Nell’inverno di dieci anni fa, proprio come in questo, si teneva un’edizione della Coppa d’Africa. La organizzava il Gabon e, durante quell’edizione, come purtroppo spesso accade, diverse nazioni presenti alla competizione avevano dei problemi istituzionali. Il caso più eclatante era quello del Mali, alle prese con un vero colpo di Stato.
Giresse, al tempo allenatore delle Aquile, era stato screditato da tutti i suoi calciatori poiché non aveva convocato nelle ultime gare di qualificazione Seydou Keita, reo di essersi trasferito in Cina. Il risultato: rivoluzione nello spogliatoio e ritorno in nazionale (con la C sul braccio) per l’ex calciatore del Barcellona. Al termine di un iconico e drammatico quarto di finale, contro i padroni di casa, risolto solo ai rigori dal suo rigore decisivo, il centrocampista lascia una dichiarazione indelebile. Lancia un cessate il fuoco in diretta continentale aggiungendo poi alla fine:
Abbiamo bisogno di pace, siamo tutti Maliani.
Sang et or
A cavallo tra i due millenni, in tutti i maggiori campionati europei, alcune squadre con “poca tradizione” riuscivano a incunearsi, vincendo titoli, qualificandosi alle competizioni europee, accaparrandosi calciatori importanti. In Inghilterra molti ricorderanno il Leeds, in Spagna difficile non citare l’incredibile Valencia, in Italia in tutti è vivo ancora il ricordo del Parma. In Francia, campionato storicamente più variegato come alternanza di potere, dopo l’incredibile vittoria della Ligue1 da parte dell’Auxerre nel 1996, solo due anni dopo è stata la volta del Lens. Gli alto-francesi, dopo il trionfo del 1998, sono rimasti all’interno del calcio che conta per diverso tempo.
Nel 1997, Seydou Keita diventa un calciatore di proprietà del Marsiglia. Il maliano dopo due anni a vivacchiare tra squadra riserve ed estemporanee presenze con i “grandi”, passa in prestito in Ligue2, al Lorient. È un centrocampista offensivo con una spiccata comprensione del gioco, un fisico perfetto e una straordinaria capacità aerobica che lo porta naturalmente al sacrificio. Con i bretoni stravince la Ligue2, viene confermato un altro anno in prestito questa volta in Ligue1 ma, causa infortuni, gioca a singhiozzo, chiudendo la stagione con la retrocessione del club arancionero. Nonostante la retrocessione e anche grazie ad un’ottima Coppa d’Africa (dove chiude quarto col suo Mali), il Lens, arrivato secondo, lo sceglie per completare il suo centrocampo in vista della prossima partecipazione alla Champions League.
Il sang et or (chiamato così per i suoi colori sociali) sceglie bene e disputa una grande campagna europea battendo sia il Milan (in Champions) che il Porto (una volta retrocesso nell’allora Coppa Uefa). Le due compagini che qualche mese dopo si ritroveranno contro in Supercoppa Europea. Nei cinque anni passati al Lens, Keita matura moltissimo, soprattutto da un punto di vista tattico. Da centrocampista offensivo segnava obiettivamente poco, perciò arretra il suo raggio d’azione: mezz’ala o addirittura vertice basso del rombo. Gioca per cinque stagioni, di cui le ultime due da capitano, collezionando due secondi posti, alle spalle dell’egemone Lione di metà anni zero.
Terminata l’esperienza francese, nel 2007, Seydou raggiunge il connazionale Konatè al Siviglia, fresco vincitore (non che sia una novità) dell’allora Coppa Uefa. La stagione degli andalusi non è di quelle indimenticabili, Juande Ramos delude molto le aspettative centrando un misero sesto posto e non riuscendo ad ottenere soddisfazioni in campo europeo. Nel frattempo però a Barcellona, dopo il grande periodo Rijkaard, Pep Guardiola diventa allenatore della prima squadra e come primissimo acquisto della sua epoca chiede proprio il maliano. Per Seydou Keita inizia una nuova formidabile esperienza in Catalogna.
“Keita è una meraviglia che mi è capitata in questo Barça”
Pep Guardiola non è un uomo che ama le mezze misure. Prima di andare via dalla Spagna probabilmente neanche aveva mai valutato di modificare persino leggermente qualcosa del suo gioco. Per lui il bianco e il nero sono i colori predominanti della vita delle persone, ama gli estremismi e spesso è lui stesso (con le sue dichiarazioni) un’espressione dell’estremismo nella vita. Quando nel 2012 ha detto a Marca questa frase, sapeva bene come e quanto questa sarebbe rimasta nelle orecchie degli addetti ai lavori a lungo. Ma, evidentemente, la pensava così. Il calciatore che ha inaugurato il mercato del suo ciclo al Barcellona è stato per anni il suo figlioccio. Ne ha riconosciuto più volte il valore umano e tecnico e, nonostante non sia praticamente mai stato un titolare vero della sua squadra ma più un dodicesimo uomo, ha sempre dichiarato di non voler rinunciare a Keita per nessun motivo al mondo.
Cos’aveva conquistato così tanto il tecnico catalano? La semplicità e l’umiltà probabilmente. Keita faceva scorrere la sua vita a Barcellona come quella di un qualsiasi dipendente di una grossa azienda. Si allenava, era a disposizione della squadra per qualsiasi necessità, aveva grande capacità di leadership e di temperamento. Molto spesso, quando entrava in campo, era uno dei più fedeli al concetto numero uno del calcio guardiolesco. Assisteva al tiki-taka, vi partecipava marginalmente e poi andava ad attaccare lo spazio. Con lui – ma se chiedete a Guardiola vi dirà – grazie a lui, i blaugrana vincono, stravincono e rivincono tutto nel giro di quattro stagioni. Quattordici titoli, tutti da sparring partner secondo le statistiche, tutti da termometro emotivo della squadra, secondo il più influente allenatore degli ultimi trent’anni di calcio.
Mamma Africa – Papà Barça
Dopo il Barcellona ad attenderlo c’è la già citata esperienza cinese al Dalian Aerbin, squadra francamente non indimenticabile che si è resa protagonista già di diversi saliscendi tra la prima e la seconda divisione cinese nel giro di soli tredici anni. A Keita andare in una pensione dorata in anticipo stava costando la sua amata nazionale, dove senza la rivolta dello spogliatoio, probabilmente non sarebbe più tornato. Non ha mai rimpianto comunque il tentativo asiatico: ha sempre ammesso che il calcio rimaneva principalmente un lavoro, almeno a livello di club, e lì in Cina i soldi erano tanti.
Una volta percepito però il rischio di non giocare con le amate Aquile non ha voluto scherzare troppo col fuoco e dopo il terzo posto, seguito alla sopraccitata partita col Gabon, per partecipare alla Coppa d’Africa dell’anno successivo ha rinunciato alla Cina. Per farlo è andato per step: prima (a gennaio 2013) ha chiesto al Barcellona di potersi allenare lì per preparare la Coppa. I blaugrana hanno dato subito l’assenso e il Camp Nou ha tributato il ritorno del maliano con un applauso lungo e toccante.
Sembrava riabbracciare un figlio partito per un’esperienza non troppo felice. Giocata un’altra grande Coppa d’Africa in cui col suo Mali è riuscito ad eliminare i padroni di casa del Sudafrica ai quarti, arrendendosi solo ad una maestosa Nigeria in semifinale, ha scelto di tornare in Europa definitivamente. Tornerà in Spagna e giocherà nel Valencia, dove, dopo appena due mesi, gli verrà affidata la (ormai solita) fascia di capitano, raggiungerà un’altra semifinale di Europa League e farà in tempo a segnare il gol più veloce della storia della Liga (fino a quel momento).
Tutte le strade (di Keita) portano…a Roma
Dopo il Valencia, nell’estate del 2013 le offerte non mancano a Seydou. In particolare sono il Liverpool e la Roma a fargli la corte. Alla fine la scelta ricadrà sulla città eterna e qualche anno dopo dirà in un’intervista a L’Ultimo Uomo di averlo fatto per il clima e perché c’erano tanti francesi. Il clima a Roma, meteorologicamente parlando, è veramente una scelta azzeccata: è una città dove il sole presenzia praticamente tutto l’anno. Il clima, inteso invece come ambiente, è un po’ più difficile da sintetizzare. Attorno ai colori giallorossi c’è sempre tantissima pressione: la mettono i tifosi, gli addetti ai lavori, la stampa. La stagione 2014-15 poi è particolarmente tribolata. L’anno prima Rudi Garcia aveva compiuto una grande cavalcata, che non ha portato allo scudetto solo per via di una corazzata come la Juventus, capace di totalizzare 102 punti.
Le aspettative erano altissime e il mercato parlava di tre innesti per reparto dello spessore di Manolas, Nainggolan e Iturbe. Keita sembrava solo un riempimento di un reparto che, rimpinguato dal belga, comprendeva già giocatori del livello di Strootman, Pjanic e De Rossi. Insomma, all’arrivo del maliano a Fiumicino, non c’erano orde di persone ad attenderlo. La stagione non riserva ai giallorossi le stesse soddisfazioni della precedente: chiudono secondi ma solo all’ultima giornata e molto distanti dalla solita Juventus di metà anni ’10. Nonostante questo, Keita riesce ad entrare a pieno titolo nelle grazie dei tifosi giallorossi che lo chiamano Il Professore. Quasi tutti concordi a voler riconoscergli quello che Guardiola ribadì nell’intervista prima di Bayern Monaco-Roma di quell’anno, quando le parole che danno nome a questo pezzo. Il valore di Seydou era grande dentro quanto fuori dal rettangolo di gioco.
L’anno dopo un infortunio costringe il maliano a giocare poco e male fino a gennaio. Il naufragio tecnico del progetto di Garcia lo tocca solo lateralmente e come tutta la squadra, beneficia molto del ritorno di Luciano Spalletti sulle sponde del Tevere. Chiude nel 2016 il suo discorso con il calcio che conta. Prima di chiudere definitivamente si concede però un altro anno di pensione dorata, questa volta in Qatar.
Oggi è abbastanza fuori dallo star-system: è solo su Twitter, pubblica poco e perlopiù parla di gesti solidali in Mali, di anti-razzismo e ricondivide qualche vecchio video del suo Barça. Probabilmente la sua fase intermedia della vita l’ha sempre voluta così, in famiglia, un po’ in disparte dal caos a pensare alle cose semplici che più possono aiutare il prossimo.