La carriera di un calciatore è fatta di momenti. L’esordio, il primo gol, il primo assist, il primo giallo, magari doppio, il primo trofeo sollevato. Non tutti destinati a divenire realtà, ma ciascuno oggetto della fantasia, dell’immaginazione. Nello spettro delle possibilità ognuno di essi assume forma, seppur di conseguenza poi questa non implichi consistenza. Tra tutti questi ve n’è uno che tuttavia fatica ad accedere alle stanze della nostra mente, il momento del ritiro. “L’inizio include già, nascosta, la fine“, eppure concepire il finale rimane il momento più complicato per ogni trama, ancor di più qualora questo giunga in maniera inaspettatamente anticipata, più infausta di quanto avremmo potuto credere, o sperare. Chissà se El Kun Aguero, che ieri ha detto ufficialmente addio al calcio, e a cui questo articolo vuole rendere omaggio, abbia mai immaginato che la parola fine sulla sua carriera potesse essere scritta in questo modo.
Amandoti
di Matteo Speziale
Parlare (anzi scrivere) di Aguero è un po’ parlare della mia adolescenza. Sono sempre stato fan delle opinioni un po’ hipster, un po’ unconventional. L’amore per il Kun è nato molto più per andare contro chi eleggeva solo Messi nelle vesti di nuovo fenomeno argentino. Ma questo, quando hai quattordici/quindici anni, non lo razionalizzi. Anzi, lo radicalizzi. E così, guardando da sempre (forse troppo) calcio internazionale, durante il mio primo liceo (stagione 2008/09) mi (auto)convinsi: il prossimo fenomeno del calcio sudamericano sarà Aguero. All’epoca giocava con l’Atletico – e si parla dell’Atleti ante-cholismo -, era in coppia con Forlan e nei tornei di PlayStation organizzati tra compagni di scuola ero sempre l’unico a scegliere i Colchoneros. L’unico che non doveva ricorrere a noiosi sorteggi o dispute per avere la sua squadra.
Mi affezionai a quell’attaccante che giocava in un 4-4-2 e sembrava fatto apposta per stare in coppia con Forlan. Erano estremamente tecnici, l’uruguagio più prolifico, l’argentino più estroso. Guardare Aguero con continuità, sperare che segnasse, che facesse una giocata importante ogni domenica per riuscire ad alimentare la mia tesi mi portò a tifare per l’Atletico quasi come una seconda squadra. Mi portò a seguire l’Europa League dell’anno successivo; a farmi invitare a casa di amici e parenti che avessero Mediaset Premium per seguire fino in fondo il cammino di una coppa (minore) che doveva essere vinta per azzardare ancora un paragone con Messi, già vincitore della Champions League. Quando l’Atleti quella coppa la vinse effettivamente – in una bellissima finale col Fulham – cominciai a percepire un senso di rassegnazione verso il paragone con Leo. Cominciai a non guardare più i risultati di Aguero con l’aspirazione di arrivare così in alto, ma solo con l’amore riservato alle persone a cui teniamo.
L’amore che, un anno dopo ancora, mi portò a diventare anche un simpatizzante del Manchester City. A seguire ancora un’altra squadra quasi come se fosse la mia. Tempo fa in giro sui social trovai una definizione azzeccata per questo modo di fare: tifoso girasole. In ogni squadra andava il Kun, io diventavo se non “tifoso” quantomeno simpatizzante. E il Manchester City era lontano dal mio “modello”: era il tempo in cui non sembrava una squadra con un progetto ma solo una raccolta di nomi, messi in un frullatore per cercare di raggiungere in tutti i modi al risultato. Ma l’amore per il Kun era più forte. Ha trasformato la mia diffidenza verso il City, ha cambiato la mia concezione di Guardiola, mi ha portato a disprezzare (calcisticamente) Higuain.
Come ogni amore che si rispetti ha portato in dote con sé tanti altri piccoli sentimenti accessori. Se ho amato altre cose fuori dalla mia squadra del cuore, lo devo a lui.
“AGUEROOOOOOOO”
di Danilo Budite
“Today is gonna be the day”. Così inizia la più famosa canzone degli Oasis, Wonderwall, e così è iniziato con tutta probabilità il 13 maggio 2012 di Sergio Aguero. Arrivato al Manchester City dopo la sua favolosa esperienza all’Atletico, alla sua prima stagione in Inghilterra guida i Citizens in una ferrata lotta al titolo coi cugini in rosso, che si concretizza, nel modo più assurdo possibile, all’ultima giornata di campionato. La storia della prima Premier del City degli sceicchi e dell’Aguero moment è universalmente nota: Sky Blues sotto di una rete contro il QPR, poi il pareggio di Dzeko al 92’ e infine quello storico gol di Aguero al 94’ che permette al City di scavalcare il Manchester United e di laurearsi campione d’Inghilterra.
Quello, quel gol di Aguero, quel momento indimenticabile, è il primo mattone su cui poi è stata costruita una delle squadre più vincenti e forti degli anni duemila. Quel giorno doveva essere, ed è stato, il giorno e Aguero lo sapeva, perché l’ha sempre saputo prima di tutti. Ora che in modo improvviso e a dir poco triste la carriera da calciatore dell’argentino arriva alla propria conclusione, il Kun lascia un’eredità importantissima. Non tanto quel gol, o i complessivi 260 con la maglia dei Citizens. Non i trofei, le giocate, la bellezza che ha mostrato in campo. Ma la capacità di credere e di amare. Ciecamente, con forza, credere nel poter raggiungere i propri obiettivi. Nel poter concretizzare i propri sogni. Perché Aguero è il ritratto della fede, ha creduto nel Manchester City, in una squadra che prima di quel suo storico gol non vinceva il titolo in Inghilterra da 44 anni. Una squadra costruita a tavolino per vincere tutto, ma che ha iniziato a farlo proprio grazie a quel ragazzo argentino che ci ha creduto fino all’ultimo. Anche quando tutto sembrava perso.
Da quel 13 maggio 2012 a oggi, il Manchester City ha vinto 4 Premier, una FA Cup, 6 coppe di Lega e tre Community Shield. Da quel 13 maggio 2012 a oggi, frotte di campioni hanno vestito la maglia dei Citizens. Eppure, nessun trofeo e nessun giocatore sono rimasti nel cuore dei tifosi più di quella Premier e del Kun. Ecco cosa ci lascia in eredità Aguero: la forza di credere che, anche laddove sembra non esserci spazio, l’amore rimane la forza più potente che esista al mondo. E nessuno ha provato ciò che ha provato Aguero per il suo City.
Ode al pragmatismo
di Federico Sborchia
Nel ricordare Sergio Agüero spesso si prendono quattro numeri: nove, tre, due, zero. Minuti e secondi, un momento in cui la storia del Manchester City cambia per sempre. Quei minuti e quei secondi hanno una valenza unica nella memoria collettiva dei tifosi del Manchester City e segnano l’esatto momento in cui il mondo si accorge che a Manchester forse non c’è solo lo United.
Io invece ho scelto di fare un passo indietro, a sette mesi prima di quel momento. A Old Trafford va in scena il primo derby della Premier League 2011/12. Poco dopo l’ora di gioco, sul risultato di 0-2 per il Manchester City, Milner serve sulla corsa Micah Richards che riceve palla dentro l’area e di prima gira un piatto destro al centro; la palla passa tra le gambe di un Evra troppo molle e finisce la sua corsa sul destro di Agüero che, ormai dentro la porta, non può che segnare nonostante un disperato intervento di Phil Jones. In questo esatto momento si materializza l’inferno dei diavoli rossi: dopo quel gol ne arriveranno altri quattro, tre saranno del Manchester City che uscirà dal campo con un 1-6 la cui impronta rimarrà incisa a fuoco nella storia del club e della Premier League tutta.
In quel gol, all’apparenza banale, c’è tutta la carriera di un giocatore la cui vita è stata sempre rivolta a un solo momento: il gol. Per cogliere la grandezza di un centravanti è utile soffermarsi sul numero di gol (420 sono quelli del Kun) ma diventa necessario osservare come questi sono arrivati: Agüero è stato maestro incontrastato nel togliere tutto ciò che al suo obiettivo non era funzionale. Se uno dedica tempo a vedere i suoi gol noterà come tutti sembrino uguali tranne che per un qualcosa di quasi impercettibile; un tocco più o meno sporco, un tiro più o meno affrettato, un dribbling in più o in meno. Ciò che non cambia mai è l’impressione che non ci fosse un modo più facile di fare quel gol.
In un calcio che costantemente propone dei centravanti dalla tecnica mostruosa, capaci di trovare la porta in modi assurdi e spettacolari – su tutti Kane, Lukaku e Lewandowski – Agüero ha rappresentato la via della semplicità, di fare il nove con il fisico del dieci e di ridurre a zero ogni tocco, giocata o movimento che non sia funzionale. Proprio in questa funzionalità razionale nella sua irrazionalità, ho trovato ciò che mi ha fatto amare il Kun come pochi altri al mondo.
Lontano dagli occhi
di Nicola Boccia
No Kun, non tu, non così. Ancora una volta Kun, mi deludi, ancora una volta mi lasci solo con le mie false speranze. E la sai una cosa Kun? Io per questo un po’ ti odio. Ti odio per quello che mi sembravi aver voluto promettere, e che poi non hai mai mantenuto. Ti odio perché lo hai messo in secondo piano, tenendolo sempre più nascosto man mano che gli occhi del mondo si accorgevano di te, fino a lasciarne intravedere solo qualche piccolo spiraglio in rare, preziosissime occasioni. Hai sacrificato l’estetica in nome dell’efficienza, pur conservando tracce del bello che ad occhio attento non possono essere sfuggite, questo devo riconoscertelo.
Con il passare degli anni hai cancellato tutti gli aspetti superflui del tuo gioco, tutte le imperfezioni, Tutto in nome del gol. Processo perfezionato fino a giungere ad una naturalezza disarmante. Una facilità di esecuzione per la quale ci è voluto poco a dare per scontata, come se fosse la cosa più semplice di questo mondo. D’altronde nell’era di Messi e Ronaldo dove lo straordinario è diventato ordinario, dove non basta neanche avere due stagioni da extraterrestre per vedersi consegnare il giusto riconoscimento – chiedere a Lewandowski per ulteriori delucidazioni – figuriamoci se potrebbe mai bastare superare i 400 gol in carriera in poco più di 700 partite a renderti merito.
Ecco perchè ti odio Kun. Perché hai messo da parte quel ragazzo dell’Independiente che anche a costo di qualche errore, di risultare imperfetto, portava in campo quella serie di sfumature che io tanto amo. Forse non sempre utili, qualche volta effimere, ma anche per questo tremendamente belle. E così facendo, diventando quasi perfetto in quello che era il tuo compito, hai dato modo a tutti di darti per scontato. Di sottovalutarti paradossalmente.
Ma in fondo ti odio per il semplice fatto di averti amato troppo, soprattutto ora che non avrò più modo di vederti gonfiare la rete ancora una volta. Inafferrabile sentenza. Ciao Kun, animo.
Meglio tardi che mai
di Lorenzo Masi
Il mio rapporto con il Kun Aguero è davvero molto particolare, perché parte da un apprezzamento caratteriale piuttosto che calcistico. Mi spiego meglio, quando il Kun metteva a ferro e fuoco le difese di mezza Spagna con il suo Atletico Madrid non avevo ancora i mezzi per seguire capillarmente gli eventi, né forse la voglia. Ho quindi i primi reperti del bomber argentino a partire dal suo arrivo al Manchester City, una squadra che avevo per partito preso tacciato di anti calcio. Ricordo di un ragazzo della mia scuola che spesso, giù nel piazzale del mio liceo, faceva educazione fisica con la maglia numero 10 del Manchester City ai tempi griffata Umbro con su scritto “Kun Aguero”. “Facile essere la stella del Manchester City”, dicevo ai tempi. Ci avevo capito ben poco, soprattutto della carriera del ragazzo di Buenos Aires.
Arriverò a comprendere la difficoltà nel partire dal proprio paese così giovane quando per motivi di studio mi trasferirò in Francia a soli 19 anni. Chissà come dev’essere stato complicato mantenere le aspettative di un club che aveva investito 25 milioni di euro per prelevarti dall’Independiente. Detto questo, il mio rapporto con Sergio Aguero stenterà a partire in quegli anni: sarà un viaggio a Buenos Aires ad aiutarmi a comprendere un certo tipo di cose.
Di ritorno da un Independiente-Banfield nel febbraio 2018, il mio amico Bauti, tifosissimo del Rojo, esclama “magari il Kun vince la Champions col City e poi torna qui!”. Non mi ero mai reso conto di quanto dalle parti del Libertadores de América, uno stadio che ha aiutato a rinnovare con ingenti investimenti, Aguero fosse idolo nonostante la partenza prematura. Con gli anni che avanzano e la tecnologia che fa gli stessi passi avanti del calcio, seguire l’Argentina e i suoi protagonisti durante i ritiri diventa sempre più facile ed appassionante. Ho modo di vedere il Kun uomo squadra, quello del mate con Messi, della cumbia con il Papu Gomez e Nico Otamendi, quello attivo durante l’asado per il compleanno della Pulce nel ritiro durante la Copa America di quest’estate.
Ecco perché il periodo calcistico in cui mi ritrovo a seguirlo molto di più rispetto al passato è proprio quest’ultimo di passaggio a Barcellona. Prima nel sognarlo con Messi, poi a prescindere nel vederlo in blaugrana segnare una caterva di gol per rivendicare a tutti la sua importanza a prescindere dagli eventi. Nel mentre, il suo ritorno su Twitch dopo un trionfo storico con la nazionale diventano epici, in particolare con un episodio in cui racconta del suo arrivo in Catalogna e di come gli sia stato difficile capire la circolazione urbana nel centro città. Con carisma, umore e normalità, aspetti che lo hanno reso amato e amabile da tutti. Sicuramente il gol di Aguero che mi ha reso più felice è l’ultimo, contro il Real Madrid. Per me rappresentava il fatto che finalmente avrei potuto seguire e godere delle giocate dell’ex City. I gol e le giocate si recuperano, l’importante è aver capito l’essenza di un crack. Gracias por todo Kuni.