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Che si trattasse di un altro allenatore, di una squadra o di un’istituzione, per gran parte della sua carriera Mourinho ha sempre avuto un antagonista ben definito. Lo scontro prolungato percorre la trama di un’infinità di racconti che hanno il portoghese come protagonista, dal gesto delle manette alle pungenti battute su Wenger e Conte, passando per la leale rivalità con Guardiola. Tutte questioni che hanno occupato un ampio spazio temporale e che si sono susseguite o sovrapposte l’un l’altra, mostrandoci di settimana in settimana un Mourinho tenacemente in contrasto con uno a turno dei suoi oppositori.  Nelle recenti stagioni però questo istinto da duellante ha assunto una dimensione marginale. Non è più lui, nella sua sfera personale, ad impugnare le armi per lanciarsi all’assalto di un’entità. Lontano dalle lotte di vertice, Mourinho pare infatti aver sviluppato una versione 2.0 di sé stesso

L’arrivo a Parigi è emozionante come sempre.  È una città che lo ha sempre affascinato. Sarà per la storia sanguinosa che ha avuto. Per la forza delle idee che l’hanno plasmata. Per l’arte che si respira in praticamente ogni suo angolo. Saranno tante cose, fatto sta che l’atterraggio nella capitale francese gli porta sempre un sentimento di elettricità. Una scossa di felicità al cuore.

Durante i festeggiamenti della sera del 15 luglio 2018, nello stadio olimpico Lužniki di Mosca, c’è un ragazzo che si distingue dagli altri. Non smania per prendere in mano la coppa e alzarla al cielo. Ma piuttosto aspetta in silenzio il suo turno, quasi cercando di evitare i riflettori mondiali che inevitabilmente quella sera sono anche su di lui. Si tratta di N’Golo Kanté, giocatore chiave nella formazione della Francia vittoriosa della Coppa del Mondo, e uno dei centrocampisti in assoluto più in forma di tutto il torneo.

Da sempre, l’Italia è una delle mete maggiormente prese di mira dai viaggiatori provenienti da ogni parte del mondo. Lo stesso concetto moderno di turismo nasce in relazione alla penisola italiana. Affonda le proprie radici nella pratica settecentesca del Grand Tour, un lungo viaggio che i rampolli delle ricche famiglie europee compivano alla scoperta dei luoghi di maggior bellezza e cultura del mondo, luoghi che in gran parte appartenevano proprio all’Italia. Questi giovani ragazzi dunque partivano da ogni angolo d’Europa e visitavano le più belle città d’arte e cultura italiane, col duplice obiettivo di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e di esperienze e di vivere gli ultimi anni della leggerezza giovanile, prima di iniziare a fare i conti con le incombenze dell’età adulta.

Era un 19 marzo 1996, Bordeaux e Milan si affrontavano per un quarto di finale di ritorno di Coppa UEFA in cui i rossoneri partivano da un doppio vantaggio conquistato a San Siro con le reti di Stefano Eranio e Roberto Baggio. Doveva essere una partita di ordinaria amministrazione, tanto più per una squadra allenata da Fabio Capello, ma nulla di ordinario avvenne quella sera a Parc Lescure.

In un’intervista concessa lo scorso ottobre sul canale Twitch de Gli Autogol, ad Alessandro Bastoni viene chiesto di commentare un momento simbolo della scorsa stagione, sia per lui come singolo sia per la successiva vittoria dello scudetto dell’Inter. Si tratta del lancio del difensore nerazzurro verso Barella al 52° minuto di Inter-Juventus, un perfetto passaggio a lunga gittata che ha tagliato il campo ed è arrivato al numero 23 dell’Inter, che ha completato il movimento e ha poi superato Szczesny per chiudere la partita sul 2-0. “C’è un momento simbolo della tua stagione in cui tu fai una giocata pazzesca, non da Bastoni” gli dice uno dei presentatori introducendo quella scena. Mentre scorrono le immagini, Bastoni risponde a tono: “Ma non da Bastoni perché, esattamente?”.

Colui che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Una delle massime espressioni del concetto di fine che giustifica i mezzi. Questo è Robin Hood, o meglio, la versione che n’è arrivata sino a noi, quella sopravvissuta e affermatasi nel corso dei secoli, la più fiabesca, sicuramente la più semplice da narrare, tutta luci e niente ombre. Una figura divenuta metafora in cui il Sassuolo sembra ormai essersi calato da qualche anno a questa parte, ma che mai era riuscito ad interpretare così bene come in questa stagione.

Menzionare contemporaneamente gli attributi “centravanti” e “serbo” nell’attuale congiuntura ci rimanda in maniera sistematica a Dušan Vlahović. Abbiamo imparato a memoria le cifre del suo passaggio alla Juventus, tutte le statistiche che lo accostano ad Haaland e recentemente anche il numero esatto di secondi che ha impiegato per segnare la sua prima rete in Champions League. Un insieme di informazioni che ci lascia in quel limbo tra stupore e ammirazione, nel quale continuiamo a rigirarci ad ogni nuova prodezza del 7 bianconero. Vlahović non è però il solo serbo incline a suscitare una tale reazione emotiva, poiché diversi chilometri più a nord il suo connazionale e collega Aleksandar Mitrović sta distruggendo di fatto la Championship.

L’illusione che porta con sé il nuovo giovane in rampa di lancio del calcio italiano è un qualcosa di atavico. Ogni anno, o anche meno, esce un nome su cui l’opinione pubblica si esprime fortemente, assegnandogli l’etichetta del predestinato. La maglia azzurra, vera ossessione di quasi tutti noi, aspetta sempre qualcuno. Lo stiamo sperimentando quest’anno con Lorenzo Lucca, ci siamo passati di recente con Kean e meno di recente siamo rimasti scottati nell vedere che fine ha fatto Macheda. Ma durante la mia adolescenza, nonostante fosse passato pochissimo tempo da un Mondiale vinto, il Messia sembrava essere Giuseppe Rossi.

Mattia Zaccagni è stato acquistato dalla Lazio nell’ultima ora dell’ultimo giorno del mercato estivo. Il suo nome è spuntato al termine di una giornata convulsa in cui la dirigenza biancoceleste ha mosso mari e monti pur di regalare Filip Kostic a Maurizio Sarri, non riuscendo però a vincere il braccio di ferro con l’Eintracht Francoforte. In quella che è sembrata un’operazione di ripiego, la Lazio ha quindi versato, tra parte fissa e bonus, 9 milioni nelle casse dell’Hellas Verona per assicurarsi le prestazioni del numero 10 scaligero.

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