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SESTO UOMO

Sesto Uomo: James Harden, OKC Edition

James Harden non può prendere da solo questa decisione. Mi concentro solo nel giocare, e voglio farlo con i Thunder. Mi sento a casa e la squadra è speciale: i miei compagni sono diventati la mia famiglia. Possiamo fare grandi cose: vedremo.

Già, James: vedremo. Con il senno di poi è sempre facile sparare sentenze, come fossero triple sul parquet del Toyota Center di Houston, ma cosa sarebbe potuto essere? Tutto, dall’alchimia con gli altri due alla concreta possibilità di andare alla caccia di un titolo che, fino ad ora, non sei mai riuscito a sollevare. Certo, il destino ti avrebbe accolto in braccia differenti, sicuramente non grandi abbastanza da poter reggere il peso di un MVP; qualche sassolino dalle tue Adidas, però, avresti potuto togliertelo.

Passo indietro (potete farne anche due o tre, vista la benevolenza della classe arbitrale statunitense del recente passato). 26 agosto 1989: nel giorno della liberazione di Parigi da parte di Charles de Gaulle nel ’44 e dell’apertura delle Olimpiadi di Monaco nel ’72, nasce James Edward Harden Jr. Ah, nello stesso giorno, nel 1498, a Michelangelo Buonarroti viene commissionata la Pietà: dev’essere un’occasione cronologica importante in cui aprire per la prima volta gli occhi, in questo caso tanto vispi quanto enigmatici.

Bisogna porre fin da subito un asterisco, però: il nome scelto per il neonato rimarrà burocraticamente tale negli anni, ma il diretto interessato non vorrà sentir parlare di Jr: papà è una figura da rimuovere nel database del proprio trascorso personale, così controversa e ricca di notti in gattabuia sul curriculum. Ma torniamo a James, sempre con quello step-back che tanto gli è caro.

Arizona

Nasce a Los Angeles, laddove i flash delle macchine fotografiche passeggiano a braccetto con la brezza che arriva dal Pacifico. Come spesso accade in storie del genere, però, la sua adolescenza trascorre nell’ordinaria routine di un ragazzo afroamericano negli Stati Uniti a cavallo tra il secondo ed il terzo millennio; mentre il mondo si interrogava sul bug che mandava nel pallone (non a spicchi, attenzione) il sistema di elaborazione dati con l’arrivo del 2000, James pensava al campo. Quello con il vezzeggiativo finale, di quelli che trovi in ogni angolo di una qualsiasi cittadina americana, figuriamoci sulla West Coast.

Va ad Artesia High School, nel bel mezzo di Lakewood, una contea losangelina tra le migliori nel labirinto cittadin; dista una ventina di miglia dallo Staples Center, arena dove giocherà sempre da avversario. Qualche indizio sul futuro, però, inizia ad arrivare già dai primi passi nei corridoi scolastici e, soprattutto, nei primi parquet frequentati in presa diretta: nel 2006, infatti, ha condotto al trionfo del torneo Adidas Super 64 i suoi Pump-N-Run Elite. Un nome ed una garanzia, vista la cavalcata conclusa con la vittoria contro i Southern California All-Stars, con un giovane Kevin Love a roster.

Poi, però, arriva il momento della prima grande scelta: opta per Arizona State, dove le chiavi della squadra non possono che essere nelle sue mani, che sanno di magico fin dai primi passi nelle arene NCAA. Parte a razzo: nella prima stagione con fuori dalla California, colleziona 17.8 punti, 5.3 rimbalzi e 3.2 assist di media a partita, con ottime percentuali dal campo (57.6% da due e 40.7% da tre), nonostante un rivedibile 75.4% dalla lunetta.

Dopo aver conquistato il titolo della Pacific-10 Conference l’anno precedente all’arrivo di Harden, la squadra allenata da Herb Sendek non riesce ad arrivare oltre la quinta posizione: niente March Madness, dunque. Quel James con il 13, però, ha qualcosa di speciale: se ne accorgono anche dall’altra parte del Paese, dove un giornale della Grande Mela decide di ritrarlo in copertina, assieme alla stella della compagine femminile di Arizona State, Briann Jolie January. Dovreste averne sentito parlare di questo magazine sportivo…

James Harden SI
17 novembre 2008 – James Harden su Sports Illustrated (Fonte foto: SI Covers)

Questo, però, vuol dire tutto come vuol dire niente: non sarà di certo una comparsata su Sports Illustrated a cambiare la carriera di un giocatore, a meno che quel qualcuno non si chiami LeBron James e non sia stato raffigurato con un “THE CHOSEN ONE” a caratteri cubitali. Qualcosa, però, vorrà pur significare: il ragazzo ha la stoffa di quello speciale, e lo dimostra nell’annata successiva: i punti diventano 20.1, i rimbalzi rimangono pressapoco uguali (5.6 rispetto ai 5.3 della prima stagione al college) e gli assist aumentano di un’unità, visto che nel 2008/2009 ne colleziona 4.2.

Arriva anche una prima soddisfazione personale, puramente statistica ma da mantenere intatta nel cassetto dei ricordi: 13 giorni dopo essere apparso in buona parte delle edicole sul suolo americano, Harden flagella gli UTEP Miners con 40 punti (ci si abituerà). La seconda grande scelta arriva, ma questa volta lui deve solo rendersi disponibile: è la notte del Draft NBA, 25 giugno 2009 al Madison Square Garden.

“James Harden, from Arizona State University…”

La prima chiamata è obbligata: 22.7 punti e 14.4 rimbalzi non ce li si può lasciar sfuggire, tant’è che i Los Angeles Clippers chiamano il nativo dell’Oklahoma Blake Griffin. I Thunder ci hanno sperato fino all’ultimo, ma alla terza scelta pescarlo sarebbe stato letteralmente impossibile: chiamare un figliol prodigo al primo Draft nella storia della franchigia (i Seattle Supersonics erano spariti già nell’anno precedente, ma al Draft 2008 Russell Westbrook era stato selezionato dalla franchigia dello Stato di Washington, la cui denominazione scomparve ufficialmente il 2 luglio 2008).

Alla seconda i Memphis Grizzlies compiono uno dei suicidi cestistici più noti della storia recente: con a disposizione ancora il talentuosissimo iberico Ricky Rubio, il figlio d’arte Stephen Curry, DeMar DeRozan e, ultimo ma non per importanza, un James Harden ancora sbarbato, si fiondano su Hasheem Thabeet, primo giocatore tanzaziano nella storia dell’NBA. Alla terza scelta, però, gli Oklahoma City Thunder ritrovano la bussola; David Stern pronuncia il nome ed il college di provenienza: James Harden raggiunge Kevin Durant e Russell Westbrook.

James Harden e David Stern
James Harden e David Stern la notte del Draft 2009 (Fonte foto: Sky Sports)

Tutto vero: Sam Presti, General Manager della franchigia più giovane (perlomeno nelle idee) dell’intera Associazione, ha trasferito l’essenza dell’organizzazione in un roster che, a tutti gli effetti, si candida ad uno dei più promettenti dell’intera NBA:

  • Il già citato Kevin Durant, prima scelta assoluta nel 2007, è un perfetto collage tra il tiro, la tecnica e la velocità di una guardia e l’apertura alare, oltre alla verticalità, di un’ala grande;
  • Westbrook, numero 0, secondo ad atletismo solo alla prima scelta assoluta Derrick Rose tra le matricole 2008/2009, “Rookie of the year” nella sua prima annata nella Lega, è una dinamite pronta ad esplodere;
  • Serge Ibaka porta fisicità sotto canestro, senza considerare l’apporto dei vari Jeff Green, Nenad Krstić e Thabo Sefolosha.

Ah, e poi c’è lui, il ragazzo venuto dalla California, plasmatosi in Arizona e pronto a consacrarsi in Oklahoma. Il Jack Kerouac dei Thunder è pronto per essere l’arma in più in uscita dalla panchina; insomma, una Riserva di Lusso non indifferente. Detto, fatto, tanto che nelle 76 gare disputate in stagione non parte mai nel quintetto titolare; nonostante ciò, 22.9 minuti di utilizzo (niente male per un rookie), in cui colleziona medie da 9.9 punti, 3.2 rimbalzi e 1.8 assist. La nota dolente riguarda la percentuale dal campo: per una guardia, il 40.3% rischia di essere una voce fin troppo rivedibile.

Dalla sua, però, ha l’attenuante dell’esperienza e, soprattutto, dell’età: nonostante sia passato per un biennio dal college, infatti, gioca la sua prima stagione ad appena 20 candeline spente sulla torta di compleanno di fine agosto, mentre Scott Brooks plasmava la sua opera maestra per i suoi Thunder, un utilizzo degli elementi a sua disposizione degno del miglior Michelangelo.

Si va per la conferma: Harden parte ancora dalla panchina nel suo secondo anno in NBA (5 partite da titolare), ma le statistiche vanno in crescendo: 12.2 punti ed il 43.6% dal campo, che diventa un 47% ai playoff, dove i giovani Thunder si arrendono davanti agli esperti Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki, successivamente vittoriosi in finale contro i primi Miami Heat di LeBron James. In particolare, in quella stagione Harden piazza una prestazione da 26 punti, 6 rimbalzi e 4 assist (con il 66.7% dal campo) contro Phoenix, contro cui si ripeterà l’anno successivo: semplicemente la sua miglior gara dall’arrivo in Oklahoma, con 40 punti, 7 rimbalzi, 3 assist, con un ottimo 12/17 dal campo, di cui 5/8 da tre punti.

Il ruolo nelle rotazioni di squadra è sempre lo stesso, ma ora si parla di lui in maniera differente. Dopo la trade che ha portato Jeff Green e Nenad Krstić (titolari, fino a quel momento) ai Boston Celtics, la sua dimensione nei meccanismi dei Thunder è vigorosamente cambiata, toccando vette mai raggiunte nelle prime due annate nel campionato più ambito al mondo.

Pur partendo dalla panchina, i minuti diventano 31.4 (secondo solo al campione NBA Jason Terry), ma ciò che sorprende di più è il miglioramento in fase offensiva: si prende più responsabilità, che si traducono in un numero maggiore di tiri tentati (10.1 a partita invece che 8.3) e di punti raccolti (16.8, conditi da 4.1 rimbalzi e 3.7 assist). Insomma, è un altro James; forse (anzi, sicuramente) lo è anche per gli avversari, che iniziano a prendere le misure con questo 21enne della California.

I Thunder sono impegnati in una serie di gare contro compagini della Pacific Division. Prima Phoenix, con la gara da capogiro di una versione embrionale del Barba, poi Sacramento, dove i punti a referto di Harden si dimezzano, seppur con un’ottima prestazione corale e personale (vittoria a +11, 6/12 dal campo e 100% dalla lunetta), ed infine i Los Angeles Lakers, privati ad inizio anno del papabile approdo di Chris Paul in gialloviola.

Siamo a poco meno di un paio di minuti dalla conclusione della seconda frazione di gioco, quando Metta World Peace, al secolo Ron Artest, fa di tutto pur di andare in controtendenza con il nome che porta sulla schiena. È 45-48 per OKC, quando il futuro giocatore di Cantù vola a schiacciare contro Serge Ibaka, che non riesce a fermarlo: tutto normale, no? Beh, ordinariamente sarebbe una classica situazione da gara combattuta: chi ha schiacciato (in questo caso l’ex Bulls) si carica e torna nella sua metà campo. Sì, peccato che decida di “esultare” allargando il gomito destro, con Harden attaccato a lui, pronto a ricevere palla per il possesso successivo.

James Harden dolorante a terra dopo la gomitata di Metta World Peace
James Harden dolorante a terra dopo la gomitata di Metta World Peace

Il risultato è semplice, veloce ed intuitivo: commozione cerebrale per il 13 ospite, espulsione e successiva squalifica per 7 gare per il 15 casalingo. Lo Staples Center si ammutolisce pochi istanti dopo essere sobbalzato per il bel gesto tecnico di Metta; la gomitata alla “Macho Man” Randy Savage, senza ring né corde, però, è davvero troppo.

Harden, al contrario dell’avversario, sta fuori solamente per sei giorni, saltando le due sfide interne contro Sacramento e Denver. Oklahoma, però, è convinta di poter far bene ai playoff. Perché? Semplice:

  • Ha il miglior marcatore della stagione: Kevin Durant, con 28 punti di media a partita;
  • Ha il miglior stoppatore della stagione: Serge Ibaka, con 3.65 (!) stoppate di media a partita;
  • Si è classificata seconda ad Ovest, a tre vittorie (47 totali) dai primi classificati, i San Antonio Spurs.

Ciò che conta maggiormente, però, lo si può osservare qui, in basso:

James Harden con il premio di “Sixth Man of the Year

Oklahoma City ha il suo Sesto Uomo, che a stagione regolare conclusa diventa l’uomo perfetto in uscita dalla panca anche per un gruppo ristretto di giornalisti ed analisti sportivi. È la celebrazione pubblica di un miglioramento che non si nota solo dalle statistiche, ma anche dalla cattiveria agonistica e dalle responsabilità prese sul parquet della Chesapeake Energy Arena; comparando i dati della sua seconda e terza stagione in NBA, avrebbe potuto essere eletto anche “Most Improved Player”, senza destare troppo scalpore.

16.8 punti (+ 4.6), 4.1 rimbalzi (+ 3.1) e 3.7 assist (+ 1.6) lo consacrano come il miglior ingresso a gara in corso dell’intera Associazione: numeri da giocatore chiave, senza dimenticarci della sua essenza da terzo violino. È quando il gioco si fa duro, però, che i duri iniziano a giocare; ciò che si chiedono in Oklahoma, prima della fase finale 2011/2012 è se questi Thunder siano duri abbastanza.

L’inizio è promettente, considerando la portata degli avversari che il tabellone propone al primo scontro della post-season: si tratta dei campioni uscenti, i Dallas Mavericks. I texani, però, sono consapevoli di aver vissuto un’annata da once in a lifetime, tant’è che il nuovo che avanza riesce ad avere la meglio sul vecchio che si ritrova: 4-0, con un Harden ritrovato meglio di prima. In gara-4, per lui sono 29 punti, di cui 15 nell’ultimo, decisivo, quarto. E poi i Lakers, questa volta senza gomitate di chi si professa pacifico dentro ed un po’ meno fuori: altro giro, altra corsa, lasciando per strada una sconfitta. 4-1, si avanza.

In finale di conference, lo scontro che tutti attendevano: gli Spurs di Gregg Popovich, che due anni più tardi saranno campioni NBA, contro i Thunder di Scott Brooks. Sono i progetti agli antipodi, chi rinnova la fiducia ai veterani contro chi cerca di porre le basi per il futuro, sperando che il castello di carte non incontri un soffio di vento dal resto della Lega; Oklahoma va sotto 0-2, ma la tenacia dei suoi riporta le cose in parità. Serve l’uomo in più per superare lo scoglio posto dai texani, serve il Sesto Uomo:

20 punti, 4 rimbalzi, 3 assist, 2 palle recuperate e 0 palle perse, con 24 di valutazione ed il 54.5% dal campo. Gara-6 è tutta Kevin Durant: 34 punti (9 in più di Westbrook e 18 in più di Harden) annientano San Antonio, che non riesce a raggiungere i finalisti preannunciati. Dalla Florida, LeBron & Co.: è Miami Heat-Oklahoma City Thunder.

Ricordate? Essere duri: difficile compensare con l’età un fervore tale da condurti dritto ad un anello NBA, anche se in squadra hai un maestro zen del calibro di Derek Fisher. Erano forti, eccome, ma probabilmente non ancora adatti per un palcoscenico simile; potete anche aggiungere un suffisso per far diventare quel “forti” un superlativo, ma la sostanza non cambia. Nonostante una prima, illusoria, vittoria sul campo di casa, Miami prende il largo.

1-1, 1-2, 1-3 ed il colpo del K.O.: Harden e Westbrook fanno 19, Durant 32, ma la sconfitta dell’anno precedente ha insegnato a Miami l’importanza di non sprecare delle occasioni fin troppo ghiotte. Finisce una serie, una stagione e, pochi mesi più tardi, il 27 ottobre 2012, una dinastia destinata a grandi cose; quel “vedremo” dichiarato ai microfoni di Marca è un punto di domanda che rimane stampato sul volto dei tifosi dei Thunder fino all’ormai celeberrimo tradimento di Durant nel 2016.

Harden, Durant, Westbrook
La delusione di Oklahoma City dopo l’eliminazione in casa di Miami (Fonte foto: Ronald Martinez/Getty Images)

Il Sesto Uomo ha bisogno di non reggere più uno dei violini meno attraenti della squadra: vuole uno Stradivari, che prende le sembianze dei nuovi Houston Rockets. Harden vincerà un MVP e sfiorerà in diverse occasioni una stagione vittoriosa anche ai playoff, ma, probabilmente, tutto ciò non sarebbe successo senza la gavetta in quel di Oklahoma. Per essere il primo, nel basket, devi prima fare il sesto: James Harden lo sa bene, anche ora che in panchina ci si siede solamente al parco.

Autore

Classe 2000, scrive di calcio e basket, in attesa degli straordinari di aprile. Dall'estate 2020 dirige la redazione di Riserva di Lusso. È l'autore de "Il pipistrello sulla retina".

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