Il nostro viaggio tra le città del calcio, dopo la prima tappa in quel di Crotone, prosegue con una delle piazze più calde dell’intera penisola. E no, non stiamo parlando solo del clima…
Calabria e Puglia: due terre così vicine, ma mai calcisticamente distanti come lo sono state al termine della scorsa stagione. Se la prima era impegnata a festeggiare il ritorno in A del suo Crotone, unico rappresentante regionale, la seconda piangeva (chi più, chi meno) la retrocessione del Lecce, dopo un solo anno nella massima serie. Due (e)stati d’animo completamente diversi, con il Mar Ionio a fare da spartiacque, anche metaforicamente.
Il buon calcio espresso dai ragazzi di Fabio Liverani non è bastato per salvarsi, ma i salentini possono comunque andare fieri del percorso compiuto. Ci hanno creduto e hanno lottato fino all’ultimo secondo dell’ultima giornata e questa, per i loro tifosi, è l’unica cosa che conta. Sudore e amore per la maglia che si indossa. Lo sa bene Serse Cosmi, allenatore della compagine salentina nella stagione 2011/2012, al termine della quale la curva continuò a battere le mani nonostante la sopraggiunta retrocessione.
L’aritmetica dice che sono retrocesso con il Lecce, ma poi c’è un’altra classifica che è quella dei tifosi. E allora a Lecce ho vinto uno Scudetto.
Tutto questo può essere riassunto in una sola parola: passione. Una passione che sembra tatuata nel DNA dei tifosi salentini. Se nei colori della maglia il giallo rappresenta il sole che bacia quasi incessantemente le terre del Sud, il rosso sta a simboleggiare proprio il sangue che ribolle, l’adrenalina e l’emozione che si provano di fronte alla squadra del cuore, il fervore e la voglia di vincere qualsiasi battaglia ad ogni costo.
Mai scendere a compromessi, lottare sempre e comunque per la propria fede. Un mantra per i leccesi di oggi, ma caratteristica imprescindibile anche di un personaggio vissuto circa duemila anni fa, il quale ora osserva la sua città dall’alto. Stiamo parlando ovviamente del patrono e simbolo di Lecce, Sant’Oronzo.
Piazza Sant’Oronzo
Chi non si è imbattuto, almeno una volta nella vita, in un’immagine dell’inconfondibile statua di Sant’Oronzo? Difficile trovare qualcuno, dato che la figura del santo con le tre dita della mano destra alzate è legata ormai indissolubilmente alla città di Lecce. Un po’ come accade con il Colosseo a Roma oppure con il Duomo per Milano.
Pochi, però, sono quelli che possono sostenere di conoscere davvero la storia (o la leggenda) che si nasconde dietro questo personaggio. Per prima cosa, non tutti sanno che Sant’Oronzo fu, sostanzialmente, un contemporaneo di Gesù. Egli, infatti, nacque presumibilmente nel 22 d.C, cioè quando il Messia, secondo la tradizione cristiana, doveva ancora iniziare la sua attività di predicazione in Palestina. Il suo nome originale era Publio e venne alla luce nell’antica Rudiae, città messapica i cui resti sono stati trovati all’interno dell’attuale centro abitato leccese.
Membro di una famiglia pagana e di ceto sociale abbastanza elevato (il padre era tesoriere dell’imperatore), Publio entrò in contatto con la fede cristiana per coincidenza. Durante una battuta di caccia insieme al nipote Fortunato, nei pressi dell’attuale spiaggia di San Cataldo, si trovò infatti a soccorrere un naufrago, reduce da una violenta tempesta nelle acque dell’Adriatico. Questi altri non era che Tizio Giusto di Corinto, il quale era stato inviato a Roma da Paolo di Tarso (San Paolo). Lo scopo del viaggio? Consegnare una missiva: secondo alcuni studiosi si tratterebbe della famosa Lettera ai Romani dell’Apostolo delle genti.
Giusto raccontò ai suoi salvatori la storia del Dio cristiano: i due, affascinati da questa nuova fede monoteistica, la abbracciarono senza remore. Durante la cerimonia di iniziazione del battesimo, Publio scelse un nuovo nome, Oronzo, che significa risorto. Da questo momento in poi, la vita di Oronzo e dei suoi compagni fu contrassegnata da una costante lotta alla persecuzione.
Dapprima i cultori del paganesimo li denunciarono al pretore, il quale ordinò loro di offrire incenso nel tempio di Giove. Ma, come abbiamo detto, Sant’Oronzo non sarebbe mai sceso a compromessi, se questo avesse significato andare contro il proprio credo. Il rifiuto costò loro la flagellazione e l’arresto. Il fervore dimostrato in quest’occasione portò Oronzo ad essere nominato, secondo la tradizione da San Paolo stesso, primo vescovo della città di Lecce.
Le persecuzioni, però, si irrigidirono quando Nerone inviò in Salento il ministro Antonino, proprio con lo scopo di fermare il dilagare della nuova fede, che stava raccogliendo sempre più proseliti. Oronzo e Giusto, costretti ad abbandonare la città, proseguirono le predicazioni di nascosto, in grotte carsiche scavate nel sottosuolo. Scoperti, furono processati per perduellio (tradimento nei confronti degli dei dello Stato) e, dopo l’ennesimo rifiuto di convertirsi, vennero decapitati il 26 agosto del 68 d.C.
Oggi il popolo leccese ricorda il coraggio dimostrato in quell’occasione attraverso la festa patronale dei Santi Oronzo, Giusto e Fortunato. Ogni anno, al termine dell’estate, nei giorni dell’anniversario del martirio, Piazza Sant’Oronzo si riempie di luci e di gente.
Ma ci sono altre ricorrenze che sortiscono lo stesso effetto delle solennità religiose, seppur non si ripetano con cadenza annuale. A riempire di vita la piazza principale di Lecce sono infatti anche i successi della squadra calcistica della città. E ad essere interessato dall’euforia generale dei tifosi è un monumento in particolare…
L’anfiteatro romano
A pochi metri dalla colonna di Sant’Oronzo, oltre una balaustra che ne circonda l’intero perimetro, incontriamo una delle tracce più significative del passato romano di Lecce. O meglio di Lupiae, perché era questo il nome della città in epoca imperiale.
L’anfiteatro era uno dei due grandi edifici adibiti allo spettacolo che Ottaviano Augusto decise di donare agli abitanti del posto, per sdebitarsi dell’accoglienza ricevuta in un periodo precedente la sua nomina. L’altro era il Teatro Romano, attualmente situato in via Arte della Cartapesta.
I leccesi ignorarono della presenza di questo sito archeologico fino agli inizi del XX secolo. Solo gli scavi, necessari per la realizzazione dell’adiacente palazzo della Banca d’Italia, riportarono alla luce ciò che a lungo era rimasto nascosto sotto un complesso di botteghe. La struttura visibile oggi è solo un terzo di quella originaria. Metà dell’arena e gran parte della cavea sono andate perdute nella costruzione degli edifici circostanti, in particolare della Chiesa di Santa Maria della Grazia. Inoltre, un ulteriore ordine di gradinate, di cui è restato ben poco, si ergeva al di sopra dell’attuale livello della strada.
Anche se l’anfiteatro è ancora utilizzato per eventi culturali e musicali, o per un caratteristico Presepe nel periodo natalizio, la storia ci insegna che lo scopo originale di queste strutture era ben meno nobile. Era in questi luoghi, infatti, che con la lotta tra i gladiatori (oppure tra gladiatori e animali: le cosiddette venationes), il sangue e la morte diventavano mere fonti di spettacolo e divertimento per la folla urlante. Tra quelle mura, i temi ricorrenti sono sempre stati la guerra e la competizione. Anche quando c’era da festeggiare l’esito positivo di una battaglia, il luogo preferito era l’anfiteatro. Perché lì i soldati potevano sfilare sotto gli spalti in festa, di fronte agli sguardi del popolo, carichi di riconoscenza e ammirazione.
Non è un caso quindi se i tifosi del Lecce ancora oggi, nelle grandi occasioni, osano scavalcare la balaustra per ritrovarsi sulle stesse gradinate dei loro antenati, seguendo un filo conduttore che li riporta indietro di duemila anni.
Più di una volta, hanno fatto il giro del web e dei social le foto dell’anfiteatro colmo di tifosi in festa, di striscioni e di fumogeni. Il tutto permeato da un’inconfondibile sfumatura giallorossa. Una bolgia alla quale spesso e volentieri hanno partecipato anche gli stessi giocatori, i paladini tanto acclamati dal loro popolo, proprio come avveniva in epoca romana.
Le ultime due grandi feste nell’anfiteatro sono state a distanza di un solo anno l’una dall’altra: nel 2018 e nel 2019. Si festeggiavano rispettivamente la promozione in B, dopo una cavalcata trionfante nel girone C della terza serie, e quella in A, arrivata con il secondo posto alle spalle del Brescia. Un doppio salto di categoria vissuto come una vera e propria risurrezione: quale posto migliore per festeggiare se non nella piazza intitolata al santo “risorto”?
Il percorso degli ultimi anni porta inevitabilmente il nome di Fabio Liverani, l’allenatore che ha saputo riportare in paradiso una squadra che da troppi anni scontava la pena infernale della C. Era infatti dal 2012 che il Lecce rimaneva bloccato nella ex “Lega Pro”, nella quale era stato retrocesso a seguito di un’inchiesta giudiziaria sul calcio-scommesse. Da quell’anno, molte stagioni buie e difficili in cui il Lecce è a arrivato ogni volta ad un passo dalla B, per poi cadere puntualmente nella finale o nella semifinale dei playoff. Con la curva, però, sempre immancabilmente piena, come altrove accade solo nei big match di Serie A. L’ennesima dimostrazione che quella del Lecce avrebbe molto da insegnare a gran parte delle tifoserie d’Italia.
Piazza Mazzini
Se si parla di promozioni, non si può non menzionare la stagione 1984-85, al termine della quale il Lecce approdò per la prima volta in Serie A.
Una storia che parte quasi un decennio prima, nel 1976, quando i salentini vinsero il treble minore, composto dal campionato di Serie C, dalla Coppa Italia e dalla Coppa Italo-Inglese (le ultime due entrambe riservate ai semiprofessionisti). Nello stesso anno si realizzò un importante cambio al vertice: l’ex presidente Antonio Rollo venne sostituito da Franco Jurlano, già membro del consiglio di amministrazione della società.
Il periodo della presidenza Jurlano si sarebbe rivelato uno dei più vincenti (se non il migliore in assoluto) nella storia del Lecce. Alla prima storica promozione in B seguirono nove stagioni consecutive in cadetteria, in cui la squadra non si ritrovò quasi mai a dover lottare per la salvezza. In mezzo, anche qualche sfizio, come la beffa al Torino campione d’Italia nel turno preliminare di Coppa Italia 1976-77.
La stagione 1984-85 si aprì con grandi polemiche e con uno scetticismo generale dei tifosi. La squadra, arrivata quarta l’anno precedente, era rimasta pressoché identica e non era stata rinforzata con dei nomi capaci di scaldare la piazza. Inoltre, il quadro delle partecipanti al campionato prevedeva compagini apparentemente ben più attrezzate a raggiungere le prime posizioni in classifica. Tutto ciò concorse a creare un iniziale clima pessimistico e disilluso. Una situazione ravvisabile anche dai pochi abbonamenti sottoscritti (solo 500).
Le prime partite sembrarono dar ragione alla tifoseria: dopo le due vittorie iniziali con Sambenedettese e Varese, la squadra di Eugenio Fascetti andò incontro ad una serie di pareggi e sconfitte (tra cui quella nel derby con il Bari) che contribuirono ad accrescere il malcontento. Uno dei primi segnali di svolta arrivò il 25 novembre con la vittoria per 3-1 contro il Genoa, sulla carta la squadra più forte del torneo. Da quel giorno lo stadio ritornò a popolarsi, l’entusiasmo e la speranza del popolo a crescere. Dopo un secondo periodo difficile nel mese di gennaio, iniziò una cavalcata entusiasmante dei salentini nel girone di ritorno, con 20 punti in 12 partite (la vittoria ne valeva due).
Il campionato si rivelò fino all’ultimo equilibrato e combattutissimo. Pisa, Lecce, Perugia, Bari e Triestina diedero vita ad una contesa spettacolare per le prime tre posizioni. Ogni punto poteva rivelarsi decisivo. Ecco perché, ad esempio, i tifosi giallorossi si ritrovarono a festeggiare un pareggio in rimonta con il Campobasso come se avessero vinto. Oppure a soffrire per novanta minuti e poi tirare un sospiro di sollievo dopo uno 0-0 a Perugia.
Alla fine, il 16 giugno 1985, l’1-1 dell’ultima giornata in casa del Monza spalancò definitivamente le porte del paradiso. Il Lecce veniva promosso come secondo, a pari punti con il Pisa e con uno in più rispetto ai cugini del Bari.
Una gioia incontenibile esplose dopo il tanto atteso fischio finale. Il centro storico, le vie e le piazze furono inondate da un’immensità di gente, che ballava, cantava ed urlava come mai aveva fatto prima. Tutti parteciparono, uomini e donne, bambini ed anziani, perché quella era una vittoria per la città e per tutta la terra salentina. Non soltanto perché la squadra giallorossa era rimasta nascosta troppo a lungo dall’odiatissima ombra del più blasonato Bari. La promozione aveva anche un valore simbolico: la riscossa di una città dell’estremo Sud, che riusciva ad avere finalmente accesso ad un campionato storicamente riservato alle grandi società settentrionali.
Uno dei luoghi chiave di quella giornata, come si vede nella seconda metà delle riprese, fu Piazza Mazzini. Le bandiere e i drappi giallorossi ne inondarono l’intera superficie, con la fontana al centro che attirò l’interesse generale. Le immagini mostrano decine e decine di tifosi intenti a tuffarsi al suo interno e a bagnarsi con l’acqua, contaminata anch’essa dai sopraccitati colori. Una pratica che da quel giorno è diventata un must, tanto da spingere il Comune a fermare l’erogazione nella fontana ogni qual volta sembrino esserci i presupposti di una festa.
D’altronde, Piazza Mazzini è stato sempre un luogo interessato da grandi affluenze, come dimostra il suo secondo nome, Piazza Trecentomila. Per l’inaugurazione del Congresso Eucaristico Internazionale del 1956, si stima infatti che al suo interno si siano riunite più di trecentoventimila persone. Non a caso, la piazza venne progettata e realizzata proprio in vista di quell’evento.
Oggi rappresenta il centro del quartiere commerciale cittadino, frutto dell’espansione urbanistica in direzione del mare. Una zona moderna e, artisticamente parlando, semplice, che non ha nulla a che vedere con il trionfo del Barocco conseguito, ad esempio, con la vicina Basilica di Santa Croce o con il Duomo. Barocco che è comunque accennato e rievocato nelle forme della fontana, con una coesistenza di stili teoricamente opposti.
I murales del quartiere 167 B
In una città in cui convivono senza stonature così tanti stili diversi, non potevano mancare delle opere legate all’arte urbana. E così, muovendoci in direzione dello stadio, troviamo il quartiere popolare 167/B, che sta letteralmente rinascendo grazie ad una bellissima iniziativa.
Stiamo parlando di una delle zone più povere e difficili del capoluogo leccese. Una zona in cui criminalità e degrado sono inevitabilmente all’ordine del giorno. Una periferia dimenticata, troppo distante dall’eleganza e dai fasti del centro. Fino a poco tempo fa, neanche il paesaggio era d’aiuto: le facciate delle palazzine, fredde ed anonime, concorrevano a rendere ancora più cupa la vita della gente che ci abitava.
Ma da alcuni anni a questa parte, un forte sodalizio sta contribuendo ad infondere nuova speranza e nuovi colori. Si tratta della collaborazione tra la parrocchia di San Giovanni Battista e la “crew” 167/B Street. Il parroco, Don Gerardo, ha sin da subito approvato e appoggiato, anche economicamente, il progetto presentato dai giovani dell’associazione. Nel 167 Art Project si legge infatti la voglia di riqualificare il quartiere, esteticamente e non solo, per instillare negli abitanti un senso di appartenenza, sentimento opposto alla rassegnazione che don Gerardo ha sempre cercato di combattere.
Nel corso del tempo, sono stati organizzati sempre più interventi e molte facciate sono ora occupate da enormi murales colorati. Alla loro realizzazione hanno partecipato numerosi artisti, alcuni del territorio come Francesco Ferreri (Chekos Art), fondatore insieme ad Ania Kitlas del laboratorio. Altri invece hanno viaggiato per dare una mano, come il francese Mantra, la spagnola Julieta XFL, il serbo Artez o il casertano Bifido.
Il progetto prevede poi, come qualsiasi forma di arte, di lasciare un messaggio, riguardo temi e problematiche sociali o ambientali. Il greco Dimitri Taxis, ad esempio, con la sua “Viktoria”, una donna ritratta nel momento della vendemmia, ha voluto sottolineare il legame tra uomo e natura. L’inquinamento del mare è trattato invece nel “Mamma Perdono” dello spagnolo Sabotaje Al Montaje, in cui è raffigurato un pescatore. O, ancora, il tema del razzismo, individuabile nell’opera più recente di Chekos Art, “Il mondo è nostro”, in cui due bambini con colori di pelle differenti si abbracciano.
In un quartiere così vicino allo stadio, però, non potevano mancare ovviamente dei murales dedicati alla squadra del Lecce. Di questo argomento si è occupato, com’era giusto che fosse, l’artista locale Chekos Art.
La prima opera, realizzata in Via Ragusa nel 2016, si estende per oltre 250 metri lungo il muro di cinta dei campetti parrocchiali. Il soggetto, il cui volto si ripete per ben sei volte, è Juan Barbas, detto “Beto”, uno dei calciatori più amati dai tifosi leccesi. Barbas venne acquistato dalla società nel 1985, subito dopo la primissima promozione, e dopo appena due stagioni ne divenne il capitano. Rimase a Lecce per cinque anni, durante i quali costituì con l’altro argentino, Pedro Pasculli, un duo ancora oggi ricordato con nostalgia.
Il capolavoro più significativo di Ferreri rimane però quello terminato l’anno successivo, il 2017. Si trova sul palazzo di fronte e parla della pagina più triste del calcio leccese.
I due giocatori raffigurati tra la Colonna con la statua di Sant’Oronzo e il corteo degli Ultrà sono infatti Ciro Pezzella e Michele Lorusso. Entrambi difensori, morirono insieme, a causa di un incidente automobilistico, il 2 dicembre 1983. La domenica successiva la squadra avrebbe dovuto giocare in trasferta a Varese, quindi i ragazzi e lo staff avrebbero viaggiato con l’aereo. Ciro e Michele, accomunati dalla paura di volare, avevano optato per una soluzione più lenta, ma sicura: il treno da Bari. Purtroppo, i due non arrivarono mai alla stazione e non salirono mai su quel treno, perché la loro vita si fermò all’altezza di Mola di Bari.
Ciro e Michele trovano di diritto un posto nella storia della squadra (il secondo, tra l’altro, ne è tuttora il primatista di presenze, con 418 gettoni). La loro morte fa parte del bagaglio di racconti e tradizioni che i tifosi del Lecce tramandano alle nuove generazioni. Finalmente, però, è arrivato un omaggio concreto e visibile a tutti: Chekos Art non poteva fare davvero di meglio.
Stadio Ettore Giardiniero – Via del mare
La nostra passeggiata virtuale all’interno della città di Lecce termina naturalmente con lo stadio. Perché, senza di esso, non esisterebbe nulla da festeggiare nell’anfiteatro romano o in Piazza Mazzini. E neanche una storia da dipingere su un muro o su una facciata. Il punto nevralgico del calcio e del tifo leccese è il Via del mare.
A due passi dal mare il tifo esploderà,
quando il Lecce in campo scenderà.
L’impianto, come facilmente intuibile, deve il suo popolare soprannome alla sua particolare ubicazione all’interno della città. Esso infatti sorge sulla strada per San Cataldo, frazione marina del capoluogo provinciale. Il nome ufficiale invece, meno utilizzato e non particolarmente gradito ai tifosi, venne aggiunto in seguito alla morte dell’ex sindaco Ettore Giardiniero, il quale diede il via libera per la sua costruzione.
L’inaugurazione avvenne l’11 settembre 1966, con una partita amichevole finita 1-1 tra i padroni di casa e i russi dello Spartak Mosca. Fino a quel momento, il Lecce aveva giocato le proprie partite nel “Carlo Pranzo”, struttura demolita nel 1985. Questo stadio, facente parte di un centro polisportivo, era situato nei pressi di Porta Napoli e, durante il periodo fascista, era stato intitolato al generale Achille Starace.
Lo stadio e i supporter leccesi, come non ci è mancato già di sottolineare, godono di una fama che si estende a tutto il territorio nazionale e in ogni categoria. Sono una delle tifoserie più calde in assoluto e giocare al Via del mare è difficile per chiunque, anche per un top club. Solo nella scorsa stagione, il fattore campo ha portato a due pareggi per 1-1 contro Juventus ed Inter, le prime della classe, e alla vittoria per 2-1 contro la Lazio. Tutti gli amanti del calcio conoscono almeno una squadra che in casa gioca con una spavalderia e una sicurezza che in trasferta non sarebbe mai capace di replicare. Questo perché sa bene di poter contare sul supporto del pubblico, lo sente, ne trae forza e coraggio. Ecco, il Lecce è una di queste squadre.
E la società non ha mancato di ringraziare i suoi tifosi tramite una dedica speciale. Nel 2004, infatti, l’allora presidente Quirico Semeraro decise di dedicare la maglia numero 12 alla curva, in quanto quest’ultima poteva considerarsi “il dodicesimo uomo in campo”. Per rendere l’idea di tutto ciò, basti pensare al soprannome storico del Via del mare: “La tana dei lupi”. Da una parte rappresenta benissimo un luogo in cui per gli estranei è difficile accedere, ma ancor di più lo è uscirne vivi. Allo stesso tempo, il termine “tana” rimanda al calore familiare, quasi materno, che coccola e rassicura la squadra.
La scelta dell’animale non è però casuale: il lupo è uno dei simboli della città, mentre l’altro è l’albero di leccio. Entrambi sono raffigurati da sempre all’interno dello stemma del club, seppur con metodi e stili via via differenti. Dal 1999 un lupo di nome Wolfy, con addosso l’immancabile maglia giallorossa, è diventato la mascotte ufficiale della squadra.
Ovunque tu sarai con te saremo noi,
col cuore giallorosso ovunque andrai!
I tifosi leccesi sono ugualmente conosciuti per la loro forte tendenza a seguire la squadra in trasferta. Questo avviene anche “grazie” alla presenza massiccia, in qualsiasi città italiana, di salentini emigrati a causa dello studio o del lavoro. Il Lecce non è mai solo, neppure quando viaggia lontano dalla sua dimora. A tal proposito, esiste un aneddoto che i tifosi salentini non mancano mai di ricordare con fierezza ed orgoglio. In occasione dello spareggio contro il Cesena per la promozione in serie A, l’8 luglio 1987, più di diecimila leccesi raggiunsero San Benedetto del Tronto, dove si giocava la partita. Purtroppo ciò non bastò e il Cesena vinse lo spareggio, ma rimane ancora il ricordo di un’impresa che fu davvero memorabile.
La trasferta forse più felice nell’intera storia della squadra fu invece quella in occasione della vittoria per 4-0 al San Nicola di Bari. Era il 22 dicembre 2007 e si giocava la diciannovesima giornata di Serie B, a ridosso delle festività natalizie. I tifosi salentini che accompagnarono la squadra nell’odiato capoluogo pugliese furono circa 5000. E l’esodo questa volta servì: la squadra di Papadopulo dominò l’intera partita, vincendo 4-0 con gol di Tiribocchi, Tulli e doppietta di Abbruscato. Il San Nicola era diventato proprietà giallorossa: dal settore casalingo non si sentiva volare neanche una mosca.
Quello fu solo un capitolo della lunghissima rivalità tra Lecce e Bari. Due città mai andate completamente d’accordo, come accade frequentemente all’interno dello stesso territorio regionale. Il primo derby di Puglia si giocò l’8 dicembre 1929 in Serie B (vittoria per 1-0 del Lecce), mentre per il primo in massima serie si dovette aspettare il 27 ottobre 1985 (2-0 per il Bari). Ora è da più di nove anni che le due squadre non si incrociano: l’incontro più recente risale a maggio 2011.
L’ultima partita, decisiva per la permanenza in A di entrambe, portò alla retrocessione del Bari e alla salvezza del Lecce. Soltanto un anno dopo si scoprì dello sciagurato accordo avvenuto tra la squadra giallorossa e alcuni giocatori dei Galletti (in particolare Andrea Masiello, autore di un autogol). Tenendo conto anche della condanna subita dai salentini, è facile immaginare che entrambe le tifoserie abbiano dei conti in sospeso da risolvere quando arriverà la prossima sfida.
Il rapporto turbolento con il Bari condiziona anche altre rivalità: è il caso di squadre gemellate con i biancorossi, come ad esempio Salernitana, Reggina e Sampdoria. A livello regionale, non scorre buon sangue con Brindisi, Taranto (nonostante un periodo di tregua) e Casarano. Le tifoserie con cui invece sussiste da tempo un buon rapporto di amicizia sono soprattutto Palermo e Genoa, anche se quest’ultima ha avuto un ruolo non marginale nelle recenti retrocessioni del Lecce.
Passare da una retrocessione dolorosa, maturata all’ultima giornata, ripartire subito, dopo una settimana, è un segnale forte che vogliamo dare per aprire un nuovo ciclo.
Queste le parole di Saverio Sticchi Damiani, arrivate nel mese di agosto in occasione della presentazione del nuovo direttore tecnico, Pantaleo Corvino. Nuovo per modo di dire, visto che Corvino era già stato una figura societaria importantissima nei primi anni duemila. Al suo eccezionale fiuto da talent scout la città di Lecce deve infatti la scoperta e l’acquisto di giocatori come Valeri Božinov, Ernesto Chevantón, Mirko Vučinić o Cristian Ledesma. Poca roba insomma.
Ora Corvino è tornato per compiere altri miracoli, la stessa cosa che si chiede ad Eugenio Corini, subentrato a Liverani come nuovo allenatore della squadra. Le basi ci sono, gli uomini giusti anche. La tifoseria è la solita garanzia, Covid-19 permettendo.
L’anfiteatro, Piazza Sant’Oronzo e Piazza Mazzini, attendono, con la pazienza tipica di chi è immortale.
Facciate su cui disegnare nuove pagine di storia non mancano, anzi.
Lecce è pronta, Lecce sa come si fa.
Un ringraziamento speciale a Leonardo Scappaviva ed il gruppo dei “Kapuvakanti”
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