In pochi diventano campioni del mondo, se consideriamo quante persone realmente lo sognino. Quando si parla quindi di un giocatore che ha raggiunto il massimo punto raggiungibile, c’è sempre la sensazione di stare per toccare qualcosa di mistico. Qualcosa di mitologico.
E un po’ di mitologia c’è davvero nella storia di Bruno Conti, il ragazzino timido di origini (quasi) romane, con il caschetto marrone e gli occhi timidi. Il ragazzino che è diventato un gladiatore della Roma e un Cicerone per i romani. Pensare però che tutto quel talento fosse sul punto di fuggire lontano dalla Capitale e dall’Italia intera, aumenta ancora di più l’orgoglio nei confronti della maglia numero 7 giallorossa forse più famosa. Invece, per fortuna, Bruno Conti scelse il calcio, scelse Roma e scelse la Roma: lo Sliding Doors di Bruno Conti.
La città del baseball
Esiste un posto nel mondo in cui si incontrano la mitologia romana e le lontane terre americane oltreoceano. Non si tratta dell’ambientazione di qualche romanzo fantascientifico, né del set di uno strano film distopico. Si tratta piuttosto di un posto reale e concreto, precisamente alle porte di Roma. Nettuno è infatti un comune di nemmeno 50 mila abitanti, una cittadina sul mar Tirreno in provincia della Capitale, anonima rispetto al territorio che la circonda.
La famosa congiunzione menzionata prima? Beh, capire il riferimento alla mitologia romana è ora semplice. La città prima era un borgo medievale e il suo porto era detto “Cenone”. Qui, all’interno, era sorto un tempio dedicato al Dio del Mare, che poi in seguito dette il nome a tutto il luogo.
Più suggestivo forse, è il legame con gli States. Il comune di Nettuno, infatti, è la città italiana del baseball per antonomasia. L’origine è però più recente, non ancora centenaria né tantomeno secolare. Furono i soldati statunitensi a importare questo sport nella periferia romana. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, c’erano ancora molte basi militari USA nei pressi di Nettuno, e i soldati passavano il tempo a giocare a baseball. Gli italiani ne furono attratti, e nacque così il Nettuno Baseball Club, la società ora più titolata d’Italia.
È in questa ragnatela di riferimenti culturali che nacque Bruno Conti, nel 1955. Della sua infanzia si sa poco, se non che, immerso nella vita nettunese, iniziò presto a giocare a baseball. E presto divenne bravo. Molto bravo.
Intelligenza e inventiva
Fin da bambino, Bruno Conti indossò la divisa da baseball nei campi vicino casa. All’inizio giocava con la Black-Angels-S.Francesco, poi passò al club Nettuno e in poco tempo divenne un veloce e potente lanciatore mancino. Così potente che su di lui si accesero i riflettori dell’Università di Santa Monica, in California, che propose alla società di Nettuno di passargli il giocatore, affinché si potesse formare, crescere e migliorare nella squadra universitaria. Un luogo che lo avrebbe portato molto vicino al massimo campionato mondiale della disciplina, la MLB.
Sebbene l’opportunità fosse unica e le prospettive di crescita come giocatore di baseball si sarebbero alzate esponenzialmente, fu papà Conti a dire no. Attraversare l’Oceano partendo da Roma, a soli 15 anni, per approdare sulle coste occidentali dell’America, sembrava un viaggio troppo lungo, al termine del quale Bruno sarebbe stato troppo lontano da casa.
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Furono quindi il mare, la lontananza e l’esotica esperienza statunitense del college a separare Bruno da quella carriera. L’adolescente nettunese, però, non si accontentava di uno solo sport, e per fortuna aveva anche un’altra passione. Se d’inverno infatti giocava a baseball vicino casa, d’estate passava le giornate a giocare a calcio. E destino volle che Bruno Conti fosse talentuoso anche con i tacchetti.
Quando fece il provino per la Primavera della Roma, fu preso immediatamente. Tramontò così l’asse del baseball, e prese piede quella del gioco del pallone. Era il 1972, e dopo una prima breve esperienza nell’Anzio, Bruno Conti entrò in una delle più importanti società calcistiche italiane. Dove poi restò per tutta la sua carriera.
Grazie al mio grande maestro Alfredo Lauri, che era un lanciatore come me, ho visto il baseball sempre come uno sport di inventiva. Mi ha insegnato la palla lenta, la curva, il drop. Un po’ come la finta a rientrare nel calcio. Insomma ci vuole intelligenza e inventiva in tutte e due gli sport.
Lo Sliding Doors di Bruno Conti
Togliendo i freni alla fantasia, chissà come sarebbe stato un ipotetico debutto di Bruno Conti nella MLB. Sarebbe stato il primo italiano a esordire nel campionato americano di baseball. In Italia lo avremmo conosciuto comunque, e magari avrebbe spinto anche altri ragazzini a cercare un po’ d’America a Roma. Fu invece Alex Liddi il primo azzurro a giocare in Major League Baseball, ma per vederlo calcare quei palcoscenici si dovette attendere il 2008.
Oppure sarebbe tramontato presto il talento di Bruno, dato il nuovo ambiente così da lontano da casa. E forse aveva proprio ragione suo papà, meglio respirare ancora un po’ d’aria capitolina. Adagiarsi per un altro po’ nella zona di comfort. La storia di Bruno Conti, alla fine prese tutta un’altra piega. A 18 anni ora indossava la maglia giallorossa e già dal primo anno fu chiamato in prima squadra. Quel caschetto alla Beatles però fremeva, e benché la panchina dura fosse un posto tutto sommato comodo – era pur tra le fila dei giallorossi – il suo corpo non voleva stare più solo a guardare.
Alle spalle Bruno Conti aveva già un campionato vinto con la Primavera di Trebiciani, ed ora era a un passo da entrare nel calcio più importante, più visibile, con i grandi. Lui, invece, si sentiva ancora un po’ piccolo, come ha dichiarato qualche tempo fa in un’intervista. Mentre i giornalisti prendevano in esame le opinioni dei compagni, infatti, lui era chiuso in camera, timido. Una caratteristica che si è portato dietro per tutta la sua carriera.
Arrivò il 10 febbraio 1974. Si giocava un anonimo Roma-Torino e nell’undici iniziale apparve anche il suo nome: Bruno Conti giocava la prima delle sue tante partite con la Roma. La gara fu equilibrata e finì sullo 0-0. Bruno giocò bene, grazie anche agli incoraggiamenti dalla panchina di Nils Liedholm, procurando un rigore poi sbagliato da Domenghini.
🗓️ Il 10 febbraio del 1974, all'Olimpico contro il Torino, Bruno Conti giocava la prima delle sue 402 partite in giallorosso ♥️#ASRoma pic.twitter.com/uM2PZQtPdT
— AS Roma (@OfficialASRoma) February 10, 2020
Caschetto e tecnica: Bruno Conti e la Roma
La stagione si chiuse con nessun’altra presenza di Brunetto in Serie A. Oscillando infatti tra la massima serie e la Primavera, Conti continuava a giocare accrescendo sempre di più le sue qualità tecniche, abile soprattutto nel dribblare e nel saltare l’uomo. Il primo comunque a plasmarlo come giocatore, ad aiutarlo e a far canalizzare tutta l’euforia in tecnica e precisione, fu l’allenatore giallorosso al tempo della partita contro il Torino. Un uomo a cui Bruno Conti sarà per sempre riconoscente.
Io ero innamorato del pallone, avrei dribblato pure i pali della porta. Liedholm mi ha corretto, mi ha rifatto nuovo, mi ha permesso di debuttare in A contro il Torino.
L’anno successivo, comunque, la Roma mandò Conti in prestito al Genoa, che allora militava in Serie B dopo la retrocessione di due anni prima. Con il ruolo ormai cucito addosso di ala, quasi interscambiabile tra le due fasce, nei rossoblù conquistò subito l’amore e la fiducia dei tifosi. È anche grazie a lui, infatti, che la squadra riacciuffò la massima serie. Si iniziava già a parlare quindi, di un Bruno Conti come di un piccolo eroe, carismatico con il suo caschetto folto, con il sorriso timido da giocatore umile, ma con concretezza imprescindibile nel rettangolo verde.
Il risultato di tutte queste caratteristiche lo si vede nel ritorno a Roma, dopo appena una stagione. Liedholm è ancora lì ad attenderlo con le braccia aperte, sicuramente fiero del talento che ha cresciuto. Talento che, in una delle prime partite dell’anno nuovo, nel 1977, segna anche il suo primo gol, contribuendo a portare i giallorossi alla vittoria casalinga per 3-1 contro la Juventus. La gloria è arrivata. La stima è completa. Lo stadio gli dà il benvenuto nell’epopea romanista.
“… e viene da Nettuno”
Dopo un’altra esperienza in prestito nella città della lanterna, Bruno Conti ritornò a Roma ancora più cresciuto, e ancora più preparato a rientrare nei moduli della Capitale. Era ormai il 1979 e il centrocampista nettunese non avrebbe mai più lasciato quella città, né quei colori. La folla di tifosi ormai cantava “Di Bruno ce n’è uno e viene da Nettuno”.
E chissà se al di là dell’Oceano, in California, Bruno Conti avrebbe mai potuto sentirsi così elogiato come a Roma. Tutta quell’acqua a separarlo dall’altra vita, dall’altra possibilità e dall’altra fortuna. Ormai no, non ci potevano essere più rimpianti. Ormai la sua persona era immersa nel tifo italiano, stigmatizzata anche nei cori dei tifosi, nelle menti dei bambini e degli adulti. Sulle spalle aveva cucito la maglia numero 7, indossata per la prima volta dopo la prima esperienza di Genova.
Bruno Conti era diventato il sindaco di Roma, anche per i primi trofei che la squadra alzò con lui, come le due vittorie in Coppa Italia nell’80 e nell’81. Con i tifosi si instaurò infatti un legame forte e duraturo, da leggere in ogni partita in cui Conti contribuiva al successo. E da leggere dentro le lacrime che scendevano dai suoi occhi quando lasciò il calcio giocato dopo tredici anni, tutti con la stessa maglia.
Bruno Conti e Agostino Di Bartolomei durante un allenamento della Roma pic.twitter.com/X8HVuHL6s7
— allafacciadelcalcio (@facciacalcio) December 10, 2020
Bruno Conti, però, non fu solo l’uomo di Roma. Perché dal campetto di Nettuno, quello vicino casa in cui aveva ancora protezione da tutti i rischi possibili, il caschetto italiano sbarcò in Spagna. Nella Spagna dell’82.
La prima partita in Nazionale fu sempre sotto il comando di Bearzot, nel 1980. Ma con la convocazione per i Mondiali, sarebbe poi diventato uno dei famosi senatori azzurri. Il suo Mondiale fu comunque all’altezza delle sue potenzialità. Soprattutto, si ricorda la sua prestazione storica contro la Germania Ovest, quando fu fondamentale in certi svincoli e nel partecipare all’azione che portò Altobelli a segnare la terza rete.
Venne giudicato tra i migliori in campo, anzi, tra i migliori di tutta la competizione: MaraZico lo chiamarono. Semplicemente la fusione di Maradona e Zico, due calciatori che non hanno bisogno di molte presentazioni.
Con quel soprannome, e anche il peso di essere paragonato ai più forti del mondo, Bruno Conti tornò dopo l’estate mondiale tra le fila di Liedholm. Il gioco dell’allenatore aveva fatto crescere la squadra e la sua continuità vittoriosa. Accanto a Bruno, spiccavano i nomi di Pruzzo e dell’ottavo re di Roma Falcão. La rosa era forte e compatta e nemmeno l’intelligente calciomercato della Juventus, armata anche di un fresco Platini, riuscì a far meglio.
La Roma di Bruno Conti si laureò campione d’Italia l’8 maggio del 1983. Erano passati 41 anni dall’ultimo Scudetto. Roma era tornata Capitale. E a portarla lassù dopo più di quattro decenni fu anche Bruno Conti, che aveva partecipato a tutto il processo di crescita che la rivide spiccare a livello italiano, come ormai non faceva da troppi anni.
Bruno Conti, core de sta città
Si dice sempre che è facile parlare con il senno di poi. E non voglio nemmeno immaginare quante persone abbiano in fondo in fondo ringraziato papà Conti quel giorno, quando l’Università di Santa Monica si vide rispedita al mittente la proposta di portarlo in America. E magari tanti altri avranno ringraziato il carattere di Bruno, così timido e per bene. Ubbidiente da non insistere con il padre per salpare le onde e approdare lontano tra le spiagge lunghe con le palme. Un paradiso dei vacanzieri, un luogo ameno dove poter indossare le ali di Los Angeles.
E forse tanti altri ancora avranno ringraziato semplicemente tutto quel mare che divide l’Europa e l’America. Per tanti nel dopoguerra era semplicemente una ferrovia dove muovere i passi per materializzare il sogno americano. Per Bruno Conti fu di fatto una barriera troppo alta, a detta della famiglia. Lo Sliding Door è stato positivo. Il Destino – quello con la D maiuscola (se ci si crede) – ha fatto il suo corso. Il Dio del Mare ha tenuto Bruno Conti vicino a Nettuno.