L’Italia conta i danni all’indomani del conflitto mondiale – il secondo in una quarantina d’anni – che ha lacerato il Vecchio Continente, e non solo. Siede al tavolo dei vinti, almeno in apparenza. L’interruzione dei combattimenti riporta una strana spensieratezza, come quelle che non si vivevano ormai da diverse stagioni. C’è un caso irrisolto, però: si tratta di Trieste, trainata anche dalla propria compagine calcistica. È la Triestina, traino per la rinascita sull’Adriatico.
A dir la verità, in questo porto di mare che ha visto ed ammirato il succedersi di svariati illustri letterati, in pochi hanno intenzione di chiamarla con quel nome. Preferiscono più “Unione“, come a ribadire un sentimento che non si fa altro che toccare e respirare mentre soffia la bora.
Nel resto della Penisola, come accennato in precedenza, i bombardamenti sono finiti, così come le munizioni nelle armi degli Alleati, risaliti da Sud in un’inesorabile Liberazione. A Trieste no, non si può parlare di pace. La tanto declamata unione, che i cittadini auspicano a gran voce, non si può ancora tastare con mano. È effimera, tutto il contrario delle volontà di chi questa città – in un modo o nell’altro – non desidera altro che averla per sé.
È una partita, però, in cui è complesso analizzare probabili vincitori, perché le forze spiegate una di fronte all’altra sono tanto ambiziose di ottenere il controllo quanto capaci di farlo. Con la Germania ormai largamente piegata alla disfatta ed Hitler che aveva già pigiato sul grilletto della Walther PPK alla sua tempia destra, iniziò a delinearsi un conflitto ideologico che ruberà la scena globale nel prossimi 45 anni: Occidente contro Oriente, in quello che è lo spartiacque d’Europa.
Attacco da Oriente
Ci sono gli Alleati, che – ignari della morte del Fuhrer – hanno bisogno del porto di Trieste per programmare l’invasione dell’Austria prima e della Germania poi. Soprattutto, però, c’è la Jugoslavia di Tito, che vuole farne la settima Repubblica Federale ed è spinta a ciò da Stalin, con le mani in pasta per l’espansione del controllo sovietico. Il primo round va a questi ultimi, ma non ci sarà un pubblico delle grandi occasioni ad applaudire i trionfatori.
La rappresaglia è spaventosa: la Jugoslavia invade Trieste ad inizio maggio, razziando e depredando in ogni angolo della città. Vendetta? Sì, alcuni tendono ad utilizzare queste otto parole per descrivere quei momenti. Il fascismo, infatti, ha danneggiato in lungo ed in largo i territori al di là del confine, anche ideologicamente: migliaia di sloveni e croati hanno italianizzato il proprio nome, in una sorta di Ellis Island coercitiva sull’Adriatico.
Non ci si fermerà fino al patto di Belgrado, siglato il 9 giugno 1945. Da spartiacque europeo e principio della cortina di ferro, anche il circondario della città è diviso equamente. Si vengono a formare, infatti, due zone: la A – comprendente Trieste e Gorizia – in mano agli Alleati ed italiana de facto, mentre la B – con Istria e Fiume – sotto il controllo della Jugoslavia. Nel mentre, come accennato in precedenza, aumentano le razzie e sparisce anche una singola briciola di umanità.
Sono gli anni delle Foibe, cavità carsiche nelle montagne istriane, cimiteri a cielo aperto dove vengono gettati – talvolta ancora vivi – prigionieri di guerra. Sono gli anni dei processi sommari e delle conseguenti fucilazioni programmate, ma anche dei campi di concentramento, che non sono svaniti dopo la dissoluzione del regime nazista. A Borovnica, distante una ventina di chilometri da Lubiana, il più celebre e spietato dell’intera Jugoslavia.
Inoltre, non allontanandoci troppo dalla città, si trova il primo ed unico – fortunatamente – forno crematorio della Penisola intera. Ai secoli la risiera di San Sabba, divenuta durante il conflitto un vero e proprio campo di sterminio, oggi monumento nazionale per non far disperdere come cenere al vento la memoria dell’orrore. Dista qualche minuto a piedi da luogo dove venne compiuto il miracolo, lo Stadio di Valmaura – oggi intitolato a Giuseppe Grezar, morto a Superga. Torniamo al calcio, dove non si respira l’odore della polvere da sparo: c’è solo voglia di rinascere nell’aria.
La nuova genesi triestina
Abbiamo parlato di “Unione“. Non si tratta di un vocabolo semplice da spiegare, tanto che la Treccani ha bisogno di ben cinque definizioni per quelle sei lettere. Ci basta la prima: “s. f. [dal lat. tardo unio -onis, der. di unus «uno»]. L’azione e l’operazione di unire, il fatto di unirsi o di essere uniti con uno o più altri individui, enti, oggetti, parti o elementi“. Aggiungete un apostrofo calcistico, se siete affezionati allo sviluppo dell’organo unificatore per eccellenza laddove soffia forte il vento: la Triestina.
La compagine della città ha vissuto il primo campionato dopo la guerra in maniera del tutto usuale, senza grosse sorprese. La stagione fu decisamente tumultuosa, con due gironi preliminari – il Campionato Alta Italia ed il Campionato Serie A-B Centro-Sud – ed uno finale, dove la squadra allenata da Mario Villini – anch’esso italianizzato, poiché nato a Pola come Mario Wilfling – si posizionò ottava. La medaglia d’oro andò, come previsto, al Grande Torino.
La Triestina, nonostante un piazzamento senza infamia e senza lode, poteva vantare due campioni del Mondo come Piero Pasinati e Gino Colaussi – al secolo Colàusig -, che risolse con una doppietta la finale del ’38 contro l’Ungheria al fianco di Silvio Piola, anch’esso in rete per due volte nella sfida decisiva con i magiari. Il palmarès, però, non vince le partite: si penserà all’anno successivo.
Ecco, è questo il problema. La stagione 1946/1947 segna una delle pagine più buie del calcio triestino, visto un mesto ventesimo posto, condito da appena 18 punti collezionati e ben 79 reti subite, senza considerare le 11 gare giocate consecutivamente fuori casa, con gli Alleati che non danno il via libera per il pallone in città. La retrocessione è una pagina tanto scontata quanto amara nello scorrimento del romanzo degli alabardati, un urlo di tristezza che si strozza in gola. Ma Trieste non può scendere di categoria, non in quel momento storico.
Come sottolinea perfettamente Matteo Marani nel suo documentario “Checkpoint Trieste” su Sky Sport, “La condanna di Trieste è quella di produrre più storia di quanta ne possa realmente contenere“. E lo sport non fa eccezione. Lo testimonia il fatto che la città, terminato il conflitto bellico, sia scelta come sede di tutti i campionati nazionali, ad esempio.
È comprovato dalla tanto discussa 12esima tappa di quel Giro d’Italia, con gli Alleati che inizialmente pongono il veto al passaggio da Trieste, ma poi ci ripensano: il risultato fu un attentato a Pieris da parte di un gruppo di anti-italiani, ma 12 ciclisti capeggiati da Cottur riuscirono comunque a concludere nel migliore dei modi quel tremendo 30 giugno. L’ennesimo atto di forza della scuderia Wilier, acronimo di “W l’Italia LIbera e Redenta“: non c’è bisogno di spiegare il significato.
La Triestina è salva, viva la Triestina
In maniera particolarmente spiccata, però, è proprio quella retrocessione a testimoniare un’unità nazionale fuori dal comune. Atipica, unica, a tratti surreale. Il campo ha scritto il proprio verdetto, ma è una decisione unanime a correggere il corso della storia: la Triestina si salverà, ma in questo caso contano più i mezzi del fine machiavellico. L’appello del presidente Brunner è chiaro:
La causa della Triestina si identifica con la causa di Trieste, con la causa che deve vincere nel cuore di tutti gli italiani veri.
Lo stadio è solo uno dei problemi, ma nemmeno il più grave, visto il lodevole gesto dell’Udinese, che concede il proprio Stadio Moretti ai biancorossi. I nodi che giungono al pettine del patron dei friulani, semmai, è la benevolenza delle altre compagini. Anche questa, però, non viene messa in dubbio: Brescia e Venezia, le altre due retrocesse, non si sognano nemmeno per un istante di votare contro nella mozione per la permanenza della Triestina in Serie A.
Il 29 luglio 1947, la decisione definitiva, con tanto di voto unanime “tenendo conto del valore morale e simbolico che Trieste ha per tutti gli italiani“: la Triestina è salva, nonostante un iniziale verdetto da incubo. Si opta per un precedente all’apparenza scomodo, ma inevitabile: un massimo campionato a 21 squadre abbraccia la stagione 1947/1948.
Il sentimento nazionale ha sorretto le ambizioni di Trieste, che in quegli anni vive un atipico dualismo. Se la Triestina si salva dopo l’iniziale retrocessione, c’è un’altra compagine che non ha bisogno di votazioni per partecipare al campionato italiano, né ha intenzione di farlo. Si tratta dell’Amatori, costola della Ponziana che viene finanziata dal regime jugoslavo per giocare al di là del confine: è un caso più unico che raro, visto che non è mai più accaduto che una città avesse due compagini calcistiche impegnate in due campionati nazionali differenti. Ma è Trieste.
Ci si organizza nel migliore dei modi. La Triestina rimane in Serie A, bisogna allestire la più attrezzata delle compagini a disposizione di un mister affidabile. I giocatori arrivano, l’allenatore pure. È un ex giocatore proprio degli alabardati – oltre ad essere il primo triestino ad aver indossato la maglia della Nazionale – ed all’indomani della guerra fa il macellaio ed allena la Libertas, piccola squadra cittadina. Si chiama Nereo Rocco, da lui parte una delle imprese più memorabili del calcio nostrano.
Nereo Rocco, serve altro?
È un omaccione, duro all’apparenza ma tenero nel profondo. La sua squadra sembra benedetta da un fascio di luce che proviene dall’alto, come se qualcuno dovesse restituire il favore della visita dell’anno precedente a Papa Pio XII, con tanto di Campanone di San Giusto regalato in Vaticano. È una squadra che ha poco da perdere e tanta ambizione.
Le gare si giocano al Valmaura, lo stesso dove anche Umberto Saba – uno dei letterati a cui Trieste ha dovuto di più, assieme a Svevo e Joyce – si è innamorato della Triestina. Lo testimoniano alcuni suoi versi:
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.
E Saba fa bene, perché quella squadra lascia il sangue sul campo. Fatta ad immagine e somiglianza del suo allenatore, un personaggio rispettoso e scaltro, oltre che temuto dagli avversari. Lo ingaggerà il Milan, con cui a San Siro vincerà tutto grazie anche ad un capitano triestino, al secolo Cesare Maldini. Prima di abbracciare il Diavolo, però, c’è una pagina della storia triestina da scrivere.
L’undici titolare è una verso strappato alle quartine di Saba: “Striuli; Blason, Radio, Sessa, Zorzin; Trevisan, Presca, Tosolini; Rossetti, Ispiro, Begni“. Insomma, nessun nome esaltante, nessun fuoriclasse da Juventus o Grande Torino. Tutti discreti mestieranti. Eppure, l’alchimia rende il tutto decisamente meno complesso: è la forza dell’Unione, in un permissivo cambio proverbiale.
Saba agisce in chiave difensiva, applicando in particolare due strategie. Da una parte, fa nascere il libero all’italiana grazie al posizionamento di Ivano Blason: il terzino destro, con lanci lunghissimi, è un vero e proprio regista alle spalle della difesa. Dall’altra, mette una diga davanti alla sua retroguardia, grazie alla copertura di Guglielmo Trevisan. Il risultato non è di certo dei più spumeggianti, ma il segreto di Rocco è la concretezza: la Triestina macina punti su punti, fino alla fine.
Il secondo posto a -6 dal Torino campione d’Italia, a pari merito con Milan e Juventus – entrambe battute nel giro di una settimana, nell’ottobre ’47 -, è un premio insperato, un riconoscimento a dir poco sorprendente. Soprattutto, però, è un successo non solo sportivo: sarebbe una definizione fin troppo limitata. È un trionfo cittadino, regionale, nazionale.
Gli anni al buio erano stati tanti, troppi. Trieste non poteva permettersi di vivere altra inquietudine, ulteriore sconforto con la polvere da sparo sotto le narici. La Triestina rischiara il Golfo. Si chiude un’altra pagina, fortuna che la si è aperta.