Il caldo sta raggiungendo i suoi picchi nella Capitale. È giugno inoltrato, ci si avvicina ai mesi torridi, in cui Roma si svuota e diventa un guscio incandescente, privo della solita ressa che anima la città. Giugno è quel mese di passaggio che porta i romani verso il mare, verso le spiagge tirreniche, a cercare un po’ di sollievo nell’acqua e nel vento che soffia dalla costa. Nel giugno del 2006 però in pochi cercano sollievo nel fresco, in pochi si rendono conto della sofferenza che quelle temperature stanno per provocare. La Capitale, come tutto il paese, è in fermento. Qualcosa sta prendendo forma, una suggestione, per alcuni un’idea, per i più sfrontati una convinzione. Sussurri tra le strade, nei bar, all’interno delle case. Sogni e speranze. Sofferenze e aspettative non riguardano la torrida stagione in arrivo, ma solo un rettangolo verde e un pallone che vi rotola inesorabilmente.
È il giugno 2006, nella nascente estate romana inizia a germogliare quella coscienza popolare che si consacrerà il 9 luglio seguente spargendosi per tutta la nazione. Da Roma a Kaiserslautern, il destino traccia la propria traiettoria, iniziata qualche mese prima, quando nella Capitale ancora non c’era traccia del caldo di giugno, ma il colpo di coda dell’umido inverno romano. Concretizza un disegno che da Roma riporta a Roma e pone al centro il bimbo prediletto della città della Lupa, che da eroe romano diventerà eroe nazionale.
È il 26 giugno 2006, è l’ultimo secondo di Italia- Australia, ottavi di finale del campionato mondiale di calcio. È il momento in cui Francesco Totti realizza il rigore decisivo che porta i suoi ai quarti, cristallizzando in un solo istante sogni e speranze di un popolo intero, fondendo la propria vicenda di riscatto personale con quella di milioni di persone.
Giulio Cesare
La storia di Totti e di quel rigore contro l’Australia è stata raccontata in ogni modo possibile. È una di quelle storie che si sono ormai ampiamente stabilizzate nell’immaginario collettivo, che ognuno ha ben presente nella propria mente. Come quelle fiabe che ogni bambino conosce e da cui ne rimane irrimediabilmente stregato. Soprattutto questa storia è stata celebrata in moltissimi modi e uno dei tanti omaggi al rigore del 10 azzurro è stato realizzato dal cantore per eccellenza della romanità calcistica, Antonello Venditti, che in un suo concerto allo Stadio Olimpico, la casa di Totti, ha riadattato un passaggio di un suo celebre brano, Giulio Cesare.
“Era l’anno dei mondiali quelli dell’86, Paolo Rossi era un ragazzo come noi” diventa “era l’anno dei mondiale quelli del 2006, Francesco Totti era un ragazzo come noi”. Mai omaggio fu più esemplificativo. Nella famosa canzone il cantautore romano racconta la nascita della propria coscienza politica nell’ambiente scolastico del Liceo Classico Giulio Cesare di Roma, una delle scuole più famose della Capitale.
Nel 1966 Venditti ha 17 anni e deve affrontare l’esame di maturità, è nel pieno della giovinezza, si sta affacciando al mondo degli adulti e in lui confluiscono quei sogni, quelle paure e quelle incertezze tipiche di quell’età tumultuosa.
In quello stesso anno in Italia e nel resto del mondo si sta spianando la strada al profluvio ideologico che verrà portato dal 1968, un vero e proprio spartiacque culturale nel panorama del XX secolo. Nel paese si diffonde una coscienza popolare intesa come forza dirompente nei confronti della tradizione e della cultura dominante, rappresentata essenzialmente dal retaggio cattolico italiano che sia emotivamente che politicamente ha contrassegnato la Repubblica italiana sino dalla sua nascita circa vent’anni prima.
“Questa rabbia che mi porta via” sta crescendo in Venditti e nei suoi coetanei, ma il ’68 a discapito delle premesse lascerà un’impronta marginale negli anni avvenire. La carica emotiva di quegli anni si rivela una bolla, incapace di assumere quella forza distruttiva che prometteva di sobbarcarsi. Ed è proprio questo l’insegnamento che il cantautore cerca di far arrivare al ragazzo dell’86, che vent’anni dopo si ritrova ad esprimere ancora quella voglia di cambiamento, a voler far sentire la propria voce.
È uno sprono a fare meglio, a tramutare quella rabbia in qualcosa di concreto. La voce del ’66 è rimasta inascoltata, Venditti nella canzone spera che finalmente, a venti anni di distanza, venga recuperata e che stavolta quella coscienza finalmente possa concretizzarsi. Anche in questo caso, però, non sarà così.
Tutta questa premessa porta a contestualizzare l’omaggio che Venditti fa al suo capitano nel suo stadio. Nel 2006 sono passati 40 anni dalla rabbia del ragazzo del Giulio Cesare che non è riuscita a trovare una forma, ma quella coscienza popolare può ancora affermarsi e concretizzarsi, stavolta però in un ambito ben diverso.
In Italia il calcio è stato spesso lo specchio degli umori del popolo, una valvola di realizzazione specialmente quando le aspirazioni politiche e sociali risultavano frustrate. Quella rabbia cantata nella canzone quindi non è stata concretizzata dal Venditti del ’66, nemmeno dal ragazzo dell’86, ma a riscattarla ci pensa un pupone nel 2006, che concretizza una vicenda di rabbia personale, di morte e rinascita, di consacrazione amorosa, calciando un pallone pesante come il cuore di 58 milioni di italiani.
Nel Paese una coscienza popolare
La strada che porta al rigore calciato da Totti è impervia. Quella rabbia che Totti esploderà nel caldo pomeriggio tedesco di qualche mese dopo inizia a montare il 19 febbraio 2006. È il giorno di Roma-Empoli, ordinario match di Serie A per i giallorossi, ma quel pomeriggio prende subito una brutta piega.
Dopo appena 6 minuti di gioco – e qui la simbologia numerica si fa davvero interessante col gioco con 1966 e 2006 – Francesco Totti viene atterrato con un intervento da dietro dal difensore toscano Richard Vanigli. La gravità della situazione emerge subito chiaramente, l’Olimpico si gela, il tempo si ferma, i fiati sospesi dagli spalti costruiscono una sorta di cupola intorno allo stadio, con la vita che continua solo al di fuori di essa.
Il capitano è costretto a uscire e inizia immediatamente una corsa frenetica: alle 15:26 Totti è già in clinica, a Villa Stuart, il professor Mariani non vuole perdere tempo e procede subito all’operazione, inserendo nel piede del 10 giallorosso una placca con 13 viti, un retaggio che il capitano dovrà portare a vita.
Al risveglio arriva come un uragano la consapevolezza: è febbraio, il Mondiale sarà a giugno, ci sono solo 4 mesi per recuperare da un infortunio che, in media, porta via circa 7 mesi di convalescenza. Tutto procede con un incedere tumultuoso e in quei momenti monta la rabbia di Totti, figlia dell’onta dello sputo a Poulsen di due anni prima, dell’umiliazione in Corea nell’ultima esperienza mondiale patita per mano dello sciagurato Byron Moreno.
Il 2006 rappresentava la grande possibilità di riscatto per Totti, che in azzurro aveva incantato col cucchiaino a Van Der Sar nel 2000, ma poi pareva aver perso la bussola, proprio quando viveva la sua piena consacrazione in giallorosso. Gli ultimi due grandi tornei internazionali erano stati una delusione enorme e ora quell’occasione di riscatto gli stava scivolando dalle dita, gli stava venendo strappata via come il futuro dei tanti ragazzi che nel 1966 manifestavano davanti alle scuole per far sentire la propria voce. Come la vita di Paolo Rossi, uno studente universitario antifascista spintonato e fatto cadere dall’alta scalinata della facoltà di Lettere mentre distribuiva volantini e morto in seguito alla caduta, ricordato nella canzone da Venditti a immagine del Paolo Rossi eroe di Spagna ’82.
Quella rabbia però non viene lasciata cadere nel vuoto, come accaduto per i ragazzi del ’66 che non hanno trovato una società disposta a fargli da eco. In questo caso viene raccolta da un signore, che se ne fa carico e si pone l’obiettivo di valorizzarla e trasformarla in qualcosa di magico. “Tu verrai al mondiale perché per vincerlo ho bisogno di te, anche al 30%”: così Marcello Lippi tuona e profetizza il destino di Totti, prende tutta quella rabbia e la consacra a uno scopo che andrà ben oltre il singolo riscatto personale.
Sotto l’egida profetica di Marcello Lippi comincia per Totti la missione mondiale. La rottura del perone e del legamento del collo del piede che ha rimediato il pupone richiederebbe solitamente 7 mesi per tornare in condizione. Decisamente troppo tempo. Tuttavia soffiano venti positivi.
Il cauto ottimismo del professor Mariani circa un pronto recupero di Totti per il mondiale è dovuto però al fatto che le ossa del capitano calcificano più rapidamente della media, facendo risparmiare circa un mese sulla tabella di marcia. Poi un’altra ventina di giorni vengono recuperati adottando una protezione impermeabile da porre intorno alla ferita, un colpo d’ingegno che permette al 10 giallorosso di lavorare in piscina anche prima della cicatrizzazione completa della lesione.
Quando Totti torna in campo, il suo tono muscolare è già nettamente migliorato, da lì 8 ore di lavoro al giorno tra salti e gradoni, con Lippi che veglia su di lui e Spalletti e Vito Scala che lo guidano nella riabilitazione. Tanti gli angeli custodi che hanno condotto Totti al recupero. Tutti gli fanno gruppo intorno, lo spronano, lo spingono al mondiale.
Il recupero di Totti procede a gonfie vele, a inizio maggio Lippi deve stilare la lista dei preconvocati per il Mondiale e il nome del 10 giallorosso è presente. Gli allenamenti con la Nazionale sono duri, Francesco ha lavorato sul fisico a Roma, ora Lippi lo vuole saggiare anche dal punto di vista tecnico. Si arriva al 31 maggio, a Ginevra l’Italia deve affrontare la Svizzera in un’amichevole pre mondiale e Totti torna titolare, 101 giorni dopo l’infortunio, e gioca la partita intera. Uno spezzone di partita anche due giorni dopo con l’Ucraina, dove riceve un duro intervento sulla gamba operata da un avversario. Un crash test definitivo per la gamba. Francesco Totti è tornato, è pronto per volare in Germania.
Coraggio di quei giorni miei
Nelle prime tre gare del Mondiale, quelle del girone, Francesco Totti gioca sempre titolare. Combina poco rispetto ai suoi standard, ma è già un miracolo per lui essere in campo. Passato il primo turno con qualche difficoltà di troppo, per gli azzurri sulla strada verso il titolo mondiale c’è l’Australia di Guus Hiddink, tecnico che alla guida della Corea del Sud aveva clamorosamente, nell’ambivalente accezione del termine, eliminato l’Italia.
Il rancore per quel match nell’ultimo mondiale asiatico è ancora vivo, reso particolarmente acre per la sorpresa del risultato ma soprattutto per il modo abbastanza controverso in cui è arrivato. Allora la Corea era una squadra nettamente inferiore e lo stesso si può dire dell’Australia, compagine estremamente fisica, ma abbastanza inesperta.
Lippi per la prima volta tira fuori Totti dagli 11 di partenza, scelta comprensibile perché il 10 ha bisogno di riposo e la rudezza degli australiani non è l’ideale per la gamba appena ristabilizzata di Totti. Gli uomini di Hiddink sono molto organizzati, concedono poco agli azzurri e il primo tempo si conclude a reti inviolate.
Nella seconda frazione di gioco il match si mette subito in salita con l’espulsione di Materazzi al 50’ minuto. Gli azzurri si mettono sulla difensiva, contengono gli avversari, rischiano poco ma non hanno la forza di offendere. Alla mezz’ora del secondo tempo Lippi si gioca la carta Totti per provare a imbeccare nello spazio Iaquinta, ma lo stallo permane. Almeno fino al 95’.
Un altro uomo dal destino segnato in quel 2006, Fabio Grosso, effettua un discesa in area, va a terra, l’arbitro ci pensa e concede un calcio di rigore abbastanza generoso. Come all’Olimpico 4 mesi prima il tempo si ferma, anche stavolta si crea la cupola intorno allo stadio di Kaisersalutern.
Come sospinto da una forza magica il pallone arriva nelle vicinanze di Totti, intorno a lui non c’è più nessuno, il fato l’ha scelto, prima lo ha affossato, ora lo elegge, gli consegna un pallone dal peso indescrivibile e gli affida le chiavi del futuro di un paese intero. L’altro candidato a tirare il rigore, Andrea Pirlo, è nei pressi della panchina, beve e non ci pensa a frapporsi tra il destino e la storia che vuole compiere.
Totti quindi raccoglie quel pallone, fa leva su quel coraggio che ha mostrato nei 4 mesi che hanno preparato quel momento. Quel coraggio che ha seguito la rabbia, che lo ha portato oltre ogni limite fisico a continuare ad allenarsi, a restare in campo, a non abbattersi, a credere in un sogno che sembrava impossibile. Il coraggio del Venditti del ’66, che davanti al proprio liceo vuole far sentire la propria voce, vuole esprimere con forza i propri ideali, vuole dimostrare che tutti hanno un peso nella società in cui vivono. Il coraggio di una città intera, Roma, che ha coccolato il proprio campione, non lo ha fatto mai sentire solo, che ha spinto il proprio capitano verso il Mondiale, capendo quanto per lui contasse quell’evento. Il coraggio finalmente di dar voce a quella coscienza popolare che ha cercato di emergere, senza successo, a più riprese, che come spesso succede prova a trovare nel calcio la realizzazione che non trova in altri ambienti.
Totti prende quel pallone, lo porta sul dischetto, pensa anche al cucchiaio, ma opta per una botta decisa, uno strappo catartico che rende pura tutta quella rabbia, la eleva per uno scopo superiore. Non servivano classe ed eleganza, ma potenza ed esplosione. Il tempo a Kaiserslautern rimane sospeso e si sblocca solo quando la rete alle spalle di Schwarzer si gonfia. La cupola allora si sgretola, Totti porta il pollice alla bocca e milioni di italiani possono finalmente esplodere di gioia.
Nasce qui da te
“Era l’anno dei mondiali quelli del 2006, Francesco Totti era un ragazzo come noi”. Con quest’omaggio all’interno della propria Giulio Cesare Venditti illustra al meglio la carica emotiva e simbolica che quel rigore ha avuto. Da lì in poi la strada verso la conquista del titolo mondiale è stata un cammino trionfale, dal 3-0 all’Ucraina, al gol di Grosso contro la Germania, fino alla capocciata di Zidane e ai rigori di Berlino.
Se c’è un attimo però a cui ricondurre l’inizio di questa storia è proprio quel calcio di rigore di Totti. È l’attimo in cui ci si è accorti che il destino si stava compiendo, che la strada per l’Italia si stava mettendo sui binari giusti. Una partita che sarebbe stata difficile, per non dire impossibile, da sbloccare in altro modo e il fantasma di un’eliminazione che somigliava tanto a quella di quattro anni prima che si faceva sempre più vivido.
Poi ciò che la mano umana ha tolto in Corea ha probabilmente restituito in Germania, visto che il rigore concesso per il fallo di Grosso è stato quantomeno generoso. Ma stavolta è stata scritta un’altra storia. Quel pomeriggio di Kaiserslautern ha segnato la nascita della coscienza popolare che Venditti canta nel suo brano, perché 58 milioni di italiani hanno spinto il piede di Totti, gli hanno dato la forza per bucare l’estremo difensore australiano, sono finalmente scesi in campo per far sentire la propria voce e il loro grido stavolta ha trovato risonanza.
Il rigore di Totti è stato il riscatto di ognuno, la prova che dietro una caduta rovinosa c’è sempre una rinascita vincente, che il baratro lo si tocca solo per darsi la spinta per risalire. Totti ha saputo trasformare quella rabbia che ognuno prova a un certo punto della sua vita in coraggio e ha concretizzato la propria caduta suggellandola in ascesa.
E “Francesco Totti era un ragazzo come noi” in quel giugno 2006 perché anche lui era un singolo individuo alle prese con i fallimenti della vita, con la paura di non essere all’altezza, col timore di veder sfumare i propri sogni. Non l’immortale re di Roma, ma un giovane di 30 anni che come milioni di italiani ogni giorno conduce la lotta per la propria affermazione, per ritagliarsi il suo posto in questa storia fantastica che è la vita, per mantenere il riferimento vendittiano.
Quel rigore è la nascita della coscienza popolare, della consapevolezza di poter dire la propria anche in un mondo che cerca a tutti i costi di soffocare le voci dei singoli che quotidianamente lottano. L’importante è saper trasformare la rabbia che si prova in coraggio.
In quel pomeriggio del giugno 2006 grazie al piede di un ragazzo che si è fatto portavoce di un intero popolo è nata quella coscienza popolare, che poi si è consacrata a Berlino e ha incoronato l’Italia campione del mondo.
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