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CALCIO ITALIANO

Lettera a Zlatan Ibrahimovic

Questa è la lettera di un’intera generazione di milanisti. Una generazione di ventenni, ancora troppo piccoli per ricordarsi nitidamente dell’ultima Champions vinta ad Atene, ma abbastanza grandi per aver vissuto gli ultimi strascichi nostalgici del Milan di Berlusconi. È una generazione che ha convissuto da subito con un conflitto: da un lato il peso di una storia gloriosa finita da poco, i racconti delle notti di Champions, persino gli sbeffeggiamenti dei fratelli più grandi che “ma è possibile che da quando vieni allo stadio abbiamo smesso di vincere”; dall’altro, appunto, un presente decadente, fatto di squadre inadeguate inevitabilmente schiacciate dal peso di una storia troppo pesante. Noi, appartenenti a quella generazione di milanisti che sembrava maledetta, noi che siamo cresciuti vivendo l’epopea degli scudetti dell’Inter di Mancini, noi che ad Atene non eravamo ancora abbastanza appassionati per gioire, ma a Madrid, quando in finale c’era l’Inter, amavamo il Milan già abbastanza per soffrire. Noi che ci chiedevamo se il nostro turno sarebbe mai arrivato, o se la nostra generazione, come una macchia tragica sul destino del Milan, ne avrebbe segnato la fine degli orizzonti di gloria. Poi, in una giornata torrida di fine Agosto 2010, proprio a pochi mesi dal triplete nerazzurro, sei arrivato tu, e tutto è cambiato. Caro Zlatan, questa lettera è per te, ed è l’unico modo che abbiamo per dirti grazie. Per tutta la tua carriera hai girovagato per il mondo con la tua solita aria da spaccone, dimostrando che a prescindere dalla piazza il tuo talento poteva generare, sempre, più di trenta gol stagionali. Poi sei arrivato da noi, ci hai fatto sentire importanti, ci hai fatto sapere che anche noi potevamo vincere, noi della generazione dei tifosi più sfigati; ma soprattutto ci hai scelto, hai deciso che eravamo la tua isola felice. Da nomade quale sei sempre stato ti sei deciso a trovare casa, e hai piantato da noi le tue radici. Più che per le gioie, più che per i gol, più che per l’umiltà con cui ti sei sobbarcato il peso di un’intera società in crisi tre anni fa, ti ringraziamo per questo: per averci scelto, per esserti fermato così a lungo. Grazie.

Zlatan festeggia lo scudetto con un sigaro in bocca
L’iconico festeggiamento di Ibrahimovic a Reggio Emilia (Foto: Tiziana Fabi – AFP)

Milan-Zlatan: Atto I

Caro Zlatan,

Ti ricordi quando sei arrivato? Non so chi tra te e noi avesse vissuto un anno peggiore. Tu deluso per un amore mai scoccato con Pep a Barcellona, ma soprattutto riconosciuto come propiziatore del triplete interista in virtù dello scambio con Eto’o; noi, puoi immaginare, cresciuti coi racconti dei nostri padri, presenti a Barcellona contro lo Steaua nell’89, a Manchester nel 2003 contro la Juve, a Istanbul nel 2007 col Liverpool (se tra le ultime due c’è una terza finale, scusate, ma non ce l’hanno mai raccontata), e alla fine ci ritroviamo ad assistere alla prima Champions dell’Inter da quarantadue anni. Era meglio appassionarsi ai motori, allo scherma, al golf, ci dicevamo. Ma poi, appunto, sei arrivato tu, e, qualsiasi tifoso milanista può testimoniarlo, da subito abbiamo avuto la consapevolezza di aver fatto un salto di dimensione. Ci sono giocatori da sistema, che hanno bisogno di un ingranaggio funzionale per rendere; poi ci sono i fuoriclasse, quelli come te. Coi fuoriclasse è tutta un’altra questione: non appena arrivano nella tua squadra, immediatamente ti senti più forte, più felice, più fiero. Sapere che eri dei nostri, sapere che avresti giocato con la nostra maglia per provare a riportare nella Milano rossonera uno scudetto che mancava da sette anni, ha dato a tutti noi una scarica di energia indescrivibile. Tra le cose meno importanti – si fa per dire – nulla condiziona le nostre vite, il nostro umore, come il calcio. Ecco, ti assicuriamo, caro il nostro vecchio Zlatan (non ti offendere), che da quando sei sbarcato con quel jet privato in compagnia di Adriano Galliani, ci siamo sentiti tutti più forti, più sicuri, nel calcio, ma anche nella vita. Prendevamo un brutto voto a scuola? Sì, ma intanto Zlatan Ibrahimovic giocava nel nostro Milan. Delusioni amorose? Peccato, ma nella nostra vita, da allora, c’era anche Zlatan Ibrahimovic, in grado di colmare qualunque vuoto. Tu, poi, avevi le idee chiarissime: a Milan-Lecce, prima giornata di campionato suggellata da un 4-0 che sapeva di dichiarazione di intenti all’intera Serie A, ti sei presentato nell’intervallo e ci hai subito caricati tutti; nessuno ha mai saputo farlo come te: «Sono venuto qui per vincere, e quest’anno vinciamo tutto». Alla fine non abbiamo vinto tutto, anche perché, diciamocelo, in Champions contro il Tottenham hai dimostrato che quella musichetta, anche da noi, un po’ la soffrivi, ma ci hai regalato un meraviglioso Scudetto. Segni quattordici gol e dodici assist, sembrano quasi pochi se paragonati alle tue medie, ma le statistiche non possono restituire il peso che hai avuto su quel Milan, su quel campionato, sulle nostre vite. Al tuo esordio a Cesena sbagli un rigore e perdiamo 2-0. Ora possiamo confessartelo, caro Zeta, pensavamo che la nostra maledizione si fosse abbattuta anche su un vincente come te: “se non vinciamo nemmeno con Ibra…”. Poi, dalla doppietta all’Auxerre, hai iniziato a segnare, e non hai mai smesso. Eravamo una generazione di tifosi lamentosi, frignavamo come borghesi decadenti convinti che non avremmo mai vissuto i fasti di un tempo, non saremmo mai stati felici e forti come i nostri padri. Poi, arrivi tu, come un superuomo, e ribalti tutto: in un anno siamo campioni d’Italia. Il secondo anno fai ancora meglio: 38 gol in 44 partite, toccando picchi di onnipotenza calcistica che al Milan non si vedevano da Kakà nel 2007, ma non basterà. La Juve di Conte vince lo scudetto in una stagione che tra il gol di Muntari, la sconfitta in casa con la Fiorentina e la consapevolezza di un evidente superiorità tecnica sprecata, lascerà sempre dell’amaro in bocca. Veniamo a quell’estate maledetta, quando i disastri dell’ultima gestione societaria ci hanno costretto a separarci. Forse tu ci avevi già scelto, avevi già deciso che il Milan era casa tua, ma noi credevamo che non ci saremmo più visti. Raramente ci siamo sentiti deboli come in quell’estate: con te ci eravamo finalmente sentiti grandi, avevamo toccato quelle vette che fino ad allora potevamo incontrare solo nei racconti; ma una volta assunta la dimensione tanto agognata, all’improvviso ci è stato tolto tutto. Ci siamo sentiti un po’ come Kendall Roy, non so se guardi Succession. Per tutta la vita abbiamo sognato un trono che ci era stato promesso, era la nostra ossessione, e quando finalmente è arrivato il momento dell’incoronazione, la corona ci è stata sottratta. Era Luglio, faceva caldissimo, e proprio come Kendall Roy, ci siamo rifugiati nel mare: chi in Liguria, chi a Forte dei Marmi, i più fortunati in Puglia e Sardegna. Ma pensavamo solo a te. 

Da lì fino alla tua seconda epifania, mentre tu segnavi caterve di gol a Parigi, noi siamo sprofondati in un incubo chiamato banter era; sette lunghissimi anni di mediocrità e inadeguatezza. Avevamo rimesso la testa sotto terra, ma questa volta era peggio: non si respirava più l’aria decadente delle stagioni 2008/09 o del 2009/10, quando ancora eravamo convinti che al Milan spettasse per diritto divino essere forte e competitivo. In quei sette anni eravamo intrappolati in un buco nero da cui non sembrava possibile uscire. Finché non è tornato al Milan Paolo Maldini, pronto a prenderci per mano in una fase durissima. Maldini, coadiuvato da Boban e Massara ha dovuto spalare tanto fango prima di poter costruire: eravamo diventati una creatura debole, stanca, ma soprattutto malata (economicamente e sportivamente). Dopo una prima fase di pulizia, finalmente abbiamo riseminato, piantando nell’ossatura della squadra tanti prospetti luminosi pronti a restituire al club una dignità che pareva persa. Ma non bastava: lo stesso conflitto che aveva colpito la nostra generazione, ora pesava sulle teste dei giocatori come una spada di Damocle. Il talento c’era, ma il peso della storia del club, le aspettative di tifosi abituati fin troppo bene, era insostenibile. Mancava una guida, un condottiero in grado di caricarsi sulle spalle il peso del mondo come Atlante. Mancava un campione che ci potesse ricordare che sì, anche noi potevamo vincere, ed era stato lui stesso a dimostrarcelo. Nel gennaio 2020 sei tornato nelle nostre vite. Ancora una volta, nonostante una sfida ancora più ardua, che a 37 anni ti ha costretto a rimetterti in gioco quando potevi svernare sfrecciando con la tua Harley a Sunset Boulevard, hai cambiato tutto. 

Zlatan esulta dopo il gol su rigore contro l'Inter
L’esultanza di Ibrahimovic dopo il famigerato rigore nel derby contro l’Inter (Foto: Olivier Morin – Getty Images)

Zlatan-Milan: Atto II

Veniamo al secondo atto di questa storia, l’ultimo, forse, in attesa di un possibile futuro in dirigenza. Quando sei tornato nel gennaio 2020, dominava lo scetticismo. Era bellissimo riaverti con noi, ma, realisticamente, cosa potevi fare a 38 anni, dopo un brutto infortunio al ginocchio e due anni in MLS? Mai sottovalutare il cuore di un campione, direbbe qualcuno. Sembrava la classica operazione nostalgia: ci abbiamo provato prima con Sheva, poi con Kakà. Non è mai stata la stessa cosa. Galliani ripeteva sempre che “certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano”, come cantava Venditti. Forse, però, talvolta sarebbe meglio non forzare i ritorni, per non macchiare il ricordo di meravigliose storie d’amore. Con te, Zlatan, temevamo accadesse lo stesso: temevamo di vederti stanco, impotente, triste di fronte all’evidenza di un corpo non più in grado di assecondare la testa di un campione. Ma tu sorprendi sempre, ti sei impelagato in una sfida impossibile, prendendoti la responsabilità di guidare una gruppo di ragazzini, proprio tu che per una carriera avevi giocato con Messi, Seedorf, Cavani e tantissimi altri campioni. Non hai mai cercato alibi: hai parlato subito di voler riportare il Milan in alto, di puntare allo scudetto in due anni. Ti prendevamo per matto, credevamo che a parlare fosse la tua solita egomania, quell’immagine che hai di te stesso che forse iniziava a diventare una caricatura. I primi sei mesi sono stati strani: a Milan-Samp faticavi a stare in piedi, puoi ammetterlo no? Poi il primo gol a Cagliari, non dimenticheremo mai la gioia nel tornare a gridare il tuo nome otto anni dopo. Solo a scandirlo con le nostre bocche Zla-tan Ibra-hi-mo-vic, per un attimo ci faceva sentire di nuovo forti. L’esultanza di Mauro Suma, dopo quel gol, racchiude il sentimento di un’intera tifoseria: “Ero solo in mezzo alla foresta come Pollicino e sei venuto a salvarmi”. Poi si tornava alla realtà di una classifica modesta, ma quegli attimi riempiti dalla tua presenza erano istanti in cui riassaporavamo una gloria che credevamo persa. C’è un’immagine bellissima di quel Samp-Milan: consoli Rafael Leao, con una delle tue pacche da omone che sprizza virilità da tutti i pori. Forse prima di tutti avevi capito che in quel ragazzo c’era un potenziale da vero Milan, e si trattava solo di spronarlo; la tua prima palla da giocatore del Milan (per la seconda volta), non a caso, è un’apertura per Rafa. Lui che nelle interviste all’inizio ti chiamava papà, mentre ora che si è fatto grande e ha vinto un campionato da MVP ti definisce un fratello. La grandezza che hai portato nella quotidianità degli allenamenti, più volte ribadita da Pioli, è un valore che non si può quantificare. Il Milan pre-Ibra era un gruppo di giovani talenti a cui mancava un modello per imparare a vincere; come sosteneva Platone, si impara sempre per imitazione, e la tua competitività sfrenata, la tua voglia insaziabile di vincere ogni partitella in allenamento, ha rappresentato l’esempio a cui i più giovani dovevano far riferimento. Nel 2020/21 segni 15 gol in 19 partite di Serie A, una media spaventosa per un atleta di trentotto anni: dall’incornata in cui svetti su Koulibaly alla doppietta contro l’Inter, scegliere singoli momenti per rappresentare quello che hai dato al Milan sarebbe impossibile. Il paradosso è che proprio nell’anno in cui segni meno, complici gli infortuni che rivendicano il peso degli anni, vinciamo lo scudetto. Hai completato la tua missione, Zlatan. Hai fatto credere a un gruppo di ragazzini che potevano farcela, a essere dei vincenti. Ti ricorda qualcosa? Già, proprio come avevi fatto con noi in quel 2011, e l’hai rifatto nel 2022, quando quel gruppo era ormai cresciuto nel segno dei tuoi consigli, del tuo esempio, e aveva imparato a camminare con le proprie gambe. Rafa non ha più bisogno delle tue pacche, surfa su quella fascia come un dio delle onde, ha capito finalmente quanto è forte. So che lo vorresti ancora più incisivo, ma apprezza i progressi che ha già fatto, no? A volte sei un maestro incontentabile. Forse sarebbe stato più bello chiudere con quel gol, poi annullato, a Reggio Emilia: giocavi con un ginocchio rotto, e non l’avevi detto a nessuno. Pochi centimetri, e avresti potuto concludere la tua storia nella gloria. Ma si sa, il destino non fa sconti a nessuno. Chiuderai in un Milan-Verona, senza poter scendere in campo, dopo una stagione discreta, in cui i tuoi ragazzi hanno peccato più volte di superbia, ma in Champions si sono comportati da campioni, almeno fino alla semifinale. Se ce lo permetti, Zlatan, la paura è ancora tanta, come in quella triste estate del 2012. Abbiamo paura che senza di te, senza il loro Papà a tenerli sull’attenti ogni giorno a Milanello, quei ragazzi che hai cresciuto tornino ad accontentarsi, sedendosi sugli allori di uno scudetto che deve essere solo un punto di partenza.

Dopo tutto, non sono mica tutti come te: ossessionati dalla vittoria, dal lavoro, dalla fatica e dal peso delle pressioni. É vero, ora abbiamo una base ben più solida del 2012, siamo sani economicamente, con Mike, Olivier e Sandro abbiamo già dei tuoi potenziali eredi al trono. E poi, diciamocelo, quest’anno è già stato come non averti. Ma fa comunque paura, perché la nostra è una generazione che ha conosciuto la vittoria due volte, ed è sempre stato soprattutto per merito tuo. La nostra felicità sportiva è sempre concisa col momento in cui abbiamo potuto gridare, con tutta la carica del mondo e a pieni polmoni il tuo nome. Senza di te, ancora oggi, fatichiamo a vederci grandi, e non possiamo non temere di ripiombare in quel buco nero di sette anni, anche se oggi non ci sono motivi razionali per crederlo. La nostra felicità sportiva è sempre stata condivisa con te, e come dopo tutte le grandi storie d’amore, abbiamo paura di non affezionarci mai più così a fondo. La prima volta sei stato un campione, ma la seconda volta sei stato un eroe greco: ti sei fatto meno ingombrante, più umile, disposto ad accettare qualche panchina, qualche passaggio sbagliato di compagni che non erano all’altezza del tuo straordinario talento. Hai deciso di fare la punta fino in fondo, perché il tuo corpo non era più in grado di svariare per tutto il campo, e al Milan servivi in area di rigore. Al Milan, non a te stesso. Per una carriera sei stato definito come un narciso, incapace di legarsi fino in fondo a una sola squadra, superbo, arrogante, egoriferito, divisivo. Poi ci hai scelto, e hai plasmato il tuo carattere per il bene del tuo club, non più per i tuoi stessi interessi. Grazie per averci scelto, Zlatan, da oggi, purtroppo, di nuovo senza di te nelle nostre vite, direbbe Mauro Suma. Buona fortuna.

Fonte immagine di copertina: Marco Luzzani – Getty Images

Autore

Antonio, 19 anni, studia Filosofia alla Statale di Milano. Amante del calcio e della sua epica, qui si finge anche un esperto.

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