Dicono che per stimolare l’interesse degli studenti verso una determinata materia – magari fosse solo una -, sia talvolta necessario un escamotage che esuli dalle quattro mura dell’aula in cui seguono annoiati il professore. Riferimenti alla cultura pop ed allo sport non possono che contribuire ad un ascolto produttivo, con rendimenti che ne risentono positivamente. Chissà se lo stesso sarebbe valso con un Socrates sulla cattedra. O meglio, in un ambiente accademico. Anche se non c’è definizione migliore per il Pacaembu, la casa del Corinthians negli anni della Democrazia.
Quest’ultimo, appunto, è un concetto che impariamo a far nostro fin dai banchi di scuola. Doveroso sottolineare come in quella prima persona plurale, purtroppo, non possano essere inclusi tutti gli alunni sulla faccia della terra: alcuni, quella parola osannata, cercata, conquistata ogni giorno, non sanno nemmeno cosa sia. In particolare, è il programma della quinta superiore che instilla nelle coscienze degli studenti questa dicotomia: Democrazia e Dittatura, da una parte all’altra del ring, nel ‘900 e non solo, come accennavo.
È assai raro e curioso, però, associarlo ad undici uomini che ogni domenica scendono in campo. O meglio, dieci uomini che tutta la settimana familiarizzano con il manto erboso, più una sorta di studente fuori corso, che però ad ogni esame fa innamorare la commissione pronta a valutarlo: una premessa da 18 si trasforma in un 30 cum laude. Fu proprio quella matricola, fattasi prima laureando e poi Dottore, a stregare una platea, trasformando l’ordinario in asserita applicazione.
Il terzo della saga
È un viaggio lungo nelle intenzioni, ma meno tortuoso del previsto, perché le basi di partenza sono edificate su un terreno solido e compatto, ricco di certezze. Esse provengono dagli studi di Raimundo de Oliveira, un uomo semplice ed interessato a ciò che lo avrebbe circondato, se avesse aperto gli occhi circa quattro secoli prima della venuta di Cristo. Ama la letteratura e gli studi dei classici, con una particolare predilezione per i filosofi greci. Vive di stenti in Amazzonia, con la moglie, Dona Guiomar.
Prima di lui, hanno avuto due figli. La scelta dei nomi è spiccatamente curiosa, così come il personaggio che la partorisce. Nascono Sófocles e Sóstenes, ed il detto afferma che non ci sia due senza tre. Anno domini 1954, 19 febbraio: viene al mondo il terzo della saga, un altro richiamo all’innata passione paterna nell’abnegazione degli studi. Socrates. Raimundo non è Sofronisco, tanto meno uno scultore: così come il padre di uno dei pensatori più celebri della storia, però, verrà oscurato dall’ombra del figlio, cresciuto come fosse un David. Fermo ma dinamico, possente ma dalla classe sopraffina. Democratico.
Come un’Ode ellenica, sembra che Raimundo voglia chiedere ad un’entità, evidentemente a lui superiore, di condurre il suo terzogenito verso la gloria. Il bivio, però, è lì che lo attende: da una parte il pallone, dall’altra le notti insonni sopra i libri, di quell’amata medicina che inseguirà sfogliando una pagina dopo l’altra, fino all’ultimo dei suoi giorni. Una domenica, tra l’altro: guarda cosa combina il destino.
Alla fine, opta per una strada intermedia, in quella via di mezzo che solitamente non dà né gioie né dolori. In questo caso specifico, c’è da esultare: nel corso degli anni riuscirà sì a laurearsi, ma anche a conquistarsi un posto in mezzo al campo. Da pensatore, creatore di iniziative e perché no, realizzatore come ce ne son stati pochi da quelle parti, per le sue caratteristiche intrinseche. Non è retorico il passaggio accennato in precedenza: Socrates aveva veramente optato per un’assenza continuativa dagli allenamenti, per concentrarsi nel corso della settimana sugli studi. Nel giorno del Signore, scendeva in campo come nulla fosse, sprigionando cultura. Dall’anatomia al piede destro il passo è breve, tempo di un dribbling e qualche ripetizione mnemonica.
L’incisione più importante tramite lo scalpello dell’astuzia, universitaria e calcistica, arriva a qualche anno dal suo arrivo al Corinthians, avvenuto nel 1977. Aveva iniziato a giocare nel Botafogo – non di Rio, ma di Ribeirão Preto -, con cui aveva stregato nientemeno che Pelé in una trasferta al Urbano Caldeira, casa del Santos: un 2-3 che manda O’Rey su di giri. Trasferitosi a San Paolo e conquistato il cuore dei tifosi del Timão, arrivò il 1981. La svolta, nel bel mezzo di un clima rovente.
Scheda nulla
10 lettere che non sfioravano nemmeno lontanamente i tre personaggi nel mirino del popolo brasiliano, in quella buia parentesi dittatoriale che perdurò dall’aprile 1964 al marzo 1985. Sono, in ordine, Emílio Garrastazu Médici, Ernesto Beckmann Geisel e João Baptista de Oliveira Figueiredo: apprezzavano decisamente di più associare il nome del Brasile ad un regime dittatoriale, nonostante i loro discorsi fossero – come da prassi, in tali circostanze – grondanti di effimere libertà.
Socrates e compagni osteggiano la repressione politica nel Paese, impegnandosi per dar vita a qualcosa di realmente rivoluzionario. Non è un caso che, quando indosserà gli scarpini per giocare in Italia, all’ormai celeberrimo appellativo medico sarà affiancato un riferimento al Che. E dunque, 1981: ha inizio la Democrazia Corinthiana. Il concetto è il medesimo, anche se in portoghese la C sostituisce la Z. A dirla tutta, fu l’esito di un escalation di emozioni, anche e soprattutto per il numero 8: nei mesi precedenti, quello che aveva sempre definitivo come un puro e semplice hobby da affiancare agli studi in medicina, era improvvisamente divenuto un affare di caratura globale. Il ragazzo è forte, fortissimo: tutti ne vogliono un po’, chiunque vuole banchettare con il Dottore.
Quello che sembrava destinato ad essere un addio al calcio, invece, divenne l’incipit di una storia innovativa. Chiamandola con il proprio nome, rivoluzionaria: ogni decisione sarebbe stata presa tramite una votazione collettiva, le autorità di allenatore e dirigenza vengono nettamente troncate ed ognuno ha lo stesso peso all’interno delle discussioni per lo sviluppo del progetto, tecnico ed economico. Un’eredità del socialismo che tanto ha imparato ad apprezzare sui banchi universitari, leggendo il testamento letterario di Antonio Gramsci. La trasposizione nell’atto pratico di quel gesto a cui ha ormai abituato le platee di cui sopra: pugno alzato, si aprono le danze per il cambiamento.
Il cosiddetto passaggio dalle parole ai fatti si percepisce alla vigilia delle prime libere elezioni comunali e statali a San Paolo, dove gli avversari sperano che nel giorno della sfida al Corinthians, l’8 si sia alzato con il piede sbagliato. Quest’unicum politico è datato 15 novembre 1982, ma il clima di terrore che serpeggia nella regione ed in tutto il territorio statale sembra costringere il popolo a rimanere ancorato in casa. Così, l’appello proviene direttamente dai giocatori, che scendono in campo per alcune occasioni con la scritta “Dia 15 vote“ dietro la schiena. Non c’è bisogno di una traduzione.
Suo fratello Raí – ultimo e sesto genito, dopo l’arrivo di Raimundo Filho, Raimar -, che si sarebbe dovuto chiamare Xenóphontes, era da poco divenuto maggiorenne, quando il fuoriclasse del Corinthians prese una decisione in cuor suo sofferta, ma divenuta necessaria. Nonostante la minaccia di lasciare il Brasile alla volta di un altro Paese in cui diffondere il verbo da bola nel caso in cui non fosse stato approvato l’emendamento per l’introduzioni delle elezioni libere in tutto il territorio nazionale, il Parlamento bocciò la mozione. Non so se abbia mai avuto paura di volare, ma il suo fine giustificava mezzi d’interesse decisamente fuori dall’ordinario.
Arriva a Firenze, in una squadra che vantava elementi del calibro di Daniel Passarella, Claudio Gentile, Lele Oriali e capitan Antognoni, tra gli altri. Mette la firma sul tabellino in 8 occasioni – la prima contro l’Atalanta, in un 5-0 -, di cui 2 in Coppa UEFA, ma percepisce una sorta di antitesi tra l’espressione intellettuale che lo circonda e l’esigenza della vittoria. Ama essere circondato dalla cultura, odia l’esasperata rincorsa ai tre punti, anche senza un briciolo di estetica in campo.
Prima di ogni cosa c’è la bellezza. La vittoria è qualcosa di secondario. Quello che davvero conta è la gioia. Il calcio è un’arte e come tale dovrebbe mettere in mostra la creatività: vincere non è la cosa più importante. Se Vincent van Gogh e Edgar Degas avessero saputo in anticipo il livello di notorietà che avrebbero raggiunto, probabilmente non sarebbero riusciti ad ottenere i risultati a cui sono arrivati.
Quando sei un artista, ed il calciatore è un artista, devi divertirti, dare libero sfogo a quella creatività senza stare lì a pensare “ma alla fine vincerò?”.
Socrates c’è stato
Il passo è breve, come detto, tra l’Antica Grecia ed il Brasile degli anni ’80, dove Socrates sarebbe tornato per giocare con Flamengo prima e Santos poi. Il gradino che separa l’oppressione dalla libertà, una scrivania o poco meno dove poter studiare da un campo da calcio frequentato in giovane età solo una volta a settimana, divenuto con il passare del tempo ordinario compagno di gioco in ogni routine quotidiana. Per proseguire la tradizione dei nomi leggeri e trascurabili, chiamò suo figlio Fidel: sarebbe scorsa nelle vene l’essenza sovversiva, la volontà di cambiare le cose e la consapevolezza di poter attuare quel desiderio.
D’altronde non aveva fatto altro per tutta la sua carriera, in bilico tra un camice da medico – che arriverà, a scarpini appesi al chiodo, nel 1988 – e la cabina di regia, da cui far partire pennellate dirette verso i compagni o la porta avversaria. Poco importa quale delle due, l’importante era lasciare un segno. Socrates ci è riuscito per davvero, nessun inganno: il Dottore ci sarà, c’è e c’è stato, anche quando il suo Corinthians otteneva l’alloro e lui chiudeva lentamente gli occhi. Guarda te il destino.