“L’Aquila” Mike Maignan ha smesso di volare; la sua leadership, il carisma innato con cui guidava in modo ossessivo la retroguardia rossonera appaiono come un lontano ricordo. L’ultima presenza del francese risale a Milan-Napoli del 18 settembre: da lì in poi, di Maignan si è saputo poco o nulla, quasi come si trattasse di un disperso. Theo Hernandez vive le partite a testa bassa, battendo il cinque agli avversari come un piccolo chierichetto; sembra non reagire più a tutto ciò che accade in campo, ha un approccio quasi stoico, e nemmeno le provocazioni nei derby, che fino a pochi mesi fa lo facevano scattare nervosamente, sembrano poterlo scalfire. Dal ritorno al Mondiale il bilancio è disastroso: sostituito dopo 45 minuti a Lecce, non convocato a Roma contro la Lazio per sospetto affaticamento muscolare, e diverse prestazioni gravemente insufficienti.
Sandro Tonali è malinconico; si aggira per il campo stremato, costretto a coprire praterie di campo da un sistema di gioco ormai logoro. La gamba appare spompata, ma – quel che è più grave – è che il cuore non batte più. Il numero otto rossonero è la personificazione del milanismo in campo, ma forse proprio il suo legame affettivo nei confronti della maglia, in un momento simile, lo sta lasciando attonito, impotente. Rafael Leão non sorride più; è triste, indolente, inarca di continuo le sopracciglia con lo sgomento di chi non si capacita di come una famiglia felice sia caduta in un simile abisso di apatia. Panchinato consecutivamente contro Sassuolo e Inter, come non gli succedeva dal primo anno in Italia, segno di un rapporto non più idilliaco col suo padre calcistico Stefano Pioli, l’uomo che lo aveva spronato a sorridere di più, perché il talento di Rafa, senza gioia, si spegne.
Per analizzare la crisi verticale del Milan, non si può che partire da questi volti, simboli di un gruppo che negli ultimi mesi sembra aver perso la voglia di stare insieme. Lo stesso gruppo, negli scorsi anni, aveva dato dimostrazioni di coesione con pochi precedenti; lo stesso Pioli, più volte ha rimarcato la sua fortuna nell’allenare un gruppo speciale.
A Ottobre è uscito nelle sale “Stavamo bene insieme”, documentario sul Milan di Ancelotti impreziosito da una commovente chiacchierata nel cerchio di centrocampo di San Siro tra Massimo Ambrosini, Filippo Inzaghi, Paolo Maldini, Andrea Pirlo e Gennaro Gattuso. La visione lascia una sensazione fortissima: il Milan di Ancelotti non ha vinto solo perché era una squadra di campioni, ma anche perché si trattava di un gruppo solidissimo, composto da mostri di mentalità che remavano nella stessa direzione, uniti dalla bramosia di vittoria prima ancora che dall’intesa in campo. Il Milan di Pioli non è certo un gruppo paragonabile a quello allenato da Ancelotti, ma c’è un punto fondamentale che li accomunava: i giocatori “stavano bene insieme”, vivevano la partita con la voglia di rimanere compatti, anche di fronte ad ostacoli apparentemente insormontabili, come le tante partite affrontate con sette/ottto indisponibili, poi vinte e giocate alla grande come se nulla fosse. C’è un’immagine che più di tutte rappresenta il Milan di Pioli e ciò che lo rendeva una squadra speciale: è quella di Rio Ave, risalente ai preliminari di Europa League di tre anni fa. Sotto un gelido acquazzone torrenziale, i giocatori sono disposti in linea nell’attesa dei rigori; da sinistra, Theo Hernandez è piegato dal freddo e si massaggia lo stomaco a braccia incrociate, Brahim guarda il rigore con sguardo fiero, mentre condivide un asciugamano con Theo e Bennacer, per coprirli come una madre premurosa; alla sinistra di Bennacer, Kjaer, mani sulle ginocchia, parla con Leão, probabilmente tranquillizzandolo come un vero leader, incoraggiandolo in vista di un rigore pesante. Sembra la foto di una legione che si compatta prima della battaglia, di certo è la foto di un gruppo che ama stare insieme, e da quel momento darà inizio a una storia culminata con un impronosticabile scudetto. Sono cambiate diverse facce, ma quello spirito, il Milan, non l’aveva mai perso.
Oggi, a tre anni di distanza, i rossoneri sembrano aver perso la magia che permetteva al gruppo di superare ogni avversità. Oggi, il Milan è una squadra depressa, sfiduciata, apatica. Come spesso accade, quando gli atteggiamenti dei giocatori insospettiscono i tifosi e gli allenatori compiono scelte impopolari, si apre la corsa al sensazionalismo e al retroscena su presunte spaccature nello spogliatoio. Chi scrive l’articolo decide di attenersi ai fatti, trascurando ipotesi e suggestioni su possibili litigi interni all’ambiente milanista che, in mancanza di prove fondate, non costituiscono altro che illazioni.
La gestione di Pioli
Nel 2023, il Milan “vanta” la peggior difesa nei top cinque campionati europei (diciannove gol subiti nelle prime otto partite stagionali), ha perso quattro partite consecutive (non capitava dal 2017 con Montella), e non vince da un mese (Salernitana-Milan del 4 Gennaio). Di fronte a un calo così drastico e a imbarcate clamorose come quelle subite contro Inter, Lazio e Sassuolo, ridurre il tracollo a una sola causa è un esercizio piuttosto pigro e semplicistico. Per questo motivo, più che ricondurre il periodo difficile a una sola motivazione, che si tratti del contraccolpo psicologico del 2-2 contro la Roma o del mercato fin qui poco proficuo, si prenderanno in esame una serie di concause e di errori che, nel loro intersecarsi, hanno portato il Milan a rischiare il posto Champions e condotto Stefano Pioli sulla graticola.
Il primo indiziato sul banco degli imputati, in questo momento, sembra essere proprio l’allenatore emiliano, a cui vengono rimproverate la gestione della rosa e una scarsa flessibilità nel prendere contromisure. In effetti, quando si parla del Milan di Pioli, spesso si tende a sottovalutare quanto questa squadra si sia evoluta nei tre anni di progetto tecnico, proprio per merito di un allenatore che, nei momenti di sbandamento, ha sempre saputo prendere le contromisure tattiche corrette per raddrizzare la nave. È accaduto due anni fa, quando dopo una sconfitta pesantissima a Roma contro la Lazio (3-0), Pioli decise di far arretrare di una decina di metri il baricentro della linea difensiva, aggiungendo Brahim Dìaz come jolly dietro la punta; da quella intuizione, il Milan vinse 3-0 a Torino contro la Juve e chiuse a Bergamo un’annata coronata dal ritorno in Champions. Lo stesso Milan 2021-22 approccia la stagione con alcuni interessanti spunti tattici: a Bergamo con l’Atlanta vince una partita arrembante, contraddistinta da terzini dentro al campo e fluidità totale nei quattro uomini offensivi. Dopo un inverno poco brillante e sporcato dai copiosi – soliti – infortuni, Pioli attua un’ulteriore rivoluzione tattica: Tomori-Kalulu esasperano un’uscita in pressing iper aggressiva, seguendo gli attaccanti fino a cinquanta metri dalla porta, e sulla trequarti Brahim Díaz lascia il posto a uno tra Kessiè e Krunic, per rimpolpare il centrocampo. Il Milan prende due soli gol nelle ultime sei giornate di campionato, in totale sei nell’intero girone di ritorno, e conquista il tricolore.
Quest’anno, l’inserimento di giocatori associativi e di qualità come De Ketelaere e Adli, giocatori più di pensiero che di strappo, lasciava presagire una nuova evoluzione del Milan, con la definitiva consacrazione a squadra completa: non solo capace di stritolare l’avversario nella morsa di un pressing asfissiante e con le accelerazioni di Theo e Leão, ma altrettanto in grado di superare blocchi bassi (problema del Milan da anni) con la tecnica e la creatività di giocatori come il belga e il francese. Questo scenario, che il sottoscritto pronosticava in un articolo primaverile, è andato perso – per dirla alla Blade Runner – come lacrime nella pioggia.
Pioli ha chiuso da subito le porte ad Adli, uno dei giovani più creativi in Europa nella stagione passata (6 assist, tra i migliori U21), e ha tentato di trovare una quadra con l’ex Brugge schierato sulla trequarti. Due aspetti, su tutti, hanno fatto crollare il piano dell’allenatore. La perdita di Kessiè, sostituito da un Vranckx quasi mai impiegato dal Mister, ha lasciato un vuoto che ha costretto Tonali e Bennacer a coprire un’infinità di campo, pur non avendo sostituti all’altezza che potessero farli rifiatare; l’altro fallimento, finora, è rappresentato da Charles De Ketelaere: il belga lo scorso anno al Brugges agiva da seconda punta assieme a Noa Lang, giocatore creativo con cui amava associarsi; al Milan, Pioli gli chiede di fare da collante tra centrocampo e attacco, ma l’anarchia di Leão da un lato e l’impalpabilità di Messias e Saelemaekers dall’altro, oltre alla poca mobilità di Giroud, gli hanno impedito di inserirsi in uno spartito congeniale alle sue caratteristiche. La sensazione è che sia Adli che De Ketelaere beneficerebbero del giocare insieme, potendo dialogare ed esprimere tutta la loro qualità in fraseggio, magari in un 4-3-3 col francese schierato da mezzala creativa e il belga largo a destra. Questa soluzione, però, non è mai stata provata dal tecnico campione d’Italia.
Nonostante prima della sosta mondiale il Milan abbia vinto diverse partite per il rotto della cuffia, Spezia e Fiorentina su tutte, Pioli, forse peccando di superbia e sottovalutando i problemi, ha deciso di insistere sugli stessi principi. Se il Milan pre-Mondiale era una squadra che, complice la perdita di Kessiè, spesso appariva totalmente spaccata in due, quello tornato dal Mondiale – eccezion fatta per Salerno e i primi ottanta minuti di Milan-Roma – è un colabrodo. Tra infortuni irrisolti avvolti dal mistero (qualcuno ha visto Maignan?), nuovi acquisti mai inseriti e giocatori tornati dal Mondiale in condizioni fisiche più che precarie (Theo, Leão, Giroud), il Milan, anziché tentare l’annunciato assalto al Napoli, è calato a picco. Memori delle lucide contromisure prese da Pioli negli anni passati, sembrava lecito aspettarsi una svolta tattica sin dalla partita di Lecce o dal derby di Supercoppa. Invece, un’imbarcata dopo l’altra, forse recitando il beffardo monologo di “La Haine”- “Fino a qui…tutto bene”- Pioli ha deciso di calare a picco con le proprie idee, senza mai rimpolpare un centrocampo esausto e confermando l’approccio ultra aggressivo di una difesa irriconoscibile. Il rischio, però, è che come nel caso del capolavoro francese firmato Mathiew Kassowitz, alla fine ci si schianti. Lele Adani, dopo Milan Sassuolo 2-5, si è espresso in modo laconico ed efficace sui problemi difensivi del Milan: “Non pressa, non copre e non marca”.
La formazione schierata nel derby, primo accenno di reazione di Pioli dopo le numerose disfatte, più che rappresentare un ritorno alla lucidità, aveva il sapore di una dichiarazione di resa totale: un 3-5-2, mai provato prima, con l’obiettivo di evitare goleade nel primo tempo. Dopo la quarta sconfitta consecutiva, è arrivata la conferma perentoria dalla società: Pioli non si tocca. Non è da escludere che a pesare sulla decisione sia anche il rinnovo triennale che l’allenatore ha sottoscritto solo tre mesi fa, oltre alla fiducia immutata da parte dell’area tecnica. Maldini, al termine di Lazio-Milan, con un tentativo di rasserenare l’ambiente, ha accolto con stizza una domanda sull’eventualità di un esonero di Pioli. Se è vero che in questa stagione il tecnico non ha – finora – dimostrato la stessa lucida flessibilità esibita nelle scorse stagioni, è anche vero che individuarlo come unico capro espiatorio della stagione fin qui turbolenta dei rossoneri è una semplificazione. I problemi, in realtà, nascono da più lontano.
La dirigenza: programmazione saltata
Il Milan a Giugno perde Kessiè e Romagnoli: il primo rappresentava una colonna portante del progetto tecnico di Pioli, infaticabile equilibratore della squadra campione d’Italia; il secondo, spesso sottovalutato, era senz’altro inadatto alle pressioni furiose a cui Kalulu e Tomori ci avevano abituato, ma quando impiegato, si era sempre fatto trovare pronto. Prima del passaggio di proprietà a RedBird, Maldini e Massara sembravano aver già chiuso due colpi che avrebbero preso il posto in rosa dell’ivoriano e dell’ex capitano milanista: Renato Sanches e Sven Botman dal Lille, per un totale di circa 45/50 milioni. A quel punto, restava da inserire solo l’ultimo tassello offensivo, per completare il mercato ambizioso che Maldini, in un’intervista con la Gazzetta a pochi giorni dallo scudetto, aveva richiesto come condizione necessaria per rendere il Milan seriamente competitivo in Europa:
Con due o tre acquisti importanti e il consolidamento di quelli che abbiamo possiamo competere per qualcosa di più importante in Champions.
L’intervista lascia l’intero ambiente rossonero in preda allo sgomento, soprattutto per un altro passaggio, in cui Maldini dichiara di non essere stato ancora contattato dal nuovo proprietario Gerry Cardinale. Dovrà passare circa un mese, tra tira e molla, spifferi e sensazioni oscillanti prima di arrivare all’accordo: è il 30 Giugno, Maldini e Massara firmano il rinnovo col Milan. Ma è tardi. Nel frattempo, Renato ha smesso di aspettare il Milan, e Botman ha deciso di accettare la corte del Newcastle; Enzo Fernandez, miglior giovane dell’ultimo mondiale, appena acquistato dal Chelsea per 120 milioni, aveva dato la priorità ai rossoneri, che però, in piena trattativa per il rinnovo dell’area tecnica, non hanno potuto chiudere il suo acquisto. Per avere un quadro completo sulla stagione del Milan bisogna partire da qui, da un mercato la cui programmazione è saltata per aria.
Negli ultimi anni la dirigenza rossonera ci aveva abituati a strategie chiare, come quella che aveva portato Mike Maignan, sostituto di Donnarumma, a Milano già a metà Maggio. Quest’anno, complici il passaggio di proprietà e il rinnovo tardivo dei dirigenti, la sensazione è che, De Ketelaere a parte – seguito da anni dall’area scout – il mercato sia stato improvvisato, con scelte che forse rappresentavano il piano C (almeno) nei piani dell’area tecnica. Come sempre accade nel calcio, la confusione ai piani alti si riflette sul campo, e per quanto si possa sostenere il valore ancora inespresso dei giovani talenti acquistati dal Milan quest’estate, la sensazione è che la rosa abbia lacune in più rispetto all’anno scorso e problemi strutturali. Il Milan gioca da tre anni col 4-2-3-1, ma quest’anno ha aggiunto in rosa tre mezzali come Pobega, Vranckx e Adli, lasciando scoperta la casella del post-Kessiè. De Ketelaere è un acquisto in piena linea con la strategia del Milan, difficilmente criticabile, ma dando un occhio alla sua heat-map al Brugge, ci si rende conto che non ha mai ricoperto le corsie centrali del campo.
Al di là della giovane età e dei consueti tempi di ambientamento, il minutaggio più che risicato dei nuovi arrivati segnala un problema di scollamento tra dirigenza e allenatore. Yacine Adli, investimento da otto milioni due anni fa, mezzala creativa tra le migliori in Europa l’anno scorso per passaggi chiave, 114 minuti giocati in stagione; Aster Vranckx, capitano del Belgio U21, titolare in Champions col Wolfsburg a soli 18 anni, 70 minuti; Malick Thiaw, capitano della Germania U21, 144 minuti; Sergino Dest, ex Barça e Ajax, buon mondiale con gli USA, 326 minuti; Tommaso Pobega, due ottime stagioni di gavetta in Serie A, uno dei più utilizzati, 570 minuti; Charles De Ketelaere, uno dei prospetti più interessanti in Europa nel suo ruolo, prima schierato ad oltranza nonostante le difficoltà, poi sparito, di nuovo schierato e sostituito al 45”, 685 minuti; Divock Origi, riserva di lusso del Liverpool di Kloop, tormentato dagli infortuni sin dal suo arrivo e preferito a Kolo Muani dai dirigenti, 560 minuti. Meno di quattro partite totali giocate per sette giocatori sommati, un bilancio difficilmente giustificabile a fronte del capitale investito.
Premesso che probabilmente Kessiè e Romagnoli non sono stati sostituiti con l’attenzione dovuta, la sensazione è che Pioli abbia ignorato i nuovi acquisti, dimostrando un conservatorismo – forse legato alla riconoscenza nei confronti del gruppo scudetto – in controtendenza coi suoi primi due anni al Milan. Maldini e Massara, a questo punto, dovrebbero interrogarsi sulle strategie da seguire nelle prossime finestre di mercato: ha davvero senso investire su ragazzi di vent’anni, che necessitano di minuti e pazienza, se l’allenatore non sembra più disposto a lanciarli? Che la si guardi dal lato di Pioli, ipotizzando che i nuovi arrivi non siano all’altezza, o da quello dei dirigenti, rimproverando all’allenatore il poco coraggio avuto nell’inserirli, l’unica certezza è che qualcosa non sia andato per il verso giusto. Piccola postilla, che molti tifosi imputano alla dirigenza, ancora più di un mercato che finora ha dato un contributo nullo: davvero a Gennaio il Milan non poteva trovare un portiere con una percentuale di parate migliore di Tatarusanu (da Gennaio siamo intorno a un gol ogni due tiri nello specchio)?
Società
Nell’analizzare la stagione del Milan, è inevitabile trattare anche la questione societaria, che in parte ha contribuito a rendere burrascosa la programmazione. Dopo un flirt con la proprietà di “Investcorp”, il 31 Maggio, a pochi giorni dal diciannovesimo scudetto, viene firmato il preliminare, a sancire l’imminente passaggio di proprietà: il Milan passa a RedBird, il nuovo proprietario è Gerry Cardinale. Le prime indiscrezioni su RedBird, proprietaria del Tolosa in Ligue 2, preparano i tifosi milanisti a una gestione oculata, sostenibile, in piena linea col periodo Elliott, ma con qualche prospettiva in più in termini di sviluppo del brand e crescita dei ricavi.
L’intervista di Maldini alla Gazzetta è un fulmine a ciel sereno: il direttore tecnico rossonero sembra minacciare di poter lasciare il club, e si dichiara sorpreso per il fatto di non essere stato ancora contattato da Cardinale. Perdere Maldini e Massara, i due primi artefici della rinascita rossonera, sarebbe stato un harakiri comunicativo e strategico imperdonabile; il 31 Giugno, infatti, Maldini e Massara firmano il rinnovo, ma l’ex bandiera milanista, intercettata dai microfoni all’uscita da CasaMilan, appare esausta e contiene l’entusiasmo, come se il rinnovo fosse arrivato più per necessità che per reale convinzione nel patto con la società. Ne è dimostrazione evidente il mercato condotto dagli stessi dirigenti: budget non superiore ai cinquanta milioni, e niente contratti proibitivi.
A questo punto sorge una questione: per quale motivo Paolo Maldini, dopo un’intervista in cui lasciava presagire la possibilità di un addio nel caso in cui le condizioni della nuova proprietà non lo soddisfacessero (i famosi tre top player), ha deciso di firmare? Ha avuto rassicurazione sulla sessione estiva 2024, la prima con RedBird ufficialmente al comando, o per amore, non potendo accettare di lasciare la sua creatura, ha deciso di scendere a compromessi pur di restare? Solo il tempo potrà darci risposte, ma la sessione invernale, con un Milan del tutto immobile sul mercato, non sembra dare segnali confortanti.
C’è un ultimo aspetto da segnalare tra le svolte che hanno avuto luogo a livello societario: dal 5 Dicembre, Ivan Gazidis, AD della società che in pochi anni ha salvato un club sull’orlo del fallimento e lo ha ricondotto ai fasti passati, ha lasciato il Milan. A prendere il suo posto, nominalmente, è stato Giorgio Furlani, uomo di finanza e fedelissimo di Elliott. La perdita di Gazidis non è da sottovalutare per un motivo preciso: il sudafricano rappresentava il collante tra proprietà e area tecnica/sportiva, quindi una garanzia di lucidità razionale pronta a trovare il compromesso tra esigenze sportive e politica societaria; la sensazione è che, col suo addio, Paolo Maldini, eccellente uomo di campo, ma non certo un manager con l’esperienza di Gazidis, abbia assunto poteri quasi assoluti.
Di fronte a una situazione delicata come quella vissuta dal Milan in questo momento, forse, avere una figura societaria che, scevra di un legame affettivo con la parte sportiva – Pioli su tutti – possa prendere decisioni drastiche, sarebbe utile. Il rischio, come nel caso della riconoscenza di Pioli nei confronti del gruppo scudetto che gli ha regalato la più grande gioia della sua carriera, è che Maldini, affezionato all’allenatore e responsabile del suo rinnovo triennale, possa essere offuscato nel suo giudizio. A maggior ragione se, come sembra, chi dovrebbe rappresentare l’interesse di RedBird è del tutto assente dall’ambiente Milan. Gerry Cardinale non si fa vedere a Milano dal derby di andata, e nonostante la presenza annunciata, ha disertato la finale di Supercoppa a Riyad. Lo stesso Furlani non interviene mai ai microfoni, e il suo ruolo all’interno del club è avvolto nel mistero. Per chiarire le prospettive future del Milan, per capire se la strategia di RedBird andrà più nella direzione auspicata da Maldini nell’intervista alla Gazzetta, o se invece la nuova proprietà seguirà le orme di Elliott, sarebbe forse il caso di organizzare una conferenza di presentazione, per fugare ogni dubbio e non dare adito alle inevitabili speculazioni.
Al Milan, all’improvviso, sembra non funzionare più nulla. Ma come spesso accade, la confusione in campo altro non è che specchio di una confusione ai piani più alti: per superare il momento e ripartire, servirà fare chiarezza, su ogni fronte. La stessa chiarezza che sarà fondamentale per ripartire anche in campo, e tornare a stare bene insieme.