Ha un bacino idrografico da 12 935 km², oltre ad una lunghezza stabilita attorno ai 346 km. Non vi è nessun dubbio sulla sua portata storica e geo-politica per la capitale inglese, così come per l’importanza nei traffici commerciali: senza il Tamigi, non c’è Londra. Nella lista delle peculiarità del corso d’acqua più importante del suolo britannico, bisogna annoverare anche 3 date: 5 settembre 1882, 6 settembre 1913 e 1° luglio 2001.
Il fondamento della cronologia ci impone di partire dalle prime due, così lontane e così vicine per la storia delle co-protagoniste in questa storia. Sulla sponda settentrionale di quel fiume, durante la prima settimana di settembre, a 18 anni dal XX secolo, il maestro di grammatica Robert Buckle ed alcuni suoi studenti decidono di far propria una tradizione nata alcuni anni addietro: creare una squadra calcistica, affiliandola ad un cricket club che abbia già visto la luce nel recente passato.
Nascite
Detto, fatto: nasce l’Hotspur Football Club, il cui primo presidente (ed unica risorsa pecuniaria della società) fu un precettore di Bibbia alla All Hallows Church, a Londra ovviamente. Poco tempo dopo, nell’aprile del 1884, una decisione che si è trascinata fino ai giorni nostri: il club viene ufficialmente rinominato “Tottenham Hotspur”. Ed il resto è storia, una storia che si intreccia tra i mulinelli del Tamigi, guardando sull’altra sponda, quella meridionale.
Nessuno studente di grammatica a South London nel 1886. O meglio, nessuno studente di grammatica a cui si possa attribuire la creazione di un football club: il merito, questa volta, va dato agli operai di Woolwich, un sobborgo reale della cittadina da cui passa il meridiano 0, Greenwich. Un’altra creazione, come tante in quel periodo nella città londinese, ed un’altra squadra, il Dial Square; sarà poi Royal Arsenal (dalla fabbrica di manifatture militari dov’erano impiegati gli operai di cui sopra) e Woolwich Arsenal, finché il prefisso non scomparve, lasciando una denominazione nota ad un qualsiasi appassionato del rotolamento della sfera a rombi sul manto erboso. Sì, ma quando fa il suo ingresso nella storia quel 6 settembre 1913?
Bisognerebbe chiederlo agli spiriti che abitano un luogo ad oggi inabitato, ma che per 93 anni è stato la casa degli operai diventati calciatori professionisti. Quasi un secolo di gioie, dolori, successi e desolazioni, racchiuse tra le mura di Highbury, in un terreno da 100×67 metri ad Avenell Road. Qui, 31 anni ed un giorno dopo la nascita dell’ormai consolidato Tottenham, viene a giocare l’Arsenal, che ha visto la luce nella parte opposta della città. È l’inizio della fine, la nascita di un conflitto sportivo destinato a rimanere vivo nelle coscienze dei più, perlomeno dei londinesi.
Se sei di Londra, le possibilità che tu scelga di supportare una delle due compagini (a meno che non si decida di tifare una squadra fuori dai confini della città) è ridotta a 2/12: oltre a Spurs e Gunners, infatti, bisogna includere anche Chelsea, Crystal Palace, Fulham, West Ham, Brentford, Millwall, QPR, Wimbledon, Charlton e Leyton Orient. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, si viene a creare un out-out: se sei di North London, non puoi fare il democristiano. O Tottenham o Arsenal.
Un semplice ragazzo di Outer London
In una famiglia di origini giamaicane di Plaistow, una frazione di Newham, nella parte orientale della città, non c’era tempo di pensare al calcio. Wihelmina e Sewell Campbell osservavano l’ultimo di dodici figli aprire gli occhi, in un mercoledì 18 settembre 1974. Mamma impiegata alla Ford e papà da una vita in ferrovia, ogni notte si dedicava qualche minuto alle preghiere: le possibilità di veder immischiato in loschi giri qualche elemento della famiglia erano tutt’altro che prossime allo zero assoluto.
Sol, però, era un piccolo barlume di speranza a cui potersi affidare per il futuro. Lui sì che pensava al pallone, in una marea di difficoltà che avrebbero fatto strabordare il corso d’acqua cittadino:
Mi isolavo da tutto, perché a casa non c’era spazio per crescere: tutto era troppo stretto ed era difficile persino respirare. La gente non capisce quanto ciò possa urtare un bambino: non mi era permesso di parlare, la mia unica espressione era il calcio.
Sì, il calcio, quel passatempo che con il passare del tempo diventa un traino al quale aggrapparsi per imboccare la strada giusta tra le mille possibilità che il destino può riservare ad un ragazzo dal background simile. Calcio e scuola, un connubio nel quale si trova a suo agio, tant’è che ottiene una borsa di studio per Lilleshall, sede della Scuola d’Eccellenza della Football Association. Lo notano persino al West Ham, dove si rendono conto che un attaccante fisico e da svezzare può essere un’ottima aggiunta per il settore giovanile degli Hammers.
Un intoppo in quel percorso da intraprendere, però, arriva proprio durante un allenamento con la casacca del West Ham: il coach lo insulta, cancellando in un millisecondo ciò che dovrebbe essere il rapporto tra un allenatore ed i propri ragazzi, intriso di stima e rispetto reciproco.
Sarai contento, Sol: le Indie Occidentali hanno battuto l’Inghilterra a cricket.
Non ci è dato sapere della reazione verbale di Sol, ma il fatto che abbia immediatamente abbandonato il campo da gioco è sinonimo della forza d’animo del ragazzo. Piuttosto che farsi calpestare, preferisce aiutare i suoi nella nuova attività lavorativa familiare, a Southampton, lontano da casa: il pallone è stato calciato con troppa veemenza, forse non si riesce più a recuperarlo. Forse.
Thank you, Spurs
Era andato lontano, consapevole che il treno dell’opportunità, su cui sarebbe dovuto salire in maglia West Ham, avesse già saltato senza possibilità di ritorno la fermata a casa Campbell. Un giorno, però, arriva una chiamata da un quartiere londinese finora sconosciuto dal giovane Sol: Len Cheesewright, osservatore per le giovanili del Tottenham, lo convince a spostarsi a North London. È l’inizio di una storia destinata ad avere un epilogo trionfale.
Aveva sempre fatto l’attaccante, ma il coach agli Spurs, Keith Waldon, lo sposta in mezzo alla difesa, laddove potesse far venire gli incubi agli ex colleghi avversari. Inoltre, si fa sempre più viva la forza d’animo accennata in precedenza: è responsabile, maturo e conscio di poter essere un punto di riferimento nello spogliatoio; nonostante ciò, rifiuta una fascia di capitano che, qualche tempo dopo, avrebbe comprensibilmente indossato al braccio.
Il treno, alla fine, è passato, e la prima fermata della nuova tratta avviene il 5 dicembre 1992, a White Hart Lane: il Chelsea vince di misura in casa degli Spurs, ma Sol riesce ad esordire in Premier League, andando persino in gol. Inizia a macinare fiducia, diventando un perno nella retroguardia della formazione allenata dai vari Ardiles e Perryman, prima che Gerry Francis prendesse in mano le redini dei londinesi: con lui, arriva la consacrazione, fascia di capitano inclusa.
Il punto più alto, però, lo tocca con George Graham in panchina: il 21 marzo 1999, infatti, contro il Leicester City, a Wembley, diventa il primo capitano di colore a sollevare un trofeo nella storia del calcio inglese: si tratta della Worthington Cup, ossia la Football League Cup. Ricordate l’epilogo trionfale? Beh, in molti si aspettavano che potesse essere così. Epilogo, sì, ma mai così lontano dall’essere trionfale.
Sol Campbell, per un pugno di denari
Passarono altri tre anni da quel trionfo (di cui uno da goleador, con 6 gol nella Premier League 1998/1999), ma il rapporto con la società, al contrario di quello con la tifoseria, continuava ad incrinarsi sempre più. Il punto di rottura avvenne alla scadenza del contratto di Campbell, nel 2001: nonostante un’offerta faraonica, che l’avrebbe reso il giocatore con il contratto più ricco in 119 anni di storia Spurs, decise di lasciare. Fin qui, niente di sconvolgente: a Londra aveva vinto poco, ed il suo status chiedeva un palmarès ben più ricco, nel momento fisico, atletico e tecnico migliore della propria carriera.
Barcellona, Milan, Real Madrid: diverse compagini europee erano pronte a portarsi a casa uno dei difensori migliori nell’intero campionato britannico. No, niente partenza all’estero: meglio non spostarsi troppo, continuando a convincere in Premier League; beh, allora sarebbe stato Liverpool o Manchester United, giusto?
La speranza dell’universo Tottenham si stava per frantumare in mille pezzi, facendo catapultare Sol Campbell da icona a villano: un Giuda Iscariota d’inizio secolo, pronto ad abbracciare il nemico di sempre. Tutto vero: da White Hart Lane ad Highbury, da Spurs a Gunners, da Tottenham ad Arsenal.
Una decisione che avrebbe cambiato gli equilibri calcistici nella zona settentrionale della capitale inglese, un tassello chiave per ultimare un puzzle della sentitissima rivalità tra le due squadre, già ben definito nel corso dei decenni, a partire da quell’edificazione della casa biancorossa nel distretto di Islington.
Una nuova dimora per Campbell, diventato il nemico per antonomasia nei dizionari dei tifosi Spurs: un clima d’odio serpeggiava tra i comignoli nella città, a partire dalla conferenza stampa di prestazione del luglio precedente, nella giorno in cui il Tottenham avrebbe dovuto presentare il nuovo portiere Richard Wright. Una data in particolare, però, era segnata con una X rosso fuoco sui calendari: 17 novembre 2001.
Un clima incandescente, quel giorno a White Hart Lane: Giuda torna nella sua vecchia casa, le cui chiavi gli sono state sottratte da diverso tempo. I 36.049 spettatori non fanno altro che intonare a squarciagola cori appositamente preparati per schernire il nuovo numero 23 degli eterni rivali in maglia biancorossa. Un esempio?
Heeeey, Sol Campbell, Judas! I wanna know… why you’re such a cunt!
Non c’è bisogno di traduzioni, per una rivisitazione di Hey! Baby sulle note del rancore e dell’amarezza Spurs; ogni qualvolta Campbell si avvicinasse agli spalti, iniziava un temporale destinato a non finire nel breve periodo: piovevano insulti e sputi, sulla falsa riga dell’accoglienza del Camp Nou ad un Luis Figo da poco madridista il 20 ottobre 2000.
Finì 1-1, con un pareggio in extremis del centrocampista di casa Gustavo Poyet, risposta al vantaggio iniziale degli ospiti con Robert Pirès, ma mai esultanza fu più fragorosa per un pareggio. L’idea di veder vittoriosi due acerrimi nemici (uno ordinario, l’altro nuovo) avrebbe fatto mangiare diverse mani sugli spalti dell’arena casalinga.
L’artigliere ha sparato
Ero affamato di successo e in disappunto per il mancato progresso del Tottenham. Volevo vincere e l’ho fatto: questa cosa ha fatto male a un po’ di persone. Qualcuno mi ricorderà, qualcuno non lo vorrà fare. Era un trasferimento che dovevo fare: volevo migliorarmi sia come persona che come calciatore, e l’Arsenal era meglio del Tottenham in qualsiasi categoria, dall’organizzazione societaria al livello tecnico.
Dichiarazioni difficili da mandar giù, ma cosa ci si potrebbe aspettare d’altro? Alla fine, con i Gunners, fu parte integrante della squadra degli Invincibili, vinse 2 Premier League, 3 FA Cup (con il Double nel 2001/2002), 2 Community Shield, collezionando in totale, tra tutte le competizioni, 210 presenze condite da 12 gol e 3 assist. In più, l’Arsenal sfiorò la prima vittoria della sua storia in Champions League, non riuscendo ad avere la meglio sul Barcellona nel 2006; Campbell, tra l’altro, andò anche a segno.
Un campione che ebbe fortuna solamente dopo aver voltato le spalle al passato, stringendo la mano ad un Diavolo con indosso la maglia biancorossa. Da “Dare to Do” a “Victory Through Harmony”, da capitano degli Spurs ad idolo dei Gunners fin dal primo giorno, per aver abbandonato i nemici di sempre.
È cambiato tutto nella prospettiva di carriera di Sol Campbell, da quel trasferimento tanto iconico quanto disonorevole. Nonostante abbia più volte confermato, senza batter ciglio, di non essersi mai pentito di quella decisione, riavvolgendo il nastro cosa può rimanere impresso nel trascorso del suo passato? Probabilmente, la risposta è raccolta in uno scatto.
Un’istantanea dalle mille parole, censurabili, ed emozioni, indiscutibilmente negative. In quella seconda estate dall’inizio del terzo millennio, però, niente ultima cena, nessun bacio né trenta denari di compenso: un uomo solo davanti alla burrasca del Tamigi. Anche Giuda può essere un eroe: basta schierarsi dalla parte più vantaggiosa della narrazione.