È il 16 ottobre 1968. Si sta trascinando verso la sua fine un anno esplosivo, sotto molti punti di vista. Il ’68 viene considerato come una sorta di spartiacque ideologico nel XX secolo, anche se alla fine dei conti la percezione che si viveva al tempo di poter cambiare il mondo era molto più ampia di quanto poi effettivamente questo mondo sia stato cambiato.
Ad ogni modo, si entra nell’ultimo quarto dell’anno designato a stravolgere le sorti dell’umanità. C’è la convinzione di poter fare la storia, di poter far sentire la propria voce e di riuscire a fare la differenza. In un contesto così rivoluzionario si sta svolgendo un evento tremendamente semplice e ricorrente, un’Olimpiade, l’apice della normalità per la sua ciclicità. Lo scenario è quello di Città del Messico, l’atmosfera è a dir poco tesa: sono passate sole due settimane da quando i soldati messicani hanno deliberatamente aperto il fuoco su una folla di manifestanti, scontenti delle ingenti spese sostenute dal governo centroamericano per ospitare la kermesse sportiva. Il conto dei morti non fu reso pubblico, ma lo show continuò ad andare avanti. Quell’Olimpiade, simbolo di normalità nello sport, si apprestava ad essere tutt’altro che ordinaria.
Che si dia inizio alla sfida
Torniamo dunque al 16 ottobre 1968. La manifestazione messicana procede normalmente, è ora di correre i 200 metri. Il favoritissimo della sfida è Tommie Smith, The Jet, che l’anno precedente aveva vinto il titolo universitario proprio sui 200 metri e il campionato americano AAU sulla stessa distanza. Poco prima dell’esperienza olimpica aveva fatto registrare il record di 20 secondi netti, la sua vittoria era praticamente scontata. Le premesse non vengono tradite, Smith brucia i 200 metri della pista di atletica dello Stadio Olimpico Universitario, sancendo tra l’altro il nuovo impressionante record di 19,83 secondi.
Tommie Smith è il primo uomo a scendere sotto il muro dei venti secondi. Dietro a lui si posiziona l’australiano Peter Norman e al terzo posto arriva un altro statunitense, John Carlos. Smith e Carlos siglano un’importante doppietta per gli USA, che alla fine dell’Olimpiade domineranno il medagliere, ma la loro vittoria più importante arriverà dopo la gara.
La volata finisce, i corridori riprendono fiato e i primi tre classificati si preparano alla cerimonia di premiazione: podio, medaglia, inno nazionale e gloria olimpica. Una routine per ogni atleta che arriva a certi livelli. Un procedimento ancora di una normalità tremenda, ma nel 1968 quel concetto è destinato a essere abbattuto. I tre vincitori salgono dunque sul podio, iniziano a risuonare nell’aria le note di “The Star-Spangled Banner”, l’inno nazionale americano composto da un altro celebre Smith, John Stafford, sulle parole della poesia “The Defence of Fort McHenry” di Francis Scott Key.
A un certo punto si inizia a notare un movimento inaspettato, che esula dall’ordinarietà di quel momento. Ci si aspetta di vedere l’atleta vincitore con la mano sul petto, la commozione dipinta sul volto. Gli altri due atleti con lo sguardo chino, rispettosi di chi lo ha battuto e del suo inno rappresentativo. Invece a Città del Messico il pugno di Smith e Carlos non si serra sul petto, ma si alza in aria, avvolto da un guanto nero, in un gesto destinato a rimanere una fotografia impressa e indelebile nella storia non solo dello sport, ma dell’umanità intera.
I saggi fanno ponti e gli stupidi innalzano barriere
È il 16 ottobre 1968 e Smith e Carlos lanciano un messaggio chiaro e forte, in una cornice di pubblico enorme e con una risonanza amplissima. In quel momento sono degli eroi nazionali, hanno conquistato un oro e un bronzo olimpici, ma la loro vittoria più grande è l’essere riusciti a portare all’attenzione popolare una questione che non poteva più essere ignorata. Le persone di colore devono vedersi riconosciuti i propri diritti, in quanto umani. Un messaggio tremendamente semplice, ma altrettanto tremendamente ignorato.
Il gesto clamoroso di Smith e Carlos, che porta il comitato olimpico a chiedere addirittura l’esclusione dei due corridori, arriva al culmine di un periodo di proteste e lotte, dopo fatti clamorosi come l’assassinio di Martin Luther King e quello ancora precedente di Malcolm X, i due volti più celebri nella lotta per i diritti degli afroamericani. Gli anni ’60 segnano l’apice del Movimento per i diritti civili degli afroamericani, un’etichetta che racchiude in sé tutti i movimenti sociali che negli USA hanno combattuto la segregazione e la discriminazione razziale.
Tra le varie organizzazioni un ruolo di punta è occupato senza dubbio dal Black Panther Party, fondato a Oakland, California, nel 1966. L’obiettivo dichiarato delle Pantere Nere era appunto quello di liberare dall’oppressione gli afroamericani ricorrendo, se necessario, anche alla via della violenza. La mano guantata di nero esibita da Smith e Carlos a Città del Messico era proprio il simbolo del Black Power patrocinato dalle Pantere Nere. Un pugno che significa forza, resistenza, alzato al cielo per mostrare la propria presenza, per dire al mondo che le persone di colore ci sono, vivono come tutte le altre persone di questo pianeta.
I movimenti sessantottini hanno portato sicuramente a risultati sul piano legale, la segregazione è progressivamente scomparsa, le persone di colore si sono viste riconoscere i propri diritti. Ma la lotta al razzismo è lontanissima dall’essere finita dal punto di vista più importante, quello culturale. Una discriminazione che sulla carta non esiste più nella quotidianità è invece ben presente, forte e ogni giorno dà prova della sua esistenza.
A più di 50 anni dal gesto di Smith e Carlos, molte persone di colore sono ancora costrette a dover alzare il proprio pugno al cielo per mostrare la propria esistenza. La discriminazione razziale è un fenomeno ancora largamente diffuso, su cui spesso si preferisce chiudere gli occhi, e allora ci vogliono quei gesti forti, coraggiosi, che prendono a pugni le coscienze dei singoli, costringendoli a fare i conti con i problemi enormi che li circondando e che non possono più semplicemente ignorare come hanno fatto fino a quel momento.
Tu puoi decidere che tipo di re vorrai essere
La grandezza del gesto di Smith e Carlos sta nella cornice in cui è stato fatto. Un’Olimpiade, la manifestazione sportiva per eccellenza. Malcolm X, Martin Luther King, Nelson Mandela e altri sulla loro scia sono stati dei grandissimi leader politici, figure immortali che saranno sempre un esempio da tenere a mente. Smith e Carlos sono però stati qualcosa di diverso, dei leader mediatici, persone semplici che però si sono rese conto del loro ruolo e l’hanno usato per un fine più grande.
La lotta contro il razzismo è oggi ancora in corso, deve essere combattuta duramente e ha ottenuto negli ultimi tempi un altro di quei leader mediatici che possono fare tutta la differenza possibile sul piano della battaglia culturale. Nel 2018, a 50 anni precisi di distanza dagli eventi messicani, ha fatto il suo esordio nelle sale cinematografiche statunitensi Black Panther, il primo supereroe di colore. Un film storico per la sua portata culturale.
L’universo dei film Marvel è stato probabilmente il più grande prodotto mediatico degli ultimi anni, capace di dominare il panorama cinematografico e di segnare a livello culturale un’intera generazione. Portare sullo schermo un supereroe di colore come Black Panther è sicuramente un’iniziativa molto forte, un terremoto di carattere ideologico. Un colpo incredibile allo stereotipo hollywoodiano dell’eroe bianco che contribuiva a quella discriminazione latente ancora vivissima in America. Un’iniziativa che andava intrapresa, come poi è stato dimostrato dallo scatenarsi degli eventi a breve distanza dall’uscita di questo film.
Il mondo aveva bisogno di un supereroe di colore che tracciasse la strada. Aveva bisogno di un nuovo gesto che ispirasse di nuovo una lotta che va ancora combattuta duramente. Dal pugno chiuso di Carlos e Smith alle braccia incrociate di Black Panther, la nostra generazione anche ora ha un leader mediatico che sottolinea l’urgenza di combattere contro la discriminazione razziale.
Il messaggio non ha tardato ad arrivare, raccolto da gente comune ma anche da altri leader mediatici, provenienti dallo sport, consapevoli del proprio seguito e pronti a metterlo a disposizione della causa. Black Panther ha ispirato per primo Pierre-Emerick Aubameyang, che nel marzo 2019 sigla una doppietta fondamentale contro il Rennes, ribaltando lo svantaggio dell’andata e portando i Gunners agli ottavi di Europa League. L’esultanza è iconica, con la maschera di Black Panther in viso e le mani a formare il gesto della “W” del film.
Una celebrazione del proprio paese, il Gabon, la cui Nazionale viene chiamata appunto “Le Pantere”, ma dietro al quale non è difficile vedere un iconico omaggio al nuovo Black Power del XXI secolo. Un gesto replicato poi lo scorso 29 agosto, quando Aubameyang, dopo aver sbloccato la Community Shield contro il Liverpool, mima ancora il simbolo del Wakanda, la patria di Black Panther, per omaggiare l’attore Chadwick Boseman, la Pantera Nera della Marvel, scomparso prematuramente per un cancro.
Sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono
Il mondo negli ultimi anni ha conosciuto nuovamente la durezza del razzismo. Minneapolis, Minnesota, 25 maggio 2020. George Floyd si trova sul proprio SUV, intorno a sé vede degli agenti di polizia che gli intimano di scendere. Spunta anche una pistola, sembra l’arresto di un pericoloso delinquente, eppure il crimine in questione riguarda una banconota da 20 dollari. Una semplice e stupida banconota.
George Floyd viene estratto dal veicolo. C’è una colluttazione, non si stara esagerando per una banale banconota da 20 dollari? Floyd viene immobilizzato a terra, il suo volto scava sull’asfalto incandescente della strada. Il ginocchio dell’agente di polizia è sul suo collo, George ansima e pensa solo a quanto possa essere dolce un po’ di ossigeno in quel momento momento. “I can’t breathe”, non riesco a respirare. Parole destinate a perdersi, ultimi rantoli di un’esistenza brutalmente spezzata. George Floyd muore così, per una stupidissima banconota da 20 dollari e una noncuranza disumana della vita altrui.
La morte terribile di George Floyd è la fiammella che fa divampare di nuovo l’incendio. Le proteste contro la discriminazione razziale esplodono in tutta America e si espandono per l’intero globo. La lotta viene ripresa e portata in ogni ambito del quotidiano. Sono moltissimi gli sportivi a prendere posizione, sulla scia di come fecero Carlos e Smith a Città dl Messico. “Black Lives Matter” è il nuovo slogan che guida la protesta. Le vite dei neri contano.
Ancora una volta una realtà semplicemente vera, ma tremendamente ignorata. La Bundesliga è il primo campionato a riprendere dopo il lockdown a seguito dell’esplodere della pandemia da Covid-19 e il primo scenario in cui prendono vita le gesta di questi eroi mediatici pronti a sostenere la lotta al razzismo. Nel match tra Eintracht Francoforte e Mainz del 6 giugno 2020, Kunde Malong segna il gol dello 0-2 e si inginocchia, omaggiando la memoria di George Floyd. Lo stesso giorno tutti i calciatori del match tra Borussia Dortmund ed Hertha Berlino compiono lo stesso gesto. Si moltiplicano a macchia d’olio da quel momento i gesti, le maglie con messaggi contro il razzismo, le dediche, le richieste di giustizia.
Il mondo dello sport insorge, si mette in ginocchio per sostenere sulle proprie spalle il peso di una lotta che va combattuta ogni giorno. I momenti da citare sarebbero tanti, ma sceglierne uno o alcuni non sarebbe giusto. Ogni pensiero, ogni atto, ogni protesta ha il suo peso, è la forza del loro insieme a costituire il loro potere. Senza divisioni, senza rivalità, lo sport si è schierato a fianco dell’umanità. Il razzismo è ancora oggi un problema infinitamente grande, troppo pesante da poter ignorare. Valutare il peso di una vita umana dal colore della pelle è di una meschinità unica, giocare a fare Dio in nome di una supremazia cromatica è semplicemente disumano.
Da Smith e Carlos nel 1968 a Black Panther nel 2018. Il mondo ha bisogno dei propri leader ideologici, dei propri fari di speranza, le luci che li guidano. Figure in grado di scuotere gli animi, alzando un pugno o incrociando le braccia. Finché permarrà a livello culturale, il razzismo avrà sempre la meglio, al netto di qualunque conquista politica possa essere fatta. Per questo è fondamentale che chi possieda un peso mediatico importante lo faccia sentire, lo usi per guidare chi non lo ha. Sport, cinema. Vincitori, sconfitti. Bianchi, neri. Alla fine tutti umani.
LEGGI TUTTE LE NOSTRE SUGGESTIONI