La nostra Suggestione di oggi coinvolge un codino, una classe cristallina ed un giocatore entrato nella storia del nostro calcio. “Ah, da quando Baggio non gioca più…”.
Milano è in festa. Dopo qualche anno di troppo finalmente le celebrazioni hanno fatto ritorno all’ombra del Duomo. Bar e palazzi si colorano di bandiere rossonere, il sole di maggio scalda la dolce felicità che la città, o almeno metà di essa, assapora. L’aria è limpida, inebriata di quella gioia che mancava da un po’. Dal 23 maggio 1999, quando superando il Perugia con un 2-1 a domicilio il Milan vinceva l’ultimo Scudetto del millennio. A distanza di cinque anni, quel tricolore torna a fregiare la maglia del diavolo, la Milano rossonera riprende a gioire, la felicità fa di nuovo capolino nella frenetica città lombarda.
È il 16 maggio 2004. Due settimane prima Andriy Shevchenko aveva riportato lo Scudetto al Milan con un gol che è valso i tre punti nello scontro diretto con la Roma. A San Siro si prepara la festa e in arrivo c’è un ospite speciale. Quel pomeriggio va in scena Milan-Brescia, l’ultima partita di uno dei più grandi campioni del nostro calcio.
Milano si prepara a fare da cornice all’ultima fatica di Roberto Baggio, al saluto del numero 10 degli italiani. La festa in quel caloroso pomeriggio milanese è pronta, la gioia si vela di una patina di malinconia. Perché di fronte alla celebrazione di una tifoseria, ci sarà la tristezza di un popolo intero. È il 16 maggio 2004, è il giorno dell’addio di Baggio al calcio e il giorno in cui, in fondo, l’intero calcio italiano cambiò completamente.
Ci sono le tue scarpe ancora qua
Quel momento a lungo temuto sta per arrivare. Per un grande campione il giorno dell’addio ha sempre un valore particolare. È il giorno in cui si rende veramente conto di ciò che ha fatto, di come la propria presenza abbia lasciato un’impronta tangibile. È il giorno in cui anche i rivali di sempre accantonano l’ascia di guerra e rendono omaggio al nemico di tante battaglie.
È il momento in cui realizza che c’è qualcosa dopo, che la vita nel rettangolo verde a un certo punto finisce e che un nuovo inizio è dietro l’angolo. Una sorta di rinascita, in cui quello che ha fatto progressivamente conterà sempre meno. È il giorno in cui l’eroe torna tra i mortali dopo aver visto l’Olimpo e deve rimettersi in gioco, deve accettare che un glorioso capitolo della sua storia è finito e presto uno nuovo ne comincerà. Inoltre, tutti i privilegi ottenuti nel corso della precedente avventura non offriranno alcuna garanzia per quella che sta per iniziare.
Lo smarrimento di fronte a questo abisso è comprensibile. E forse è questo il peso che deve aver sentito Roberto Baggio quando è salito per l’ultima volta sul pullman della squadra per dirigersi alla sua festa, in uno stadio che l’ha visto protagonista in moltissime occasioni. Dopo 643 partite da professionista, indosserà per l’ultima volta gli scarpini e scenderà in campo ancora un’ultima volta, pronto come sempre a deliziare i tifosi accorsi lì solo per poter raccontare di aver visto la fatica finale del Divin Codino.
L’abisso, però, lo vivono anche i tanti appassionati che popolano i seggiolini di San Siro o che occupano i divani delle proprie case. Di lì a qualche ora il calcio come lo conoscono cambierà, perché perderà uno dei suoi riferimenti centrali. La paura è comprensibile, il cambiamento incombe.
Il fatidico momento si avvicina, le due squadre scendono in campo. Due leggende si avvicinano alla linea bianca piazzata in mezzo al rettangolo verde, solitamente spartiacque, stavolta semplice collante. Da una parte il protagonista di giornata, vestito di bianco come a una cerimonia sacra. Dall’altra Paolo Maldini, compagno di tante battaglie e vero e proprio monumento nazionale. I due capitani si scambiano i gagliardetti: è bello che l’ultima pacca sulla spalla di Baggio la dia uno come Maldini, uno dei pochi che, come il Divin Codino, si è innalzato a rappresentante nazionale di questo sport.
Finito il rito, la partita può iniziare. L’interesse su ciò che accade in campo è quasi pari allo zero. È una passerella. Tomasson e Shevchenko portano avanti il Milan, poi Kakà e Rui Costa nel secondo tempo chiudono il match. Nel Brescia il protagonista a sorpresa è Matuzalem, che mette a segno una doppietta. Il momento clou però è poco prima della fine del primo tempo. C’è una punizione per le rondinelle, la mattonella è quella perfetta per Baggio.
Il pubblico si mette timidamente in attesa, tutti ci sperano. L’ultimo gol, nell’ultimo match, in uno stadio come San Siro. Un lieto fine perfetto. Ma la carriera di Baggio non è mai stata una favola, non c’è nessun dolce finale. Il pallone si stacca dal piede del 10 bresciano e s’infrange sul palo della porta di Abbiati. Una beffa, in linea però col disegno globale. L’ultimo scherzo del destino.
Al minuto 84 poi arriva il momento fatidico. La lavagna luminosa si alza, si accende il numero 10. Baggio esce dal campo. Lo stadio intero si alza per applaudirlo, tanti occhi si inumidiscono. Paolo Maldini inizia a correre, raggiunge Baggio e lo saluta. Dall’inizio alla fine di quella giornata, il capitano rossonero da buon padrone fa gli onori di casa e omaggia quell’ospite speciale giunto lì a celebrare il suo giorno particolare. Con una sconfitta davanti a un pubblico festante, con un legno a bloccare l’ultima effimera gioia, termina la straordinaria carriera di Roberto Baggio. Cala il sipario su un’era del calcio italiano.
Da quando Baggio non gioca più
Precisamente un anno dopo, il 16 maggio 2005, un giovane cantautore bolognese pubblica uno dei suoi singoli di maggior successo. La sua voce qualche anno prima era stata tra le rivelazioni del panorama musicale italianano, l’enorme rana sulla copertina dell’album “…Squerez?” dei Lunapop era diventata ben presto un simbolo, riconoscibile quanto il codino di un calciatore che nel frattempo viveva una sorta di seconda giovinezza dalle parti di Brescia.
Quel giovane cantante è ovviamente Cesare Cremonini e quel 16 maggio, un anno dopo l’ultimo saluto di Baggio a San Siro, pubblica Marmellata #25. Una canzone sull’abbandono e sull’amore, sull’andare avanti anche dopo una forte rottura. Sul ritrovare la felicità anche dopo che il mondo è crollato.
Chissà quanti italiani si sentivano proprio smarriti e abbandonati come Cremonini. L’abisso descritto all’inizio è lo stesso provato dal cantante, lasciato dalla fidanzata e incapace inizialmente di andare avanti. L’addio al calcio del Divin Codino è stato egualmente traumatico per milioni di tifosi. Roberto Baggio è stato il 10 degli italiani, il simbolo di un’intero popolo. Dei sogni, delle speranze, ma anche delle delusioni e dei fallimenti.
Baggio è stato quel faro trascinante nel nuovo continente, quella luce nelle notti magiche, ma anche quel fatale errore a Pasadena, quel rigore tirato alle stelle. Roberto Baggio non ha avuto una carriera facile, è il riflesso perfetto del suo Paese. Ha dovuto faticare e soprattutto sopportare i continui scherzi tiratigli dal destino, che non si è mai stancato di infastidirlo, forse invidioso del suo talento.
Nell’antica Grecia gli uomini troppo fortunati o abili attiravano continuamente l’invidia degli dei, che infliggevano punizioni ingiuste per affermare il proprio status inattaccabile. Allo stesso modo Baggio ha visto l’Olimpo, ma ne è stato spinto via duramente ed è caduto rovinosamente. Forse per questo, nel momento più difficile, la forza gli è arrivata dalla fede, da quel Buddhismo abbracciato in giovane età e sempre trattenuto come luce guida.
Quella fede abbracciata quando era solo un ragazzo che mostrava prodigi con la maglia del Vicenza e che era stato comprato dalla Fiorentina, la quale per lui aveva in mente una carriera luminosa. Poi il ginocchio ha ceduto, poco prima di iniziare la sua avventura in maglia viola. Come se non bastasse, una settimana dopo il ritorno in campo quel ginocchio cede ancora, inesorabile e caparbio.
Gli infortuni continueranno a falcidiare Baggio per tutta la carriera, lo tormenteranno continuamente. A Pasadena, nella finale del Mondiale ’94 tra Italia e Brasile, il 10 azzurro gioca con una contrattura al flessore della coscia destra. Persino nel suo ultimo match contro il Milan gli acciacchi non lo lasciano in pace, costringendolo a scendere in campo con un gonfiore al ginocchio. Il tormento è la cifra caratteristica dell’intera carriera di Baggio. Le stigmate del fenomeno.
Baggio è stato indiscutibilmente il 10 degli italiani. Non solo per quello che ha fatto in Nazionale, ma perché è stato un simbolo d’unione, avendo vestito le maglie delle tre grandi rivali d’Italia: Juventus, Milan e Inter.
Dopo l’exploit alla Fiorentina, infatti, tra mille polemiche il Divin Codino è passato alla Vecchia Signora, dove ha vissuto la sua stagione migliore di sempre. Quella 1992/1993, quando regala alla Juventus la Coppa UEFA e mette in bacheca il Pallone d’Oro. Un italiano torna a essere il migliore giocatore del mondo: non accadeva dal 1982, con Paolo Rossi, e non accadrà più fino al 2006, quando a vincere sarà Fabio Cannavaro.
Rossi e Cannavaro, due idoli popolari che hanno regalato alla Nazione il trionfo più grande, un titolo mondiale. Baggio, a differenza loro, non solo non c’è riuscito, ma è stato ironicamente anche responsabile della fine del sogno. Il riferimento è sempre a quell’Italia-Brasile di Pasadena.
1994. È la finale del mondiale statunitense, si gioca a un orario improponibile. Le due squadre soffrono, arrancano, si fronteggiano stancamente. Nessuna affonda, lo 0-0 si trascina fino alla fine, dei tempi prima regolamentari e poi supplementari. Si va ai rigori, si parte con un errore per parte. Poi finalmente i protagonisti aggiustano la mira, fino all’errore di Massaro. I brasiliani passano in vantaggio con Dunga e a quel punto Baggio tira alle stelle dal dischetto. Game Over. Brasile campione e il mondo che crolla di nuovo sulle spalle del Divin Codino.
Ma è la caduta degli eroi ad avvicinarli agli esseri umani. Baggio è stato il 10 degli italiani proprio perché con loro ha condiviso la sofferenza del fallimento. I vincitori sono amati, ma sono lontani. I perdenti si possono toccare con mano tramite la compassione per la loro caduta.
Baggio non è stato Paolo Rossi, non è stato Fabio Cannavaro, non ha portato la sua patria al successo. Non ha regalato gioie, ma la cattiveria con cui il destino si è accanito su di lui ha creato una profonda connessione empatica. Il popolo si è rispecchiato nel fallimento di Baggio, ne ha condiviso il dolore. Ha visto in lui l’umanità che le stelle più luminose nascondono dietro al bagliore dei loro stupefacenti successi.
Con l’addio di Baggio si è chiusa un’era del calcio italiano. Ha lasciato l’ultimo calciatore in grado di fungere da trait d’union tra mondi diversi, tra differenti modi di vedere il calcio. Baggio ha rappresentato tutti e nessun numero 10 dopo di lui è riuscito più a raggiungere quel grado di rappresentatività incarnata dal Divin Codino.
Da quando mi hai lasciato pure tu
Quel 16 maggio 2004 il sipario è calato come una scure. Nello stadio più rappresentativo d’Italia, ha dato l’addio il calciatore più rappresentativo d’Italia. Da quel momento tutto è cambiato. Il calcio si è diretto verso la sua inesorabile deriva commerciale, abbassando le bandiere e mettendo nel mirino sempre e solo il profitto economico. Di lì a poco la spettacolarizzazione del pallone si concretizzerà, con la sua conseguente aziendalizzazione. Tutti questi bruschi cambiamenti hanno contribuito ad alimentare l’epica intorno alla figura di Baggio.
Il canto del cigno del calcio italiano è stato probabilmente il 2006. Un mondiale vinto col cuore, a sorpresa, contro ogni pronostico. Da lì il calo è stato continuo, la Serie A ha perso fascino prima col dominio incontrastato nerazzurro, poi con quello ancora più netto bianconero. Sono aumentati i complessi d’inferiorità verso gli altri campionati, sono spariti i fuoriclasse, destinati sempre ad altri lidi. Con Maldini, Del Piero e Totti si sono consumate poi le ultime bandiere. Il calcio italiano deve essere diventato irriconoscibile agli occhi umidi ed emozionati che hanno assistito quel 16 maggio 2004 all’ultima discesa in campo di Roberto Baggio.
Cesare Cremonini, però, nella sua canzone dopo tutta la sofferenza trova la sua marmellata. Nella casa inondata dai ricordi dell’ex fidanzata, le sue scarpe, il suo profumo, i suoi vestiti, alla fine il cantautore realizza che, col tempo, semplicemente si smette di pensare. Quel maledetto demone, flagello dell’umanità, alla fine è l’unico a poter portare sollievo. Il tempo scorre e a un certo punto, semplicemente, ci si accorge che continua a farlo, nonostante tutto. Vuol dire che c’è rimedio a ogni cosa, che poi un giorno per caso si trova la marmellata, metafora della felicità nel testo, e si va avanti.
Cosa vuol dire tutto ciò? Che la storia va avanti, non ci sono momenti che rimangono cristallizzati. Per quello c’è la memoria, il bene più prezioso per ogni uomo. Dopo l’addio di Baggio è cominciata una nuova era per il calcio italiano, non si può dire se migliore o peggiore, ma semplicemente diversa. Quello che è certo, però, è che come canta Cremonini, “da quando Baggio non gioca più, non è più domenica“, perché non è semplicemente più il calcio di prima, quello ormai vive solo nei ricordi. Difficilmente rivedremo un giocatore onnicomprensivo come è stato Baggio: nel frenetico universo calcistico odierno è davvero troppo complicato affezionarsi.
Il 16 maggio 2004 è il giorno dell’addio al calcio di un simbolo italiano, di un eroe troppo divino per i mortali e troppo mortale per gli dei. Ha lottato sempre e continuamente col destino, l’ha fatto abbracciando la sua fede e spingendo al limite le proprie energie. Ha rappresentato una nazione intera, l’ha portata a qualche centimetro dal sogno. Poi è caduto.
Ma si è rialzato e nel giorno della sua ultima fatica ha raccolto i risultati di tutto ciò che ha fatto nella sua carriera. Il giorno dell’addio al calcio per un grande campione ha sempre un valore particolare. È un abisso, sul quale però ci si può affacciare con un sorriso, perché si è alla fine di un viaggio meraviglioso e gli occhi umidi della gente sono lì a testimoniarlo.
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