Perché Andriy Shevchenko rappresenta il punto d’unione tra Ucraina e Russia durante il conflitto tra i due paesi?
Si pensa spesso che le guerre siano un retaggio di un passato ormai lontano. Roba da medioevo, o al più da inizio Novecento. Insomma combattimenti da film fantasy o conflitti mondiali irripetibili. Eppure, tutta la storia del XX secolo e dell’inizio del XXI è costellata di guerre, maggiormente localizzate, ma egualmente sanguinarie. Per trovarle, non occorre andare nemmeno troppo lontano, in aree geograficamente ed emozionalmente distanti come possono essere il Medio-Oriente, l’Africa nera o il Sudamerica. Basti pensare che solo venti anni fa si combatteva a due passi dall’Italia uno dei conflitti più spietati di tutto il Novecento, la guerra dei Balcani, o che nel 2014 è esploso un conflitto tra Russia e Ucraina, decisamente non dall’altra parte del mondo.
Le guerre sono lontane nell’immaginario collettivo, ma molto vicine nella realtà dei fatti. Il conflitto russo-ucraino è il grande evento bellico europeo degli anni ’10 del XXI secolo. Una guerra che ci ricorda come il rischio di crisi geopolitiche possa essere sempre in agguato. Gli anni passano, ma certe attitudini restano innate nell’uomo. Come quella della faida, dell’imposizione della propria predominanza. Caratteristiche talmente radicate all’interno del genere umano che nemmeno migliaia di anni di storia e di insegnamenti possono, e potranno estirpare.
Finché ci sarà l’uomo, ci sarà la guerra. È un’equazione da cui non si scappa. Ma se i conflitti continuano a permanere, è anche innegabile che siano in diminuzione e che l’umanità abbia fatto dei passi in avanti importanti sulla strada della pace. Uno dei più frequenti fattori scatenanti in materia di conflitti è il nazionalismo, la volontà di autoaffermazione e di autodeterminazione di un determinato stato. Un fattore a cui si contrappone la globalizzazione, uno strumento di assottigliamento, fino all’eliminazione, delle differenze individuali e, di conseguenza, una limitazione importante di pretesti per generare conflitti. Il mondo nel XXI secolo è avviato sulla strada di un pacifico sincretismo, l’elemento in grado davvero di spingere indietro nel tempo il retaggio delle guerre e dei combattimenti.
In tal senso, il calcio è un elemento fortemente trainante per la diffusione di questa pacifica globalizzazione, per questo annullamento dei caratteri spiccatamente nazionalistici dei singoli paesi. Questo perché il calcio è un fenomeno che travalica determinante differenze e che genera talmente tanta adorazione da permettere di ignorare anche sostanziose dissonanze. Di giustificarle anzi. Il calcio ha una portata sociale talmente elevata in grado di potere oscurare fratture talmente grandi da riuscire a generare dei conflitti.
Il conflitto Shevchenko
Un esempio, in tal senso, è dato proprio dal grande conflitto europeo del XXI secolo, quello russo-ucraino. Una faida che risale al febbraio 2014, quando un gruppo di soldati russi, senza insegne, prende controllo di diverse posizioni strategiche nella regione della Crimea, appartenente all’Ucraina. Lo stato russo decide di intervenire militarmente in quel territorio, dando vita a una crisi sfociata in un confuso referendum in cui il 95,5% degli abitanti della Crimea si proclama favorevole all’unione alla Russia.
La Crimea viene così integrata nella federazione russa, ma la crisi acquisisce un respiro internazionale, perché quel referendum finisce sotto la lente d’ingrandimento dell’Onu, che lo contesta vivamente. Due i fattori alla base dell’opposizione delle Nazioni Unite: il mancato consenso del governo ucraino allo svolgimento del referendum e l’illegittimità dei risultati.
Mentre il mondo della politica si arrovella sulla situazione della Crimea, la tensione si allarga a un’altra regione dell’Ucraina, quella del Donbass, nota agli appassionati di calcio per ospitare uno dei club dell’est Europa più famosi: lo Shakhtar Donetsk. Alcuni separatisti russi insorgono contro il governo ucraino proclamando due repubbliche popolari indipendenti: Doneck e Lugansk. Da questo momento ha inizio un conflitto continuo tra la Russia, che appoggia le neonate repubbliche, e il governo ucraino.
La tensione tra Russia e Ucraina è alle stelle e il conflitto si prolunga per anni. Eppure, c’è una figura che, nonostante le differenze, riesce a costituire un ponte tra le due nazioni e che rappresenta per l’Ucraina una sorta di contraddizione nell’ottica del conflitto con la Russia. Si tratta del leggendario attaccante ucraino Andriy Shevchenko.
Antefatti
Shevchenko è la storia dell’Ucraina. È la figura più riconoscibile del paese, una vera e propria icona. Ma Shevchenko ha anche dei legami fortissimi con la Russia, emersi soprattutto in occasione della sua nomina come CT dell’Ucraina, proprio mentre i due stati che costituiscono la sua identità continuano a darsi ferocemente battaglia.
Il 12 luglio 2016, Andriy Shevchenko diventa allenatore dell’Ucraina. Mentre il suo Paese è coinvolto, ormai da due anni, in un cruento conflitto con la Russia, lui, il simbolo e ora la guida dell’Ucraina, si presenta in conferenza stampa e parla russo. La lingua del nemico. Nessuno però insorge. C ‘è qualche polemica, certo, ma generalmente viene tollerato il fatto che l’uomo chiamato a rappresentare nel mondo la Nazionale ucraina si esprima col linguaggio dei soldati che, quotidianamente, minacciano la vita dei suoi connazionali.
Il russo è la lingua di Shevchenko perché Andryi è cresciuto nell’URSS. Come per tantissimi ucraini, la lingua madre è quella del Paese contro cui ora si sta combattendo, è il retaggio di quell’identità sovietica che il nuovo governo ucraino da anni s’impegna a combattere e cancellare. Ma Shevchenko è il simbolo di quanto quel passato non possa essere rimosso, è una parte costituiva dell’Ucraina.
Non solo, i legami con la Russia di Shevchenko non si fermano all’elemento linguistico, ma costellano l’intera carriera dell’attaccante. Sheva è il pupillo alla Dinamo Kiev di Valery Lobanovskyj, il CT dell’ultima grande nazionale sovietica. È uno dei giocatori prediletti di Silvio Berlusconi, il più grande alleato politico europeo di Vladimir Putin. È il sogno di mercato di Roman Abramovich, simbolo della Russia ricca e potente.
Insomma, Sheva trasuda Russia da ogni poro della sua pelle. Ma è il più grande mito moderno dell’Ucraina per cui quest’anima sovietica gli viene perdonata. Anche in un contesto dove non si perdona con facilità. La Nazionale guidata da un ucraino che parla russo è la stessa che ha escluso dalle proprie fila il difensore Yaroslav Rakitskiy, che dopo il passaggio allo Zenit nell’ottobre 2018 non è mai più stato convocato in Nazionale, dopo esserne stato un punto fermo durante la sua permanenza allo Shakhtar.
Viene da domandarsi perché. Perché a Shevchenko vengono “perdonati” gli evidenti legami con la Russia, mentre tutto il resto dell’Ucraina si impegna strenuamente a soffocare ogni minima correlazione con la sua ex Nazione madre. La risposta, in realtà, è abbastanza semplice, e sta in quella portata sociale sovranazionale ed emotivamente impattante che ha il calcio e che ha reso Andriy Shevchenko un’icona che travalica l’Ucraina stessa.
Avanzata
La leggenda di Shevchenko si è forgiata a cavallo degli ultimi anni di vita dell’URSS e dei primi della Repubblica ucraina. L’infanzia nella provincia di Kiev, la fuga dalle contaminazioni de Chernobyl, poi il ritorno e la casacca della Dinamo che diventa una seconda pelle. In panchina il leggendario Valerij Lobanovskyj, il colonnello dell’Armata Rossa, capace di guidare la Nazionale sovietica fino alla finale di Euro 1988 e di plasmare la leggenda della Dinamo Kiev di fine anni ’90. In campo Andryi Shevchenko, la stella di quella storica squadra.
Una squadra capace di vincere ogni anno in patria, ma di imporsi anche in Europa. Shevchenko ha solo 21 anni quando rifila tre gol al Barcellona al Camp Nou. È il 5 novembre 1997, quel giovane fenomeno ci mette poco più di mezz’ora a piegare i catalani con una tripletta che entra di diritto nella storia della Coppa dei Campioni. Prima la rete di testa, dal cuore dell’area di rigore, dopo appena nove minuti. Poi il raddoppio, ancora di testa in un confronto in volo col portiere catalano Vitor Baia. Infine la firma definitiva su rigore, procurato ovviamente sempre da quel demonio in maglia bianca. Nella ripresa infine Rebrov confeziona il definitivo 0-4. La Dinamo vincerà il proprio girone e terminerà la propria corsa ai quarti, col pesante 1-4 subito in casa dalla Juventus.
L’anno successivo però la Dinamo Kiev riesce ad andare ancora oltre quel grande risultato. Vince di nuovo il proprio girone, poi ai quarti si libera dell’altra grande spagnola, il Real Madrid, pareggiando 1-1 al Bernabeu e vincendo 2-0 in casa. Chiaramente con una doppietta di Shevchenko, prima ribattendo in rete un rigore fallito, poi non sbagliando nell’uno contro uno col portiere spagnolo. La corsa finisce però a Monaco di Baviera, dove dopo il 3-3 di Kiev, la Dinamo viene sconfitta 1-0 dal Bayern.
Shevchenko è diventato già una leggenda e nell’estate del 1999 viene acquistato dal Milan di Berlusconi. Al suo primo anno in rossonero si laurea subito capocannoniere della Serie A, anche se non riesce a far vincere ai suoi lo Scudetto, col Milan beffato dalla Lazio di Cragnotti. Tre anni dopo l’ucraino mette però la firma sulla conquista della Champions League. In semifinale segna il gol che apre il match di ritorno con l’Inter (e che vale la qualificazione in virtù dell’1-1 definitivo e della regola dei gol in trasferta) e in finale realizza il rigore decisivo che permette ai rossoneri, al termine di quella faticosa lotteria, di battere la Juventus e alzare la Coppa dei campioni al cielo.
Una finale tutta italiana, come tipicamente italiano fu stato il match, teso e bloccato dall’inizio alla fine. Parte meglio il diavolo, con Shevchenko che dopo nove minuti sblocca la gara, ma la rete viene annullata per un fuorigioco di Rui Costa. Poi esce fuori la Juventus e dopo di che vince la paura. Si arriva ai rigori, sbagliano per la Juventus Trezeguet, Zalayeta e Montero, per il Milan Seedorf e Kaladze. Dopo la trasformazione di Del Piero, Shevchenko batte Buffon e regala il titolo europeo al diavolo.
Poi, finalmente, un anno dopo arriva anche lo Scudetto, atteso ormai da ben sei anni. Il Milan vince il testa a testa con la Roma e ancora una volta sono decisive le firme dell’ucraino. Fa tutto Sheva. All’andata contro i giallorossi segna i due gol all’Olimpico che valgono ai rossoneri la vittoria per 1-2 e permettono l’aggancio in testa alla classifica. Al ritorno sblocca dopo soli due minuti il Milan-Roma che regala la certezza matematica del titolo al diavolo. Per la seconda volta nella sua carriera, l’ucraino si laurea capocannoniere in Serie A.
Nel dicembre 2004 arriva anche il Pallone d’oro, la ciliegina sulla torta di una carriera fantastica. Shevchenko ha 28 anni ed è già nell’Olimpo del calcio.
Contrattacco
La carriera di Shevchenko però, da quel momento, vive una parabola discendente. Nel maggio 2005 arriva la brutta sconfitta di Istanbul, quando in finale di Champions League il Milan si fa rimontare tre gol dal Liverpool e perde ai rigori, con l’errore decisivo proprio del numero 7 rossonero. L’estate successiva passa al Chelsea, e da lì comincia la regressione della carriera dell’ucraino che, progressivamente torna indietro come un nastro in rewind.
Dopo il Chelsea, il ritorno al Milan. Poi quello alla Dinamo Kiev. La carriera di Shevchenko è palindroma, torna perfettamente al punto da dove è partita. E questo vuol dire Ucraina. Dopo il ritiro nel 2012, infatti, Andryi Shevchenko torna nel suo paese. Prima tenta una discutibile, e fallimentare, carriera politica, poi invece accetta l’incarico di guidare la Nazionale calcistica della sua Ucraina.
In carriera, Shevchenko ha condotto i suoi al primo Mondiale della propria storia, in Germania nel 2006. Un’avventura anche molto positiva, terminata solo ai quarti di finale contro l’Italia che poi avrebbe vinto il titolo mondiale. Da allenatore, invece, Sheva guida l’Ucraina negli Europei del 2020, disputatisi nel 2021 a causa della pandemia da Covid-19, e la Nazionale orientale arriva sino ai quarti, dove deve arrendersi però all’Inghilterra.
L’avventura di Shevchenko da CT dell’Ucraina termina nell’agosto 2021. La fine, almeno momentanea, dell’impegno nazionalistico di un’icona che è riuscita a travalicare i confini del proprio paese, in un momento storico in cui questi confini vengono difesi fino alla morte.
Conseguenze
È ora però di tornare alla riflessione su Shevchenko, sui suoi legami con la Russia e sulla percezione che se ne è avuta in Ucraina. È importante notare come, in un periodo storico contrassegnato da tensioni fortissime, l’unica figura in grado di smorzare tali tensioni sia provenuta dal mondo del calcio. Shevchenko è stato CT dell’Ucraina dal 2016 al 2021, cinque anni in cui il conflitto con la Russia non ha accennato a placarsi, anzi ha lasciato immutato il proprio vigore.
Cinque anni in cui l’Ucraina, anche quella calcistica, ha mantenuto alta la propria ostilità verso la Russia. In cui per sfidare i nemici ha allegato nel logo sulla propria divisa anche la raffigurazione della Crimea, generando una crisi che ha richiesto persino l’intervento della UEFA. Cinque anni in cui c’è stato l’ostracismo verso un elemento della Nazionale la cui unica colpa è stata trasferirsi in un’altra squadra per continuare la propria carriera calcistica. Cinque anni in cui società russe e ucraine non si sono potute incrociare in alcuna competizione. Insomma, cinque anni di tensione, inimicizia. Cinque anni di guerra. Ma la figura di Shevchenko ha trasceso questi cinque anni.
L’Ucraina ha accettato che il proprio CT parlasse russo. Ha accettato tutti i suoi legami col nemico di turno. Ha accettato in sostanza di contraddire la propria linea inesorabilmente ostile e l’ha fatto solo di fronte a un’icona del calcio. Consapevolmente o inconsapevolmente, poco importa. Conta il fatto che Andriy Shevchenko è la testimonianza, ulteriore, di quanto peso può avere il calcio nella società di oggi. Anche a livello politico. Anche quando si parla di guerre. La vicenda di Shevchenko deve essere un esempio per far capire al mondo del calcio il proprio potere, con l’augurio che esso possa essere usato nel verso giusto.
Perché se un calciatore ha la forza di far mettere da parte delle diffidenze che sono arrivate a generare addirittura un conflitto, possiede un potere enorme e ha il dovere, morale e civico, di usarlo per fare la differenza. Per cancellare ogni tipo di guerra, che sia fisica o figurata. Per velocizzare quel processo di pacifica globalizzazione di cui il calcio è elemento fondante e di cui può diventare addirittura fattore trainante, qualora tutto questo potere venisse incanalato nei binari giusti.
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