giocatori a stare sul pezzo con la stessa efficacia di prima.
Si tratta di congetture lecite e rispettabili, che però non sono certo da considerare come verità assolute e incontrovertibili. Dalla stagione in corso, la prima disputata a porte chiuse sin dall’inizio, sembra trasparire una conferma del trend di prolificità: finora – 22ª giornata – i gol siglati sono 640: se venisse confermata la media realizzativa di questa prima parte di stagione – circa 29 reti a giornata -, si sforerebbe nuovamente quota 1100 gol, segno che, vuoi per la minor applicazione delle difese a stadi chiusi, vuoi per una Serie A tatticamente sempre più offensivista e meno speculativa, qualcosa sta cambiando.
Il Milan e le pressioni del tifo
Uno dei casi più estremi e dibattuti quando si parla del nuovo calcio a porte chiuse è senza dubbio quello del Milan. La squadra allenata da Stefano Pioli ha inanellato un’incredibile striscia di risultati utili consecutivi proprio dalla ripresa del campionato a maggio, aprendo un vero e proprio ciclo che sta trovando continuità nella stagione in atto. Sebbene parte del merito per la rinascita rossonera venga attribuita all’impatto di Ibrahimovic e al lavoro encomiabile di Pioli, spesso si fa notare come la perentoria crescita di giocatori come Davide Calabria e Franck Kessié sia da addurre alla minor pressione causata dall’assenza di spettatori.
Secondo tale tesi, l’enorme pressione a cui una tifoseria esigente come quella milanista sottoponeva i suoi giocatori, creava un disagio psicologico accentuato dalla giovane età condivisa da gran parte della rosa di Stefano Pioli. L’esempio più lampante per differenza di resa tra calcio pre e post Covid è quello di Davide Calabria. A maggio 2020, il classe ’96 era uno dei giocatori più presi di mira dai tifosi rossoneri: ogniqualvolta il pallone raggiungeva il suo raggio d’azione, dalla severissima tribuna rossa di San Siro si alzava un rumoroso mugugno. Quando si considera il calcio pre-pandemico, non si può ignorare quello che nel gergo viene definito il dodicesimo uomo. Non si può ignorare l’enorme difficoltà che deriva dal giocare in uno dei grandi templi del calcio con un costante e fastidioso brusio di disappunto che accompagna ogni tocco di palla.
In una recente intervista rilasciata ai microfoni di DAZN, Davide Calabria ha dichiarato:
Pensando alla giovane età, forse l’assenza del pubblico ci ha dato una mano, riusciamo a parlarci in campo, comunichiamo meglio.
Spesso si commette l’errore fanciullesco di considerare i calciatori alla stregua di eroi invincibili, lontani dai problemi e dalle insicurezze che affliggono i comuni mortali. Calabria è la dimostrazione di come anche per i giocatori, l’aspetto psicologico, la fiducia di chi li circonda e la consapevolezza in loro stessi siano aspetti imprescindibili. Il terzino italiano rappresenta oggi una delle colonne portanti del Milan di Pioli, e col ritorno del pubblico a San Siro, che ci si auspica sia il più rapido possibile, chissà che non possa chiudere un cerchio consacrandosi definitivamente. Il tifo, dopotutto, altro non è che un cuore che batte seguendo il ritmo dettato dal suo organismo, rappresentato dalla squadra: lento e irritabile quando il rendimento è sottotono, rapido e travolgente quando i giocatori lavorano in modo efficace.
Liverpool: effetti di un festeggiamento mancato
Un altro caso limite interessante da analizzare è quello della clamorosa flessione accusata dal Liverpool di Klopp. I Reds, attualmente sesti in Premier League, hanno subito in questa prima metà di stagione quasi il doppio delle sconfitte accumulate di quante non ne avessero accumulate nelle due annate precedenti: quattro sconfitte in campionato tra le stagioni 2018/2019 e 2019/2020, e sette in venticinque partite in quella in atto.
Se non si può certo ignorare l’estrema emergenza infortuni che sta lancinando i vicecampioni di Inghilterra da inizio stagione – su tutti quello del leader Virgil van Dijk -, all’origine della flessione dei vicecampioni d’Inghilterra sembrano esserci anche cause di natura psicologica legate all’assenza dei tifosi. A questo proposito, lo stesso performance psychologyst del Liverpool, Lee Richardson, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni in un’intervista con The Athletic:
Sì, è l’effetto del pubblico. Si tratta di una delle prime teorie di psicologia sportiva, elaborata a fine Ottocento da Norman Triplett. Il principio è che il pubblico intacca la performance di uno sportivo/atleta. Infatti, Triplett ha scoperto che più l’atleta è abile, più la sua performance trarrà giovamento dalla presenza di pubblico.
Già da queste dichiarazioni emerge un punto fondamentale: l’incidenza del pubblico sulla resa di una squadra sembra essere direttamente proporzionale alla forza, o quantomeno al momento di fiducia attraversato da quest’ultima. Più una squadra è forte, più i tifosi la rendono forte. Ciò suggerisce che in un caso come quello del Milan, quando un domani San Siro potrà tornare a riempirsi, gli stessi giocatori che prima della pandemia pativano la pressione del pubblico, acquisita una nuova consapevolezza grazie alle prestazioni a porte chiuse, potrebbero essere protagonisti di un ulteriore salto di qualità grazie alla spinta dei tifosi stessi. Richardson aggiunge che non si deve fare di questa teoria una legge, in quanto la sua validità dipende dall’intensità di connessione empatica tra tifoseria e squadra:
In una squadra come il Liverpool, è ovviamente un fattore. La connessione emotiva con i tifosi pesa una buona percentuale.
Un altro “punctum dolens” spesso trascurato quando si considera l’involuzione del Liverpool di Klopp è quello rappresentato dalla Premier conquistata nell’ultima stagione: quella del titolo nazionale era un’ossessione con cui i Reds convivevano dal 1990, anno di conquista dell’ultimo trofeo. Il fatto di aver dovuto festeggiare un’impresa di simile portata in assenza degli stessi tifosi e della stessa Kop -la leggendaria curva di Anfield – che hanno avuto un ruolo decisivo nel conseguimento di tale conquista, sembra aver provocato nei giocatori la stessa amarezza di un urlo di gioia strozzato in gola. Per lo straordinario lavoro fatto da Jurgen Klopp in quasi cinque anni, per cicatrici mai rimarginate come quella dello scivolone di Steven Gerrard contro il Chelsea che costò ai Reds il titolo nel 2014, per la cifra astronomica di 99 punti fatti, il Liverpool e i suoi tifosi meritavano un’altra celebrazione. Riguardo a questo punto, lo stesso Lee Richardson afferma:
Avrebbero dovuto correre sul prato di Anfield esponendo il trofeo di fronte agli spalti pieni. È stato un momento non adeguatamente scolpito nel tempo. Non è stato celebrato come avrebbe dovuto.
Ciò dimostra come le ferite psicologiche che segnano una stagione non siano necessariamente legate a disfatte non smaltite, ma anche a trionfi non abbastanza celebrati. Questo senso di insoddisfazione per una festa meritata e attesa per un ventennio, ma poi disertata per cause di forza maggiore, sembra tutt’ora attanagliare l’animo ricco di gloria sportiva, ma povero di memorie di festa dei giocatori allenati dal manager tedesco. Come direbbe Sorrentino, mai sottovalutare le conseguenze dell’amore.
I casi di Milan e Liverpool evidenziano l’influenza innegabile del tifo nel mondo del calcio. Ciononostante, per quanto non ci sia “nulla di meno vuoto di uno stadio vuoto”, come diceva Galeano, questo periodo anomalo ha dato dimostrazione del fatto che il mondo del pallone sia in grado di adattarsi a qualsiasi condizione pur di sopravvivere. Dunque, nell’attesa che la musica possa tornare a suonare, non resta che continuare a godere delle danze silenziose dei giocatori, che nel più anomalo dei periodi ci tengono attaccati a quella normalità pre-pandemia che tanto agogniamo e rimpiangiamo. Sì, si può ballare anche a casse spente.
I giovani talenti sono la partita giocata più interessante di questo campionato, e probabilmente anche i più discussi. Al di là del dibattito crescente sulla credibilità e la qualità che il calcio femminile sta acquisendo nelle ultime stagioni, un focus interessante sono le giovani che stanno vivacizzando il settore. Tra queste, un nome di spicco è quello di Benedetta Glionna, attorno alla quale nelle ultime settimane si è discusso di un possibile e auspicato ritorno alla Juventus Women.
Il campione del mondo in carica di scacchi, Magnus Carlsen, è norvegese. Con lui i Paesi dell’Europa Settentrionale hanno raggiunto per la prima volta i vertici di questo gioco, che tra le nevi e le aurore del Nord ha trovato terreno fertile. Eccezion fatta per la Finlandia, che ha sempre dato l’idea di avere il re sotto scacco. Anche se a dirla tutta, un Kuningas – come lo chiamano da quelle parti – i finlandesi l’avevano trovato: Jari Litmanen. Peccato che la sua scacchiera fosse un campo da calcio.
Molti son nati poveri, molti son belli, forti, leali. Pochi, eppur ci sono, sanno farsi il campo da soli e poi segnare. Ma soltanto lui, Adriano, è una forza della natura: “quella” forza della natura.
L’Argentina è da sempre riconosciuta come la patria del fútbol, da non confondere con il football anglosassone. Come in tutto il Sudamerica si pratica fin da piccoli il calcio di strada, l’essenza del gioco che si manifesta in difficoltà come un campo sconnesso, una porta fatta da un paio di maglioni buttati a terra, marciapiedi o tombini che si trasformano in avversari. Per questi motivi, i talenti che arrivano da questi paesi hanno sempre un qualcosa in più a livello tecnico, perché crescono in un contesto che moltiplica le abilità calcistiche.
Gli esperti di calcio sudamericano dicono di no. È sempre più chiaro che ci sia stata un’evoluzione tattica che ha migliorato il livello di gioco e la conoscenza di esso da parte dei calciatori; basti chiedere a Daniele De Rossi, giocatore tra i più intelligenti a livello tattico del recente passato in Italia, che ha confermato come il campionato argentino sia molto più preparato dal punto di vista tattico, di quanto credano gli stessi argentini. Non è un caso che stiano sbocciando tanti allenatori di alto livello come Gabriel Heinze, Sebastián Beccacece, Eduardo Coudet – che oggi sta sorprendendo la Spagna con il suo Celta Vigo -, o come la vecchia conoscenza del calcio italiano Hernán Crespo, recente vincitore della Copa Sudamericana col piccolo Defensa y Justicia e in procinto di passare al San Paolo.
Giovani, moderni e affamati. Sono sempre di più e sono sempre più preparati, seguendo la linea del mister più apprezzato del calcio argentino odierno: Marcelo Gallardo.
Gallardo, da Muñeco a Napoleón
Nato nel 1976, Marcelo Gallardo è stato una delle bandiere più recenti del River Plate: 11 stagioni in tre diversi momenti della carriera lo hanno portato nell’Olimpo, rendendolo un mito per tutti i Millonarios; gli esordi e i primi trionfi al fianco di Crespo, Francescoli e dei giovani Aimar e Almeyda, il primo ritorno dopo la campagna di Francia con il Monaco – dove ottenne la vittoria di campionato, Supercoppa e Coppa di Lega – ed il canto del cigno, dopo il ritorno nel campionato transalpino al PSG e l’avventura in MLS col D.C. United, prima di chiudere la carriera in Uruguay con il Nacional.
Un 10 vecchia maniera, di piccola statura ma col baricentro basso che gli permetteva di assorbire i colpi e di tenere il pallone vicino al piede: visione di gioco d’alta scuola, carisma da vendere – non un caso quando si viene cresciuti da Daniel Passarella – e conoscenza del calcio d’alto grado, avendo girato tra Europa, Nord America e Sudamerica. Proprio in Uruguay esordirà da allenatore, con il Nacional de Montevideo: prima di smettere aveva già iniziato gli studi per diventare mister, e scelse di chiudere la carriera in una società che gli permettesse di iniziare il suo nuovo percorso.
Una stagione al Nacional e un campionato vinto. Non male per un esordiente come El Muñeco. Così chiamano Gallardo in Argentina, per un volto e una statura che ricordano molto quelli di una bambola. L’esordio è di quelli che possono appartenere soltanto ad un predestinato, motivo per il quale nel giugno 2014 – due stagioni dopo l’addio al Nacional -, il River Plate non ha esitato un momento nell’affidare la panchina a Gallardo.
L’amore del River per Gallardo – e del Muñeco per i Millonarios – è un qualcosa che non sembra poter aver fine: i trionfi si susseguono, 2 Copa Libertadores, 1 Copa Sudamericana, 3 Recopas de América, 3 Copas de Argentina; manca praticamente soltanto il campionato nella bacheca di Gallardo come allenatore del River, ma le vittorie ottenute in giro per il continente lo hanno reso celebre non più come Muñeco ma come Napoléon, ossia come colui che riesce a tornare sempre vincitore dalle “campagne calcistiche” fuori da Buenos Aires.
Leadership, carisma, grande comunicatore con la stampa e con i giocatori, ma soprattutto una capacità innata nel trasformare il proprio gioco in relazione agli interpreti, cosa necessaria e fondamentale se si vuole sopravvivere a lungo nel calcio argentino e, a maggior ragione, all’interno di una stessa società.
Fondamenti tattici di una serie di successi
Il coraggio di proporre e la forza di cambiare. In Argentina è così, le rose cambiano, i talenti partono e gli allenatori devono trovare il modo di cambiare il vestito alle proprie squadre, a seconda delle risorse tecniche a disposizione che, purtroppo per loro, vengono ridotte all’osso dalle cessioni dei migliori giocatori, direzione Europa. Gallardo non ha mai avuto paura: da 7 anni è sulla panchina del River, siamo almeno al terzo ciclo del Muñeco che, senza alcun tipo di timore, ha modificato la squadra, rendendola sempre competitiva.
È difficile definire quale sia lo schieramento “preferito” di Gallardo: il tecnico del River non ha mai dato l’impressione di volersi adagiare su un solo modulo, ma preferisce di gran lunga conferire uno stile di gioco ben chiaro, che possa essere riproposto indipendentemente dalla posizione iniziale dei propri giocatori. I Millonarios hanno giocato con i tre in mezzo e i tre davanti, con il rombo a centrocampo e le due punte, con il classico 4-4-2 e nell’ultima stagione si è praticamente arrivati a cambiare la linea difensiva, passando a 3 dopo tante stagioni a 4.
Il sistema di gioco più utilizzato da Gallardo è stato sicuramente il 4-3-1-2, che al suo interno ha mostrato una serie di peculiarità che lo hanno reso tutto fuorché un semplice rombo. El Muñeco segue la direzione moderna del calcio, palleggia da dietro e sceglie di farlo principalmente con i due centrali ed il mediano che si abbassa, formando un rombo con il portiere: la densità in zona centrale permette ai due terzini di allargarsi e dare tanta ampiezza alla squadra, e alle mezzali di alzarsi in avanti. In fase di costruzione potremmo dire che il River gioca prevalentemente con un 2-3-2-3, qualcosa di molto simile a quanto sta mostrando Guardiola con il Manchester City, dove però le mezzali giocano praticamente alla stessa altezza del tridente, rendendo lo schieramento quasi un 2-3-5.
Palleggiare, palleggiare e palleggiare. Non è come molti “anti-tikitakisti” pensano: il River – come del resto quasi tutte le squadre che partono da dietro con la costruzione del portiere – muove le proprie pedine, sfrutta il palleggio per attirare gli avversari e sistemarsi tra le linee. Muovere il pallone dietro per preparare pazientemente un attacco veloce e tagliente. In sintesi, il palleggio non è affrettato, ma una volta che il pallone arriva sulla trequarti, si attacca velocemente l’area e con tanti uomini. Il possesso dalle retrovie è finalizzato ad un avanzamento collettivo della squadra, che ha l’obiettivo di riempire l’area avversaria con tanti giocatori, ossia avere più soluzioni possibili in zona porta.
In questa stagione, Gallardo ha anche sfruttato molto la difesa a 3, dimostrando dimestichezza nel cambiare modulo senza perdere per strada il proprio credo. Contro il Palmeiras, nell’ultima semifinale di Libertadores – persa nella doppia sfida -, Pinola, Díaz e Rojas erano i tre centrali, un solo mediano davanti alla difesa agiva da protezione (l’esperto Enzo Pérez), mentre alle spalle delle due punte Santos Borré e Suárez, giocano due esterni molto larghi (Montiel e Angileri) e due mezzali di qualità e con facilità di inserimento (De la Cruz e Nacho Fernández). Un 3-5-2 che in fase di possesso diventa un 3-1-4-2.
La modernità del calcio di Gallardo si vede anche nella fase difensiva: come oggi fanno tante squadre in Europa, il River che parte con il 4-3-1-2 si trova a difendere in fase di non possesso con il 4-4-2, dove il trequartista si abbassa sulla linea dei centrocampisti, mentre le mezzali si allargano diventando esterni di centrocampo. Con un modulo di partenza diverso, ma è quello che accade nella Juventus di Pirlo, che in fase di possesso costruisce col 3-5-2.
L’obiettivo quando la palla è agli avversari è quello di iniziare con una pressione alta e provare ad incanalare il possesso avversario in zone meno pericolose – il River orienta tanto il palleggio degli avversari nella zona dei terzini. Altrettanto ordinata è la ricerca della concentrazione difensiva nella zona centrale, quando arriva il lancio lungo avversario: spesso i terzini stringono accanto ai centrali, il mediano si abbassa e costruisce una gabbia attorno agli attaccanti e ai trequartisti degli avversari, nel tentativo di bloccare i giocatori che potrebbero verticalizzare o attaccare la profondità.
Sta per partire la campagna d’Europa?
Gallardo non sta portando in Sudamerica ciò che viene fatto in Europa, propone e diventa spunto per le squadre che osservano il calcio propositivo del River Plate. Dopo 7 stagioni di vertice in Argentina, è idea di molti che il totem millonario possa realmente tentare l’avventura in Europa: da anni si parla di un futuro in Liga, dove troverebbe un paese senza difficoltà linguistiche e dunque comunicative, e un campionato che accetta e accoglie il calcio propositivo che Gallardo ama.
C’è da aggiungere che, se fino a qualche anno fa erano le squadre di media classifica a tenere sul proprio taccuino il nome di Gallardo, oggi sarebbero addirittura le big. Il Real Madrid, stando ai giornali della capitale, mette sulla graticola Zidane un giorno sì e l’altro no, e più volte è stato proposto il nome del Napoleone argentino per una rifondazione blanca. Dall’altra parte, il Barcellona sembra avere un’idea di calcio più simile a quella del mister di Buenos Aires, e la grande capacità di Gallardo di rifondare e ripartire anche dai giovani potrebbe essere calzante con il lavoro che la Masia porta avanti ormai da almeno due decadi.
In Francia potrebbe provare a tornare al Monaco, un progetto sulla carta ambizioso ma che da anni ha subito una grossa frenata. Il PSG ha puntato su un altro argentino, mentre incuriosirebbe vederlo al Lione o al Marsiglia: la prima ha Juninho come DS e sarebbe un legame importante con un mercato improntato sul calcio del Sudamerica, invece l’OM, in cerca di un allenatore, potrebbe sognare ancora con un argentino dopo il regno di Marcelo Bielsa.
L’Inghilterra potrebbe essere un mondo molto, troppo diverso e nuovo per Gallardo, mentre in Italia si è ancora troppo distanti dall’idea di affidarsi ad un allenatore che viene da un altro continente: sarebbe in grado una squadra di A di aspettarlo, nel caso in cui inciampasse più volte nelle prime 10 giornate?
L’impressione è che prima o poi questo grande salto verrà fatto. Ma in questo momento i tifosi del River sono più che felici di tenere la loro bambola dentro il Monumental. E siamo certi che anche Gallardo sia altrettanto contento di continuare la sua grande storia d’amore.
Quest’estate, nel pieno della telenovela che vedeva Luis Suarez in procinto di vestire la maglia della Juventus, sul web ha iniziato a circolare un video nel quale l’attaccante al tempo del Barcellona, evidentemente appesantito, ciondolava goffamente durante una sessione di allenamento. Se quel corpo impacciato non avesse avuto un volto, difficilmente avremmo potuto dire che si trattasse di un calciatore professionista, ma il processo mediatico a cui l’uruguaiano è stato sottoposto è risultato un tantino esagerato.